di Marcello Benfante
“Ora stavano cercando, tutt’e due, di ritrovare se stessi e il proprio universo. In questo la fantascienza era un grosso aiuto” (Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5) Si può partire da Jane Austen per fare un discorso intorno alla fantascienza? Proviamoci. Chi ha letto il delizioso Jane Austen Book Club di Karen Joy Fowler sa perfettamente cosa sia un odioso pregiudizio letterario. Non mi riferisco ai pregiudizi che hanno confinato per lungo tempo (ma per fortuna non in modo unanime) l’opera di Jane Austin in una sorta di dorata (o rosea) riserva femminile. Penso piuttosto al ghetto dozzinale in cui le socie del circolo austeniano relegano mentalmente la fantascienza, amata e assiduamente frequentata dall’unico maschio ammesso alle riunioni, il neo adepto Grigg. La fantascienza per Jocelyn, Sylvia, Bernadette, Allegra e Prudie (vestali eterogenee del culto di Jane Austin) è un genere infantile e fondamentalmente paraletterario, consumato in modo pressoché esclusivo da lettori di sesso maschile, affatto insensibili alle sottigliezze ironiche di una scrittrice arguta ed elegante come l’autrice di Ragione e Sentimento. Come l’allegra brigata boccacciana, ciascuno dei membri del club sceglie a turno l’argomento di cui si tratterà, ovvero l’opera della Austen che sarà oggetto della riunione. Ovviamente, Grigg ha proposto L’abbazia di Northanger. Il più gotico (e parodico) dei romanzi di Jane Austen, quello più riconducibile a un’estetica postmoderna. Quando la riunione si tiene a casa di Grigg, la sua perfetta ospitalità rivela sorprendenti “doti casalinghe”. Ma questo non è l’unico aspetto a rendere perplesse le sue ospiti: La parete lungo le scale era piena di scaffali incassati carichi di libri, infilati non solo in verticale, ma anche di traverso sopra gli altri. Erano soprattutto edizioni economiche e parecchio consumate. Grigg è dunque un uomo che legge molta letteratura: cosa insolita che non rientra negli schemi di Jocelyn, la fondatrice del club. Ma cosa legge Grigg? Le sue predilezioni sono fin troppo evidenti. Allegra si avvicinò per guardare. ‘Un sacco di astronavi in questa libreria’, disse. ‘Ti piace la fantascienza?’, chiese Sylvia a Grigg. Dal tono della voce si poteva pensare che fosse interessata alla fantascienza e alle persone che la leggono. Grigg non si lasciò abbindolare. ‘Da sempre’, si limitò a rispondere. Da sempre. Generalmente è così, per gli appassionati della Fantascienza. Non per me (che d’altronde non posso dirmi un vero appassionato). Grigg è stato iniziato fin da ragazzino al consumo liberatorio di letteratura fantascientifica. È stato il padre, nel suo rifugio extracasalingo, ad avviarlo alla lettura delle fanzine di Science Fiction, “roba per soli uomini”, vagamente conturbante. E da qui, da questo vizio consumato nell’isola felice del garage paterno, avviene la scoperta di Arthur C. Clarke, Theodore Sturgeon, Philip K. Dick, Andrew North e di tutto un universo di possibilità alternative. Grigg comunque è tutt’altro che un lettore monotematico. Non ha mai letto Orgoglio e pregiudizio, ma affronta l’opera di Jane Austen con scrupolo e intelligenza. E anche nella letteratura di genere i suoi interessi sono ampi: “Io adoro i Gialli. Anche quando sono schematici, io adoro gli schemi”. Come Brecht, è convinto che lo schema è sano. Tuttavia, sono gli autori problematici i suoi preferiti. Quelli come Philip K. Dick, da cui si apprende che “tutto si può falsificare”, o come Ursula Le Guin, di cui trasmette l’amore a Jocelyn. La domanda che Grigg pone al circolo di lettura è dunque di capitale importanza: “Molti appassionati di fantascienza amano la Austen. Perché, secondo voi?”