UNA RIVOLUZIONE BORGHESE? - La storia del Rock e il Presente Neoliberista nel romanzo di D.J. Taylor
4/9/2018
di Pavlov Dogg
D.J. Taylor, Rock and Roll is Life: The True Story of the Helium Kids by One Who Was There, Constable, 2018 Mentre il tempo procede, noi siamo attorniati dalle rovine di Roma, da cattedrali, da castelli. La storia non è nulla di separato dalla vita, nulla di distinto dal presente per la sua distanza temporale. Il fiorire di un’epoca è breve e da un’epoca all’altra si tramanda la fame di una soddisfazione totale che non può mai essere saziata. (Wilhelm Dilthey) No, non è John Lennon – e nemmeno Mick Jagger – il primo personaggio reale a fare un ‘cameo’ in questo romanzo che pure è solidamente ambientato nel mondo della musica rock (e nel quale a tempo debito compaiono brevemente i due succitati, e Paul McCartney, Keith Richards nonché Andy Warhol), all’interno del quale si svolge la carriera di 5 ragazzotti di Shepperton, gli Helium Kids, tra gli anni ’60 del ventesimo e la prima decade di questo ventunesimo secolo. Non è John Lennon, bensì… Barry Goldwater. E chi era Barry Goldwater? diranno i più giovani tra i nostri lettori. Non era il batterista dei Canned Heat – e tantomeno il tastierista degli Stranglers – bensì il candidato repubblicano alla presidenza USA nel 1964: quello che subì una disfatta clamorosa ad opera di Lyndon B. Johnson, riuscendo però a incrinare il cosiddetto (e detto impropriamente) “consenso keynesiano” che accomunava i due partiti protagonisti della vita politica statunitense, scontrandosi duramente all’interno del GOP con i nostalgici del centrista Eisenhower, per non dire con l’estrema sinistra (ebbene sì!) del partito, capeggiata dal ‘tax and spend’, sponsor di Martin Luther King e in seguito oppositore della guerra in Vietnam, Nelson A. Rockefeller. Goldwater, nonostante il chiaro insuccesso conclusivo, portò i repubblicani a “sfondare” per la prima volta negli stati del Sud (feudo democratico fino a quel momento), lanciò la carriera politica dell’ex liberal Ronald Reagan, galvanizzò forze intellettuali come quelle raccolte intorno alla National Review del cattolico conservatore William F. Buckley (ma anche dell’ex-stalinista Whittaker Chambers e dell’ex-trotzkista James Burnham): perciò la sua campagna è passata alla storia come un’ordalia propiziatoria di futuri trionfi, e il senatore dell’Arizona è oggi considerato uno dei massimi profeti della Controrivoluzione Neoliberista destinata a vincere solo tre lustri più tardi. Sì, ma che c’entra Barry Goldwater col rock? faranno in coro i lettori, giovani e meno. Il senso profondo della comparsata non è subito evidente; ma quando il Nostro salta fuori per la seconda volta, a pagina 392, con la dirittura d’arrivo del romanzo ormai in vista, ecco che il cerchio si chiude e la morale della favola sta lì, proprio davanti a noi. Come 130 pagine prima ha spiegato Stefano, il road manager degli Helium Kids: …non c’è nulla in tutta la civiltà occidentale che incarni così perfettamente lo spirito del…beh, del capitalismo globale come il rock and roll. Intendiamoci bene. Questo non è un romanzo strettamente ‘a tesi’ e di certo non lo anima una visione manichea della Musica Rock Come Inganno di Mefistofele (su genere del Fantasma del palcoscenico versione Brian De Palma, se qualcuno ricorda questo film del 1974). Il senso di liberazione generale, l’inedito protagonismo dei giovani, l’ascensore sociale per tantissimi artisti di estrazione proletaria fanno tutt’uno con la storia del rock e trovano adeguata – e originale – rappresentazione nella storia degli Helium Kids qui narrata in prima persona da Nick Du Pont, il loro addetto stampa laureato ad Oxford. Ma D.J.Taylor – maestro del romanzo storico (se non sbagliamo a contare, questa è la sua decima prova all’interno del genere) dallo sguardo sociologico estremamente avvertito (e in particolare sempre curioso di appurare chi paga chi, e quanto e come e perché lo paga) – ha scritto il libro divertentissimo e inquietante che era lecito aspettarsi da lui: non avrebbe certo potuto limitarsi a darci una versione “colta” di This is Spinal