VINCENZO SCALIA: MAFIE DI IERI E DI OGGI
30/6/2020
di Vincenzo Scalia*
[ Prosegue la nuova rubrica, in cui l’ ’ospite’ di turno ci indica 3 – e non più di 3 ! – libri leggendo i quali ci si può fare un’idea dell’argomento di cui l’ospite stesso è un grande competente. Dopo Giorgio Gattei e il Valore, ecco Vincenzo Scalia ] Sulla natura e le origini delle mafie si è disquisito per molto tempo. La definizione di un fenomeno sociale all’interno del campo intellettuale non è mai immune da conflitti politici o interessi particolari, così come è filtrata dalle rappresentazioni che orientano gli attori impegnati ad elaborare una definizione. Nel caso delle mafie italiane, ad esempio, questi tre elementi si sono manifestati compiutamente. Il ruolo attivo di mediazione politica ed economica svolto dalle mafie italiane a livello nazionale, che ci accingiamo ad analizzare, ha fatto sì che venissero ritardati non tanto l’azione repressiva e la conoscenza, ma, addirittura, l’esistenza delle organizzazioni stesse. Si pensi a Pitrè, a Vittorio Emanuele Orlando, all’insabbiamento dell’azione del questore Sangiorgi, che già nel 1899 aveva appurato e descritto approfonditamente l’esistenza di Cosa Nostra. Inoltre, le classi dirigenti locali, hanno svolto un ruolo non secondario nell’intorbidire le acque, in quanto gli interessi mafiosi si intrecciavano a doppio filo con quelli dei notabilati locali. Il caso Notarbartolo ne è l’esempio più lampante. Infine, un’interpretazione distorta della società e della cultura meridionale, e, più specificatamente, siciliana, hanno deformato l’analisi delle mafie compiuta dall’esterno, sia a livello istituzionale che sul piano intellettuale. E’ il caso del prefetto Gualterio, a cui dobbiamo il termine mafia, in cui i pregiudizi anti-siciliani sono evidenti, nella misura in cui il malessere sociale, la delinquenza di strada, la criminalità organizzata, vengono inseriti in un unico calderone, col brodo di cottura rappresentato dall’irriducibilità genetica dei siciliani all’autorità. Sulla falsariga di Gualterio si muove, più di cento anni dopo, il suo conterraneo Diego Gambetta. Dietro la maschera di teorico della rational choice cattedratico ad Oxford, allignano i pregiudizi più stantii sulla sfiducia atavica dei siciliani nei confronti dello Stato e del mercato, e sul loro ricorso alla violenza privata. Questa sfiducia, ovviamente, è causata dalle molte dominazioni che la Sicilia avrebbe subito. A partire da questi stereotipi, Gambetta costruisce il suo modello teorico, che definisce la mafia come un’industria della protezione privata che prospera in seguito al calcolo tra i costi e i benefici che ogni siciliano medio realizza. La strada verso l’uscita dal pregiudizio è lunga e tortuosa, ma vale la pena di intraprenderla se ci si pongono tre specifiche domande: 1) che cosa è la mafia? 2) ci sono differenze tra le varie organizzazioni criminali? 3) In che relazione si pongono i mondi legali e illegali tra loro? Per ognuna di queste domande, cercherò di proporre un percorso di riflessione che si articola attorno ad un libro sul tema. Alla prima domanda, si può trovare risposta nel libro di Umberto Santino, Storia del Movimento Antimafia. Dalla Lotta di Classe all’Impegno Civile (Editori Riuniti, Roma, 2017 II ed.). In questo libro l’autore dispiega compiutamente il paradigma della complessità che contraddistingue il suo lavoro pluridecennale nell’analisi dei fenomeni mafiosi. Le mafie non si connotano per essere fenomeni monodimensionali, bensì operano in campo economico, puntano ad acquisire quote di potere politico, si avvalgono di un consenso sociale diffuso, fanno leva su catene valoriali e relazionali estese. Il lavoro di Santino, pur essendo calibrato sul movimento antimafia siciliano, è fungibile anche per altre realtà, nella misura in cui evidenzia due importanti aspetti della questione mafiosa. Il primo aspetta riguarda le origini della mafia, che in Sicilia nasce a cavallo della trasformazione capitalista dei rapporti di produzione, coi latifondi e le miniere