. Già, perché? Prendiamo per buona, senza ulteriori conferme, l’affermazione di Grigg e facciamoci carico della sua domanda. C’è un nesso tra la Austen e la fantascienza? Interpretata alla lettera, la questione non porta evidentemente da nessuna parte. Jane Austen e la fantascienza non hanno niente in comune, niente di specifico almeno, se non il fatto ovvio che la buona fantascienza è buona letteratura come lo sono i romanzi della Austen. E magari anche il fatto, cui abbiamo già accennato, che l’una e l’altra, per ragioni diverse, sono state denigrate e respinte fuori dall’ambito della cultura alta, ma con motivazioni e modalità del tutto differenti. E l’equivoco di questa rimozione potrebbe ancora ripresentarsi oggi. “Se la Austen fosse pubblicata ai nostri giorni sarebbe considerata una scrittrice rosa?”, si domanda infatti Grigg. Una scrittrice di “genere”, insomma. E per giunta del genere più trascurabile. Ovviamente, anche questa è un’ipotesi, se non fantascientifica, almeno molto fantasiosa. Joseph Conrad si rivolgeva a H. G. Wells (uno dei padri della Fantascienza) in questi termini: “Cos’è tutto questo gran parlare di Jane Austen? Che cosa ci trovate in lei? Cosa ci vedete?”. È esattamente quello che molti pensavano e dicevano di Wells quando l’inventore della Macchina del tempo era all’apice della notorietà. È più opportuno allora cercare di capire cosa renda al tempo stesso così attraente e così respingente la fantascienza, quali siano le sue doti e magari i suoi limiti, in cosa consista il suo fascino e perché, all’inverso, alcuni non ne sono affatto sedotti. Insomma, cercare di capire quale sia lo spirito della fantascienza. Lo spirito della fantascienza Non usiamo queste parole a caso. Lo spirito della fantascienza (El espíritu de la ciencia-ficción) è un bellissimo romanzo di Roberto Bolaño, che risale al 1984 ma che è apparso postumo nel 2016. Vi si narra di due giovani cileni che condividono una stanza sui tetti di Città del Messico. Il maggiore dei due, Remo, è un poeta alle prime armi. Il più piccolo, Jan, che è poco più che un ragazzo, non esce mai di casa e scrive lettere di ammirazione e devozione ai grandi autori della Science Fiction statunitense. Egli stesso è un aspirante scrittore di fantascienza, di cui è soprattutto un assiduo e appassionato lettore. Intorno al suo letto, dove lavora ai suoi testi, si è formata una “specie di biblioteca-discarica” costituita da una complessa stratificazione di “fogli sparsi, ritagli di giornale, libri di fantascienza, cartine, dizionari”. Tale ammasso di detriti di scrittura verrà in seguito compattato in un tavolo cartaceo, strutturalmente composto da libri di fantascienza, per lo più tascabili. Impilati opportunamente, i libri si trasformano così in un tavolo da lavoro dove all’occorrenza si può anche mangiare, avendo cura di coprirlo con una tovaglia. Insomma, l’uso pratico della fantascienza. È un’allegoria utilitaristica che Bolaño ci propone? Mi sembra improbabile. Un’idea più precisa possiamo invece farcela sbirciando tra gli appunti e la corrispondenza del diciassettenne Jan. E in particolar modo leggendo certe sue lettere indirizzate proprio a Ursula Le Guin. In una (che poi apprendiamo non essere mai stata spedita) l’apprendista scrittore pone una serie di farneticanti domande che potrebbero riferirsi a qualsiasi problema etico o estetico: “Che cosa ci verrà dato e che cosa dobbiamo prendere per resistere e vincere? Smettere di guardare per sempre la luna?”. E ancora: “Chi dobbiamo baciare affinché si svegli e rompa l’incantesimo? La Follia o la Bellezza? La Follia e la Bellezza?”. Che sia dunque questo intreccio amoroso di Follia e di Bellezza lo spirito della Fantascienza? Ma anche a sorvolare (come un Ufo) sulla genericità dei due poli e sulle loro infinite potenzialità di contaminazione reciproca, l’aut-aut e l’et-et sembrano prestarsi più agevolmente a stabilire i parametri di un discorso, non meno generico, sullo spirito della poesia (che d’altronde a molti sembra il vero oggetto del libro di Bolaño). Smettere di guardare la luna (e infatti gli alieni probabilmente sono tra noi ed è ormai inutile attenderli dallo spazio). E smetterla di opporre la Follia alla Bellezza (e infatti c’è un’intima e struggente bellezza nella follia apparente, erasmiana, della letteratura distopica). Lo spirito della Fantascienza è dunque qualcosa di sublunare, qualcosa che ci riguarda da vicino, che riguarda la nostra ragione e il rischio che si trasformi in sragione, per esempio facendo della scienza il modo più irrazionale per distruggere la vita e la bellezza. È forse questo ciò che vuole dire il giovane