Tap, il celebre ‘mockumentario’ del 1984. Ne è venuta fuori piuttosto una sorta di – leggibilissima, godibilissima, raccontata in tono ora guascone ora malinconico ora tutt’e due insieme, come è nelle corde di Taylor – Critica dell’Economia Politica del Rock. Un genere musicale nato nel pieno dei Trenta Gloriosi (e – perlomeno in Gran Bretagna – figliastro del Welfare State e tenuto a balia dalle Art Schools frequentate dai ceti popolari) ma che al giro di boa degli anni Settanta (l’epoca dell’ascesa di super-gruppi come i Led Zeppelin, dello scioglimento dei Beatles e del passaggio degli Stones dalla controcultura alla EMI) presenta già tutte le caratteristiche di laboratorio economico-sociale della non lontana svolta antioperaia su scala globale. In pratica non c’è aspetto dell’attuale tragedia neoliberista che non si presenti una prima volta come farsa all’interno del sistema produttivo del rock. Si va dalla versione più chiaramente truffaldina del libero movimento dei capitali (gli incassi in contanti delle tournée per una lunghissima ancorché pionieristica fase, e il loro rinvestimento); le prove tecniche di filiera lavorativa transazionale nella “reinvenzione [a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, NdR] dell’industria dei concerti” in cui le band britanniche vengono reclutate per “suonare nei grandi anfiteatri, appena costruiti, del Midwest americano” [e la stessa mancanza di personalità artistica degli Helium – che iniziano imitando i Beatles, proseguono copiando gli Small Faces, nel 1967 fanno l’album psichedelico ‘obbligatorio’, e infine si assestano con grande successo su un rockaccio transatlantico a 2 o 3 chitarre – è funzionale all’esigenza di standardizzare e portare in giro per l’America “un nuovo tipo di musica, più martellante, senza troppe sfumature” (p. 214)]; all’allungamento surrettizio della giornata di lavoro grazie al suo sconfinamento nel tempo di vita dei roadies. E ancora, rispetto al terreno culturale e comunicativo, l’appiattimento della stampa specializzata sugli input dell’industria discografica appare come il preludio al dilagare nei vari ambiti artistici di quella che verrà definita “la critica commerciale”[1]. I mitici concertoni gratuiti dell’epoca? Vedi alla voce corporate charity. E per finire, rispetto al fenomeno delle groupies Taylor – lungi dal buttarsi su salaci descrizioni di “eccessi” – mette in evidenza come una realtà economica nuova e itinerante come quella dei tour, dei raduni e dei festival del rock e relativo indotto, non potendo contare sul lavoro di cura, riproduttivo, di matrice vuoi statale vuoi aziendale, dovesse trovare il modo di scaricarlo sulle donne a titolo volontario. Ecco cosa scrive (cfr. p. 284 del romanzo) la celebre groupie Leonie Creemcheeze nella sua autobiografia, intitolata Groovin’ with the band: “Certo ci sono ragazze che vogliono andare a letto con le rockstar, punto e basta… ma in effetti la cosa è molto più complessa. Voglio dire, i ragazzi si ritrovano in questo posto alieno, e si domandano: sarà amichevole la gente del luogo? Dove posso farmi mettere a posto i jeans? C’è una lavatrice, da queste parti? E noi gli risolviamo i problemi, li mettiamo in contatto con chi li può aiutare. Sì, il sesso c’entra, ma in genere è un discorso molto più materno…”[2]. Se quanto sopra è anche parzialmente vero, Houman Barekat – in una recensione per altri versi disattenta del libro apparsa sullo Spectator – mette il dito nella piaga quando osserva: “Nonostante gli Helium Kids siano working-class, ci viene ricordato ad ogni piè sospinto che questa fu una rivoluzione borghese. I tempi staranno pure per cambiare, ma l’ordinamento sociale rimarrà ostinatamente integro”. Una rivoluzione borghese – sia ben chiaro – è cosa buona e giusta, o perlomeno lo sarebbe senz’altro, ammesso e non del tutto concesso che possa esistere davvero. Chi scrive sospetta infatti che le rivoluzioni siano un fatto eminentemente politico, la cui connotazione di classe (‘borghese’, ‘proletaria’ e simili) fa parte della posta in gioco e non è stabilita con certezza, tantomeno nel momento in cui la rivoluzione scoppia. Mi pare