votate allo sfruttamento intensivo ai fini dell’economia da esportazione. Si tratta di una precisazione importante, che fa piazza pulita del pregiudizio, spesso strumentale, che inquadra la criminalità organizzata come un residuo pre-moderno, che si forma tra le pieghe dell’arretratezza economica. Santino dimostra che nella dell’Ottocento, così come, possiamo dire, nel Messico contemporaneo, la criminalità organizzata prolifera nella misura in cui esprime la capacità di intercettare la modernizzazione economica e sociale, e di volgerla a proprio vantaggio sia proponendosi come imprenditrice nei settori lecito e illecito, sia fungendo da mediatrice dei rapporti sociali, in modo da crearsi un consenso sociale diffuso. E’ stato così per la gestione dei latifondi come nel caso del sacco di Palermo. Allo stesso modo, l’analisi di Santino, ci è utile per capire come i narcos messicani intercettino il desiderio di mobilità sociale ascendente di vasti strati della popolazione, nonché si rivelino cruciali per la fornitura di beni e servizi dell’economia contemporanea. In secondo luogo, Santino ci spiega come non esiste la dicotomia Stato-mafia. Da un lato, le mafie agiscono ponendosi a cavallo tra la sfera legale e quella illegale. Il sacco di Palermo, per esempio, è avvenuto modificando il piano regolatore. I suoi promotori politici erano collusi con la mafia, o ne erano esponenti diretti. Dall’altro lato, politici e imprenditori, delegano alla mafia la gestione de facto del territorio, oppure ne richiedono i servizi di mediazione elettorale. E’ all’interno del mutuo e costante flusso di scambi e sovrapposizioni tra politica ed economia, tra legale e illegale, che si può cogliere la forza dei fenomeni mafiosi. Se è vero che le mafie si connotano per intercettare i flussi dell’economia capitalista, per porsi a cavallo tra il legale e l’illegale, per intrattenere relazioni di mutualità con la politica, è altresì vero che ogni organizzazione possiede la propria peculiarità. Ad esempio la ‘ndrangheta nasce come forma di autodifesa del territorio calabrese su base familiare, mentre la camorra si sviluppa nei bassi napoletani per regolamentare le attività illegali e i disordini causati dalla sovrappopolazione. Come articolare queste differenze sul piano concettuale? Alan Block, un criminologo statunitense scomparso pochi anni fa, ci fornisce gli spunti appropriati nel suo libro East Side West Side. Organising Crime in New York. 1930-1950 (Transaction Publisher, Trenton, NJ, 1983). Al pari di Santino, Block inquadra le organizzazioni criminali all’interno dei rapporti di produzione capitalisti. Dalla sua analisi dei mobs newyorkesi tra il 1930 e il 1950, affiorano due tipi di organizzazioni criminali. La prima è quella del power syndicate, ovvero di un gruppo criminale dedito principalmente al controllo illegale del territorio. Il lavoro di questi gruppi risulta molto richiesto dai datori di lavoro, quando debbono tenere sotto controllo la manodopera e assicurarsi la pace sociale e il contenimento dei costi di lavoro, e dalla stessa polizia nella misura in cui i power syndicates riescono a comprimere i tassi di criminalità di strada, accreditandosi come tutori informali dell’ordine. La seconda tipologia di criminalità organizzata è quella dell’enterprise syndicate, ovvero di quei gruppi criminali dediti ai traffici illeciti. Questi ultimi forniscono beni e servizi illegali alla società ufficiale, come prostituzione, stupefacenti e gioco d’azzardo. A differenza dei power syndicates, stabiliscono con la polizia un rapporto di convivenza, basato sulla poca visibilità dei traffici. Entrambi i syndacates risultano proficui ai politici quanto si tratta di svolgere mediazione elettorale coi gruppi etnici di provenienza: i mobs italiani, irlandesi, ebrei, sono radicati sul territorio e possono mobilitare le risorse necessarie a fare funzionare una macchina di partito. Inoltre, i soldi delle organizzazioni criminali, vengono investiti nelle attività lecite, fornendo capitali freschi ad un’economia che, negli