Jan quando ammette, in un’altra lettera a Ursula Le Guin: “Forse sono ammattito a forza di leggere romanzi di fantascienza”. Ma l’affermazione suona piuttosto come un elogio della follia. Forse si può rinsavire a forza di leggere romanzi di fantascienza. In fondo si tratta soltanto d’invertire i termini in un discorso relativo. Di rovesciare il cannocchiale. Il riferimento è a una lettera precedente (a James Hauer) in cui Jan (che infine scopriremo essere un alter ego, e forse non l’unico, di Roberto Bolaño) confessa le proprie ambizioni e racconta i suoi primi insuccessi: Ho diciassette anni e non ho ancora visto pubblicato nessuno dei miei testi. Una volta li ho mostrati a un professore di Letteratura del mio paese, un uomo in buona fede, innamorato (selvaggiamente) di Scott Fitzgerald e, in modo più tranquillo, della Repubblica delle Lettere, come può essere innamorato solo chi vive in uno dei nostri paesi e legge. Intuiamo già – non è vero? – che al nostro professore i racconti di Jan non piaceranno. Che non li capirà, sostanzialmente. Ecco infatti il suo responso: Il caro professore, vedendo il mio racconto, ha detto: caro Jan, spero che tu non stia fumando. Si riferiva, erroneamente, alla marijuana, che non provoca, a quanto ne so, allucinazioni, ma voleva dire che sperava che non mi stessi fottendo il cervello con acidi o roba del genere. Non si tratta né di mera divergenza di gusti né di una tipica incomprensione accademica. Si tratta piuttosto di una questione prospettica: Caro professore, gli ho detto, è un racconto di fantascienza. Il brav’uomo ha meditato qualche istante. Ma, Jan, sono cose così lontane, ha ribattuto. Ciò che al professore sembra lontanissimo è in realtà vicinissimo. È in questo scambio, in questo equivoco, che possiamo scorgere lo spirito autentico della fantascienza. Essa ci ha sempre parlato della realtà, del nostro mondo, della nostra condizione. Un fanta-realismo, quindi? Qualcosa di più. Un modo per affrontare grandi questioni esistenziali e sociali. Quelle per esempio che Jan rivolge (a se stesso) in una lettera a Forrest J. Ackerman: “dimmi dove sono in realtà”, “Sono da solo?”, “È già cominciata la guerra?”. La fantascienza ci pone sempre davanti al problema della nostra solitudine, del nostro smarrimento, all’annuncio di una possibile e imminente apocalisse. È questa sua intrinseca inquietudine a farne un genere indispensabile a chi legge, a chi vuol capire. Storie di astronavi e di extraterrestri Resta il problema della bellezza, che non è di poco conto. Innegabilmente, c’è un sacco di fantascienza brutta. Non più, d’accordo, di altri generi o di altra letteratura senza etichette specifiche. Sennonché la fantascienza si individua subito per alcuni suoi connotati tipici, è un genere troppo caratteristico, pur nella sua notevole varietà. E quindi ha un modo tutto suo d’essere brutta, quando è brutta. Un modo kitsch, una certa stereotipizzazione, un certo effettismo, un’involontaria demenzialità, un linguaggio ridicolo fatto di neologismi paratecnologici e altra pessima chincaglieria. Spesso la fantascienza si configura, per dirla con Northorp Frye, come un “racconto esagerato”. Questa sua riconoscibilità talora autoparodica determina l’impressione fallace che la fantascienza sia sovente una paccottiglia, con l’eccezione di una serie di classici che in ultima analisi (dicono i denigratori) non possono essere definiti vera e propria fantascienza, ma delle opere magistrali che esulano dal genere. Il filone fantascientifico, con le sue convenzioni e i suoi cliché, è talora percepito come un limite da cui doversi emancipare. “Hai letto un po’ di Tolstoj, Bulgakov?” “Non molto…” “Me lo immaginavo… Dovresti leggere più spesso i russi; più spesso altri scrittori in generale. Non vorrai passare la vita a leggere storie di astronavi e di extraterrestri”. Al di là di ogni considerazione, il consiglio di Roberto Bolaño è sacrosanto. Bisogna leggere di tutto. Soprattutto se si vuole scrivere. Ma c’è un aspetto che infastidisce: da un lato vengono messi i “russi”, cioè la Grande Letteratura fatta di capolavori immortali, dall’altra le “storie di astronavi e di extraterrestri” cioè