questo, tutto sommato, il succo dell’affermazione di Lenin, per cui “chi cerca una rivoluzione sociale pura, non la troverà mai”. E anche gli studiosi che oggi difendono con maggiore lucidità l’uso di questo concetto – su tutti Neil Davidson, in How Revolutionary Were the Bourgeois Revolutions?, del 2012 – lo fanno appoggiandosi al cui prodest?, ovvero all’esito del processo rivoluzionario rispetto ai rapporti di forza tra le classi sociali. Una linea argomentativa senz’altro forte e con cui bisogna fare i conti, ma che in tutta evidenza solleva una serie di ‘nuove’ domande, parecchie delle quali investono in pieno la stessa Rivoluzione Sovietica (e pensiamo al terzo volume delle Luttes de classes en URSS di Bettelheim). Stiamo divagando. Ma anche i più tenaci custodi dell’ortodossia rockettara vorranno concedere che la Rivoluzione del Rock va considerata un processo di modernizzazione tanto benemerito quanto saturo di aspetti controversi, che va difeso dalla demonologia revisionista ma va pure inevitabilmente letto e interpretato alla luce (piuttosto fosca, no?) dello strapotere capitalista e del ‘carnevale della reazione’ che caratterizzano il nostro presente. Nel romanzo di Taylor, i diversi componenti della band in una certa misura incarnano le conquiste e le derive di questa vicenda storica. Dal più apprezzabile dei 5, il taciturno bassista Ian Hamilton [nel nome c’è – crediamo – un omaggio al grande poeta, critico e animatore di riviste letterarie, nato nel 1938 e morto nel 2001], l’unico che seguita imperterrito a votare laburista e che bussa prima di entrare nelle roulotte altrui, che viaggia in treno e a un certo punto si reca in rispettoso pellegrinaggio al gig semi-deserto del vecchissimo bluesman John Lee Hooker; al chitarrista Dale Halliwell, inarrestabile tombeur de femmes, ma non sfornito di autoironia e in definitiva con la testa sulle spalle; al batterista Keith Shields, un cretino conclamato nella prima parte della storia che evolverà in pazzo pericoloso nella seconda; fino all’insopportabile cantante, l’urlatore Garth Dangerfield (anzi: Garth Winston Dangerfield, come scopriamo ben presto), che riunisce in un solo personaggio l’ossessione per l’occultismo di Jimmy Page, le ambiguità rispetto al nazifascismo di tutta una fase di Bowie e le pessime vedute in materia di immigrazione di Eric Clapton, più l’intero assortimento di incresciosi tratti personali dei vari divi del rock, senza i pregi compensativi. A completare il quintetto, i deboli, vittime designate: il tastierista Florian Shankley-Walker, unico borghese del gruppo, già attore-bambino e studioso di Sibelius e Rimskij-Korsakov, che annega in piscina nel 1967; e il suo sostituto, il virtuoso della chitarra Gary Pesarolo, che dopo avere atteso per anni un riconoscimento come autore di canzoni, abbandonerà per sempre il mondo dello spettacolo. [Giacché siamo in tema: parecchi avranno notato nella storia degli Helium Kids allusioni, parallelismi e veri e propri calchi rispetto alla carriera di band quali Led Zeppelin, Stones, Beatles, Small Faces e Cream. E chi è addentro alle cose del rock non mancherà, leggendo il libro, di notare tanto altro, più o meno riferibile a Who, Kinks, Pretty Things, Black Sabbath, Moody Blues, Brian Poole and the Tremeloes e via alludendo. Eppure questo tutto è tranne che un roman à clef: e proprio gli episodi in apparenza prossimi ai fatti storici – su tutti l’annegamento di Florian, che fa pensare a Brian Jones – sono inseriti in tutt’altra catena di significanti, e conducono altrove rispetto alle immarcescibili dietrologie dei guardoni del pop. Provare per credere]. Resta da dire dell’arte di D.J.Taylor[3], che innanzitutto è degnissimo erede di una delle migliori stagioni della comic novel d’oltremanica, quella degli anni Cinquanta novecenteschi: pertanto rivediamo qui a tratti il gioco ‘di società’ dei sentimenti alla maniera dell’“altra Elizabeth Taylor” (1912-1975), il vigilissimo senso del ridicolo caratteristico di Kingsley Amis (1922-1995), la struttura picaresca e l’utilizzo del pastiche di cui fu maestro John Wain (1925-1994), la visione enigmatica del