anni trenta del novecento, si dibatteva nella depressione. Da notare che i due tipi di syndicate non impostano rapporti a compartimenti stagni, né per tipo di attività, né per etnia. Il siciliano Lucky Luciano, ad esempio, lavorava volentieri con l’ebreo Bugsy Siegel e con gli Irlandesi di Hell’s Kitchen, e le partnership economiche tra gruppi criminali, nei settori leciti come in quelli illeciti, erano frequenti. Quest’ultimo aspetto, ci conduce all’ultima area di riflessione, ovvero il rapporto tra economie legali e illegali. Questo nodo va sciolto in relazione alle distinzioni talvolta grossolane tra sano e malato che vengono spesso presentate in relazione all’economia, secondo un’impostazione ideologica che vorrebbe le mafie agli antipodi rispetto alla modernità capitalista. Se è vero che le mafie influenzano, laddove sono radicate, l’economia in modo decisivo, il peso delle cosiddette “economie sporche” va misurato non in base a categorie morali, bensì in relazione al tipo di rapporti di produzione esistenti nel contesto che si vuole analizzare. Per chi voglia intraprendere un percorso di questo tipo, il libro di Vincenzo Ruggiero, Economie Sporche (Bollati Boringhieri, Torino, 1996), si rivela un prezioso strumento di orientamento analitico. Al pari di Santino e Block, Ruggiero rigetta l’equazione tra mafie e arretratezza, per svolgere un’analisi improntata alla complementarità tra le due economie. Sul piano organizzativo, le organizzazioni criminali risultano assolutamente speculari ai gruppi economici che operano nel settore lecito. Le gerarchie, per quanto mediate dalla violenza, ricordano aziendali. Allo stesso modo delle aziende, le mafie, seguono le trasformazioni che si verificano all’interno del capitalismo. Ecco perché l’inchiesta Mafia capitale non dovrebbe stupire più di tanto: il caso-Carminati racconta l’evoluzione della criminalità in un network che, sulla scia delle trasformazioni post-fordiste, ingloba, in relazioni di diversa intensità e durata, settori rilevanti della politica e dell’economia lecita. Sul piano della cointeressenza, l’apporto di Ruggiero alle relazioni tra economie “sporche” e “pulite” si rivela ancora più importante. Innanzitutto, perché le due economie interagiscono all’interno dello stesso contesto economico-finanziario. Si utilizzano gli stessi strumenti di transazione economica, ci si rivolge alle stesse banche, si investe negli stessi settori. Non ci sono due circuiti economici e finanziari distinti, e il caso di Sindona, che immetteva i profitti della mafia siciliana nella borsa milanese, o di Bontade, che finanziava la nascita di importanti gruppi imprenditoriali privati del Nord, sono lì a dimostrarlo. Inoltre, se le mafie forniscono beni e servizi illegali come prestiti ad usura, stupefacenti, prostituzione, gioco d’azzardo, lo fanno anche a partire da una domanda diffusa, che proviene dalla società pulita. Lo stesso può dirsi in merito a servizi come lo smaltimento dei rifiuti, che la camorra napoletana, in questi anni, ha svolto per conto dell’imprenditoria settentrionale. Lo stesso si può dire del reclutamento della manodopera, del contenimento del costo del lavoro, della repressione delle attività sindacali. La moda milanese si avvale della sartoria napoletana sottocosto, la cui filiera è organizzata dalla camorra. Il caporalato, da villa Literno a Ragusa, è organizzato dalle mafie, e gli omicidi di lavoratori che tentano di rivendicare i loro diritti ne costituiscono una tragica testimonianza. Se le mafie costituiscono un’articolazione del capitalismo, l’antimafia deve essere un’articolazione dell’anticapitalismo. (*) Vincenzo Scalia è Reader in Criminology nell’University of Winchester. Ha insegnato in Messico e in Argentina. Tra i suoi libri ricordiamo: Migranti devianti e cittadini. Uno studio sui processi di esclusione (2005), Le filiere mafiose: criminalità organizzata, rapporti di produzione, antimafia (2016) e A Research Agenda on Global Crime (con Tim Hall, 2019)
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