il ciarpame della letteratura di massa. Sennonché si dà il caso che Bulgakov sia anche un grande scrittore di fantascienza. Che cosa sono racconti come ‘Cuore di cane’ e ancor di più ‘Le uova fatali’ se non perfetti racconti di fantascienza? D’accordo, sono anche satira politica e molto altro ancora, ma sono fantascienza a tutti gli effetti. In questo caso lo schema non funziona, è troppo schematico. Omette, generalizza, banalizza. Anche la fantascienza partecipa alla storia monumentale della letteratura con una serie di capi d’opera inestimabili (basti pensare a 1984 di Orwell). Ma il punto non è questo. Anzi, insistere nella difesa di questo aspetto della questione, ovvero il fronte qualitativo, per così dire, sarebbe fuorviante. Il punto è infatti che la fantascienza è bella, è interessante, è divertente, è stimolante, è affascinante anche quando è un semplice prodotto seriale. Non sempre, s’intende, e in misura variabile. Ma molto spesso. E senza la sua produzione popolare la fantascienza non avrebbe neppure una identità precisa. Non sarebbe se stessa. Qual è dunque la natura della fantascienza? Una doppia natura, verrebbe da dire. Le sue origini (senza spingersi con un gioco un po’ stucchevole fino a Luciano di Samosata) hanno una spiccata propensione culturale, sulla spinta del Positivismo e delle rivoluzionarie invenzioni della fine del XIX secolo. I primi autori hanno più o meno espliciti intenti pedagogici e di critica sociale. Col Novecento, il secolo del Futurismo, si sviluppano tematiche avanguardistiche. Ma è soltanto nel 1926 con la nascita della rivista Amazing Stories di Hugo Gernaback che la fantascienza assume la sua peculiare fisionomia. Insieme alla sua funzione profetica, la fantascienza sviluppa nell’era della cultura di massa un suo repertorio mitologico popolare che molto efficacemente Orson Welles definì “folklore atomico”. Senza questo suo aspetto pop, affidandosi soltanto ai suoi autori più sofisticati, difficilmente la fantascienza sarebbe riuscita a insediarsi nell’immaginario collettivo come una grande parabola sul potere. Hypotheses (non) fingo Che cos’è dunque la fantascienza? La domanda non è né ovvia né semplice. Come il tempo per Sant’Agostino (e l’esempio non è casuale) in cosa consista esattamente la fantascienza sembra d’acchito un concetto chiarissimo che si presenta alla nostra mente in modo nitido e inequivocabile. Ma, non appena cerchiamo di elaborarne una formulazione teorica generale, le cose si complicano maledettamente. Vi sono addirittura classici della fantascienza in cui non si ricorre ad alcun concetto scientifico. Come distinguerla quindi dal fantastico? E vi sono classici in cui la fantascienza è divenuta, per dirla con Sergio Solmi, una “archeologia del futuro” in cui ciò che appariva come un’anticipazione perfino inverosimile è stato poi acquisito dal progresso scientifico e tecnologico. E dunque torniamo a chiederci: cosa ha di specifico la fantascienza come genere letterario? Un breve scritto di Philip K. Dick del 1981, ‘La mia definizione di fantascienza’, può essere un valido punto di appoggio per cercare di rispondere a questa non facile domanda. Anche Dick procede con cautela, cominciando con l’escludere ciò che la fantascienza non è. Per esempio: “Non può essere ridotta a racconto (o romanzo o dramma) ambientato nel futuro”. La fantascienza non è futurologia, come siamo naturalmente tentati di pensare, e infatti c’è anche una “fantascienza ambientata nel presente, come nei racconti e romanzi sui mondi alternativi”. Né si tratta semplicemente di “avventure spaziali”, magari con “uso massiccio di tecnologia superavanzata”. A questo filone eroico e per così dire omerico manca infatti quella “nuova idea caratteristica” che contraddistingue la vera fantascienza e ne costituisce l’ingrediente imprescindibile. Ossia la “creazione di un mondo fittizio”, di una dimensione altra e parallela. Si tratta di una trasposizione basata su “un’idea coerente”, non una mera bizzarria, bensì un’ipotesi organica di una società alternativa tale da far emergere nella mente del lettore “uno shock convulsivo, lo shock del riconoscimento negativo”. La “buona