personaggio tipica di Anthony Powell (1905-2000), la sapiente gestione della coreografia complessiva di una Barbara Pym (1913-1980). Ma in mano a Taylor la commedia satirica à l’anglaise è un bisturi, serve all’indagine storica per incidere il tessuto dell’Erlebnis del narratore senza lasciarsi abbindolare dalle nostalgie facilone, dai miti del modernariato. Il Comico recita “a fin di bene” la parte del poliziotto cattivo in un interrogatorio del passato ove si pongono tutte le domande dell’oggi. Per restituirci – se ci è concesso ribaltare il titolo di un libro di Paul Sweezy – la Storia come Presente. E scusate se è poco. [1] Utilissima espressione, che personalmente abbiamo sentito formulare per la prima volta in questo senso nel 1990 da Giuseppe Venturella. [2] Un’ultima notazione. Taylor non si beve la vulgata pasticciona in materia di Neoliberismo, quella sul “ritiro dello Stato”: basti vedere come un’altra cliente di Nick, la giovane cantante Moyra (soprannominata ‘la Dinamo di Dundee’) debba il suo successo all’alto patrocinio della Famiglia Reale, sotto forma di pubblica stretta di mano alla Regina Madre con tanto di agnizione (il nonno della fanciulla aveva fatto il valletto a Balmoral). [3] Abbiamo pensato di fare cosa gradita ai lettori allegando a questa recensione una ‘Top Ten’ dell’Autore curata da A. Geraci. D.J. TAYLOR: la Top Ten D.J. Taylor ha al suo attivo 13 romanzi, 2 raccolte di racconti e 10 titoli di non-fiction. Per aiutare i lettori di PalermoGrad a districarsi in questa bibliografia ho pensato di affiancare alla recensione di Pavlov Dogg una ‘Top Ten’ (inclusi tutti i titoli disponibili in italiano) dell’autore. È con grande dispiacere, tuttavia, che ‘escludo’ dalla lista romanzi come Great Eastern Land, Real Life, Trespass, etc…, le ottime biografie di Orwell e Thackeray (che ha vinto il Whitebread Award) e il recente The New Book of Snobs (che non ho ancora letto).(A.G.) 1. A Vain Conceit: British Fiction in the 1980’s (1989). Una voce polemica, opportunamente fuori dal coro, al termine di un decennio di autoincensamento da parte del mondo delle lettere ‘british’. Libro d’esordio di Taylor. 2. Other People: Portraits from the Nineties (1990, a quattro mani con Marcus Berkmann). Ovvero: “A pensar male della gente si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”. Preveggente satira di costume sugli anni Novanta, scritta all’alba degli stessi. 3. After the War: Novel and English Society Since 1945 (1994). Uno dei maggiori studi critici sull’argomento, dalle ambiguità degli Angry Young Men a quelle del “romanzo thatcheriano”. 4. L’accordo inglese (1996 ed. originale English Settlement; 1998 nella traduzione italiana di Rosalia Coci, Sellerio editore). In questo romanzo un americano a Londra rimane invischiato nelle avventure calcistiche e finanziarie di un club di Quarta Divisione, il Walham Town, e del suo vulcanico patron Barry Mower. Ha vinto il Premio Grinzane Cavour. 5. After Bathing at Baxter’s (1997) racconti sulle due sponde dell’oceano. Il racconto In giro per Londra (tit. or. Seeing London) è stato pubblicato nella traduzione di Masi Ribaudo sulla rivista Margini, 1, 2005. 6. Bright Young People: The Rise and Fall of a Generation 1918-1940 (2007). Una biografia “collettiva” estremamente affascinante. 7. What you didn’t miss (2012). Raccoglie i pezzi scritti per Private Eye, la celeberrima rivista satirica. “Dimostra una volta di più che la parodia e il pastiche possono essere la più sottile (e di certo la più divertente) forma di critica letteraria” (G. Castello). 8. L’altro discorso del Re (2013 ed. originale The Windsor Faction, 2015 nella traduzione italiana di Giulia Calandra, 21 editore). Storia alternativa. Ha vinto il Sidewise Award. 9. The Prose Factory: Literary Life in England Since 1918 (2016) . Cento anni di letteratura albionica tra sociologia, critica del gusto, storia dell’editoria. Uno dei Libri dell’Anno di PalermoGrad. 10. Rock and Roll is Life: The True Story of the Helium Kids by One Who Was There (2018) trionfale comic novel recensita qui sopra da Pavlov Dogg.
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