fantascienza” per Dick è quella che opera questa trasposizione traumatica sulla base di un’idea veramente originale e tale da “risultare intellettualmente stimolante per il lettore”. Ecco perché “il vero protagonista di un racconto o di un romanzo di SF è un’idea, non un personaggio”: un’idea, beninteso, nuova e fertile, capace di produrre una serie di reazioni a catena concettuali nella mente del lettore. Un input destinato a proliferare nuove idee e nuove narrazioni. Di conseguenza, la fantascienza “è creativa e stimola la creatività”, stabilendo una fruttuosa e gioiosa collaborazione tra lettore e scrittore, entrambi motivati e sollecitati da una felice ricerca del nuovo, dell’ignoto, del possibile: “la gioia è l’ultimo indispensabile ingrediente della fantascienza”. Un dato interessante della riflessione di Dick è il peso che egli attribuisce all’atteggiamento psicologico dello scrittore e del lettore di fantascienza nella definizione del genere. Senza un autentico desiderio di creare ipotetici mondi nuovi non si dà fantascienza. Ma ciò non è ancora sufficiente: occorre una condivisione felice di tali creazioni e scoperte. È da questa ebbrezza che sortisce la vera fantascienza. Questo aspetto è chiarito magistralmente in un altro scritto di Philip K. Dick: ‘Chi è lo scrittore di SF?’. Si tratta di un articolo-manifesto in cui l’autore de La svastica sul sole descrive le caratteristiche deontologiche degli scrittori di fantascienza, per un verso con modalità utopiche-apologetiche, per l’altro con chiari e perfino espliciti riferimenti autobiografici. La comunità fantascientifica, così come ce la presenta Dick, è una sorta di serena e giuliva enclave letteraria e filosofica basata sulla solidarietà e il rispetto reciproco. Allorché i membri di questa comunità si incontrano in convention o conferenze, per esempio, subito s’instaura tra loro una profonda intesa, come se si trattasse di una riunione familiare o di una rimpatriata tra vecchi amici a cui si aggiungono nuovi membri, accolti senza remore con identico favore. Le divergenze politiche e ideali vengono superate da un sentimento di mutua stima e di attenzione per l’opera di ciascun collega, senza alcuna invidia o gelosia professionale. “Quando incontriamo uno scrittore che ha appena pubblicato il suo primo romanzo non ci sentiamo minacciati o insicuri, bensì stranamente felici, e glielo diciamo, lo incoraggiamo: lo accogliamo”. Il quadro è fin troppo idilliaco, ma corrisponde a un particolare tipo di atmosfera cameratesca che si riscontra in certe riunioni di cultori e appassionati del genere (e che Karen Joy Fowler, per mezzo delle esperienze del suo Grigg, descrive con un pizzico di complice ironia). C’è quasi un afflato religioso in questa armonia solidale. Lo scrittore di SF non insegue né denaro né gloria, che molto più facilmente potrebbe ottenere in altri campi e generi. Non aspira al potere né alla fama, non è neppure mosso dalla semplice vanità. Egli rischia addirittura di mettere a repentaglio la propria reputazione. La motivazione profonda è dunque un grande amore per la fantascienza, una sorta di attrazione fatale. Ma non solo. “L’elemento che accomuna tutti gli scrittori di SF – dal vecchio professionista come me (con ventidue anni di carriera alle spalle) al giovane esordiente – è la convinzione riguardo al valore della fantascienza”. Questa consapevolezza è un valore condiviso, ossia il risultato di uno sforzo collettivo a cui l’intera comunità fantascientifica collabora e partecipa nel corso del tempo, in una sorta di conversazione ininterrotta e di interscambio integrativo: “la SF è un campo che si sviluppa per concrezione, uno strato dopo l’altro, anno dopo anno, in un costante dialogo con quanto è avvenuto prima”. Contrariamente ad altri generi, come per esempio il western, in cui è ammissibile raccontare la medesima storia con qualche piccola variazione secondaria, la fantascienza richiede di volta in volta almeno un elemento innovativo abbastanza forte da giustificare una nuova storia, che tuttavia s’inserisca all’interno di un patrimonio collettivo assimilato. La fantascienza è costretta dal suo stesso statuto letterario a oltrepassare incessantemente le proprie colonne d’Ercole: “In questo senso, la SF dev’essere all’avanguardia. E così è”. Sull’avanguardismo della SF è il caso di notare en passant che Dick non fa cenno alcuno a problemi di forma o di estetica in senso lato, ma si concentra unicamente sui contenuti. L’innovazione consiste esclusivamente in un contributo aggiuntivo di tipo concettuale, un’ipotesi non ancora formulata o sviluppata. “Il movente che credo spinga molti di noi – e che certamente ha guidato me – è il desiderio di aggiungere un ulteriore tassello a un mosaico il cui modello, la cui Gestalt definitiva non è ancora stata esplicitata o realizzata sulla pagina stampata”. Il passo avanti può consistere in una prosecuzione logica di una situazione creata precedentemente, ma le cui potenzialità non erano state ancora del tutto esplorate. Si tratterebbe in tal caso di “un’aggiunta, un contributo a un vasto corpus già esistente”. La fantascienza è quindi un’opera corale, un grande stagno in cui tante rane concorrono alla creazione in progress di un grande poema collettivo. Ma non del tipo delle saghe leggendarie tramandate oralmente. Già nell’uso del linguaggio, Dick si è collocato saldamente nel campo scientifico-sperimentale. Lo scrittore di SF si comporta come un ricercatore che deve (giacché lo reputa “moralmente necessario”) rendere pubblici i risultati conseguiti e condividerli con la comunità scientifica di cui è parte. Solo così la sua idea originale, a cui nessuno aveva prima pensato, acquisisce un significato sociale, un valore extra-individuale. “Ciò dimostra l’affinità esistente tra lo scrittore di fantascienza e il vero scienziato”. A conferma di questa similitudine, Dick riporta la propria esperienza. Egli da ragazzino voleva diventare un paleontologo, e ciò lo porta a presumere che questo desiderio di conoscenza sia la molla iniziale di molti altri scrittori (“il nostro primo movente è la sincera curiosità scientifica”). Ma la scienza, per i suoi intrinseci vincoli, non consente lo sviluppo di “un elemento per noi essenziale: la speculazione”. La fantascienza è un genere speculativo e in qualche modo filosofico, dotato di una grande “flessibilità” ipotetica, immaginativa. Il suo campo d’azione è quello dei “possibili forse” (un programma radiofonico sulla SF s’intitolava proprio “possible maybes”). Ma diversamente dallo scienziato, lo scrittore di SF cede per la sua stessa indole creativa agli imperativi di un’inventiva impaziente che lo spinge a supporre sviluppi, sempre logici sebbene non supportati da prove documentate e testate, in cui il ricercatore puro non può né intende avventurarsi. Non si tratta soltanto di un’impellenza artistica, per così dire, ma anche di una vocazione etica e civica dello scrittore di fantascienza. Come ogni scrittore che si applichi seriamente al suo lavoro, anche quello di SF è costretto suo malgrado a una necessaria introversione, a chiudersi nel proprio studiolo per lunghi periodi di duro lavoro allo scopo di dare vita alla sua opera, che è complessa e richiede una grande concentrazione. Ma la sua indole è generalmente sociale, aperta, disponibile all’incontro. Egli prova una sincera empatia per l’ambiente che lo circonda e tende a farsi carico dei suoi problemi e a cercare di affrontarli con i soli mezzi di cui dispone, ossia con la letteratura. Di fronte alle grandi questioni che angosciano l’umanità tutta, come la guerra, l’inquinamento, la disumanizzazione della vita, il totalitarismo, non ha altro modo di opporsi che creare universi fittizi che consentano al lettore di capire meglio la realtà in cui vive: “Si sentirebbe ridicolo in corteo a gridare slogan. È impacciato e timido. Si metterà a scrivere, piuttosto che andare a manifestare”. È chiaro che Dick sta parlando di sé, sta facendo un autoritratto dello scrittore di fantascienza come intellettuale dissidente refrattario all’azione, ma capace di solidarietà e di affetti, di considerazioni e preoccupazioni collettive. La fisionomia che emerge, e che Dick propone come il vero volto della SF, è quella di uno scrittore sospeso a metà strada tra una dimensione “quasi-scientifica” e una sfera d’interessi “quasi-politica”: un po’ ricercatore e un po’ attivista, ancorché relegato in un interregno essenzialmente speculativo e fantasmagorico. Un genere trasgressivo? Nel sistema della cultura di massa, la fantascienza occupa quindi una collocazione ambigua: per un verso centrale, per un altro eccentrica. Nel cuore di questo sistema si trova, infatti, non solo l’immaginario ludico e spettacolare della fantascienza mitopoietica, le sue guerre stellari, per così dire, o le cavalcate galattiche della sua space opera, ma anche il suo aspetto di anticipazione teorica e divulgazione tecnologica. La fantascienza segue con grande attenzione e competenza lo sviluppo scientifico-tecnologico e lo precorre sistematicamente, in modo visionario e fantasmagorico, talora delirante, ma sempre seguendo un metodo nella sua follia. Inoltre, grazie al suo carattere innovativo e sperimentale, utopico e distopico, la fantascienza è uno dei più straordinari sollecitatori del dibattito filosofico, politico, sociologico, etico, perfino giuridico. Nuove visioni del mondo, dell’uomo, della ricerca sorgono da questo genere e lo alimentano incessantemente. Ciò spiega la continua produzione al suo interno di opere che hanno caratteristiche di alto profilo e che sembrano esulare dagli ambiti entro i quali siamo soliti circoscrivere il genere fantascientifico. Si tratta in alcuni casi di opere sui generis, ma anche di efficaci ottimizzazioni di spunti seriali. La vitalità del genere è data sia dal suo nucleo ripetitivo e scontato, sia dalla sua capacità di stupire il lettore e di inaugurare nuovi e diversi filoni narrativi. Né d’altronde vi potrebbe essere innovazione senza continuità, cioè senza la compattezza fondamentale di un’identità immediatamente riconoscibile da parte del fruitore abituale. Schematizzando, potremmo dire che mentre la produzione seriale è di tipo integrativo e tende a confermare il consenso per la realtà così com’è (il nostro mondo, tutto sommato, non è il peggiore dei mondi possibili), la fantascienza più perturbante rivela invece una vocazione contestatrice, ribelle, di più o meno esplicita opposizione all’establishment. Una agisce placidamente dentro il sistema, rispettandone le regole e concorrendo alla sua stabilizzazione; l’altra ne corrode le fondamenta, ne mette in dubbio i valori e il pensiero, ne palesa gli inganni e le illusioni. Ma si tratta appunto di una schematizzazione piuttosto brutale. Valerio Evangelisti, apprezzato scrittore di letteratura fantastica, della quale si è anche occupato come saggista, è sostanzialmente di parere opposto. Per lui i termini alto/basso vanno praticamente capovolti. È la narrativa di genere a essere “massimalista”, cioè ad occuparsi delle grandi tematiche sociali e individuali. Al contrario, la letteratura usualmente definita alta è una letteratura minimalista e in buona sostanza priva di valore e significato. Questa, in sintesi, la provocatoria e paradossale tesi che Valerio Evangelisti sviluppa in Alla periferia di Alphaville (L’ancora del Mediterraneo, 2001), una miscellanea di scritti critici e teorici, apparsi su varie testate e in varie circostanze, tra cui un’appassionata e perentoria “difesa della fantascienza”. Per Evangelisti, se il capitalismo tradizionale esercitava la sua influenza tramite la pubblicità, ora si è attrezzato di mezzi assai più efficaci e invasivi. “Oggi penetra oltre: nella fantasia, nei sogni, nelle visioni del mondo più intime”. Si tratta cioè di una vera e propria “colonizzazione dell’immaginario”. Comprendere questa colonizzazione e difendersi da essa è allora di primaria importanza. “Spazi di immaginario possono ancora essere raggiunti e liberati”, ma non mediante quella che impropriamente potremmo definire una “narrativa realistica” (a cui la sinistra, dice Evangelisti, ha erroneamente attribuito in modo esclusivo “validità sociale e letteraria”), bensì attraverso una “narrativa fantastica”, purché non sottomessa a logiche puramente commerciali. La narrativa fantastica può a tal fine “rivelarsi uno strumento interpretativo, o quanto meno allusivo, più utile e fecondo”. Questa maggiore idoneità della narrativa fantastica deriverebbe dalla “sua natura di sogno consapevole, da cui si entra e si esce a volontà”, in modo tale da costituire “un buon addestramento per evadere dai sogni imposti ed eterodiretti”. Anche a prescindere dalle perplessità che suscita l’ossimorica definizione di “sogno consapevole”, a meno di non interpretarla in un senso puramente retorico, l’ottimismo di Evangelisti sembra eccessivo. Per evadere dai condizionamenti ideologici basta davvero privilegiare l’opzione fantastica a detrimento di quello realistica? Non è un dualismo troppo riduttivo questa opposizione netta tra fantastico e realistico? Lo stesso Evangelisti d’altronde parla di una fantascienza intesa come “lettura metaforica non del futuro, ma del presente”. In Italia, per esempio, questa attualità della fantascienza consisterebbe in una tendenza a “riprodurre il presente, sia pure deformandolo un poco”, come una sorta di “specchio in frantumi”. Che è, innegabilmente, un discorso molto vicino alla poetica realistica, se per realismo non intendiamo il mero calco pedissequo della fenomenologia sociale (cosa che forse arrivò a concepire solo Ždanov). E comunque c’è un elemento politico che riconduce ostinatamente molta letteratura di genere, soprattutto fantastica, alla realtà. “Nella letteratura popolare, anche quando scritta da fior di reazionari, c’è qualcosa di sovversivo, di refrattario, di irriducibile al potere. L’interlocutore, soprattutto”. Ed ecco un secondo schema, non meno discutibile: la letteratura popolare, di genere, di serie B, ha una sua intrinseca genuinità; la letteratura high brow è invece di per sé condizionante e passivizzante. La prima libera, la seconda soggioga. In particolare, a salvare la fantascienza da eventuali intenti reazionari dell’autore, interviene il lettore popolare, più o meno occasionale, al quale Evangelisti attribuisce “minori probabilità di essere sedotto e addomesticato del consumatore abituale di letteratura ‘alta’ ”. Il lettore di Science Fiction è infatti “abituato a immergersi in piccoli o grandi inferni metropolitani, a penetrare galassie rette da regole pazzesche, a esplorare mondi alternativi, a scorgere l’incubo nascosto dietro la normalità apparente”. Il modo in cui egli si accosta a questa narrativa è il “coinvolgimento”, cioè una sorta di compenetrazione. Gli è perciò impossibile restare indifferente. Niente a che a vedere con il distacco critico della letteratura alta. La narrativa popolare sottopone il lettore a una sorta di “straniamento dal proprio reale”, una immersione in una dimensione altra. Si tratta inoltre di una narrativa “forte, viscerale”, che sul versante fantastico assume vertiginose caratteristiche metaforiche, ma prive di “inutili pedagogismi”, che ne fanno tutt’altro che un “futile passatempo”. Essa dunque tratta i grandi temi di più urgente attualità: “il razzismo, la guerra, la fame, il disagio urbano, l’invadenza dei mass media, l’autoritarismo, l’arroganza del potere”, che sono per la narrativa di genere, secondo Evangelisti, “pane quotidiano”. Non lo stesso si può dire per “la letteratura che da noi è considerata alta” (ma a questo punto che cosa intenda Evangelisti per letteratura alta è un vero mistero). Anche in questo caso Evangelisti pratica un clamoroso ribaltamento del senso comune da cui si potrebbe ricavare un terzo schema, per così dire, rovesciato: la letteratura di genere è impegnata, mentre quella alta sfugge ad ogni presa di coscienza delle problematiche più serie e tragiche del nostro tempo. Inseguendo un suo obiettivo polemico, Evangelisti si è inventato un’opposizione quasi caricaturale. Di cui però possiamo recuperare alcuni elementi apprezzabili: la non banalità della letteratura di genere, in primo luogo; e poi il suo carattere oppositivo, dovuto a una sua minorità e marginalità (che tuttavia ormai non è più riferibile al genere noir o poliziesco, divenuto centralissimo nella produzione editoriale, per il quale Evangelisti non sembra, salvo eccezioni, provare particolare simpatia). Il genere, per Evangelisti, “ha una sua logica distruttiva incoercibile. Distruttiva verso il sistema”. E perciò: “Oggi più che mai la ‘sottoletteratura’ assomiglia a una bandiera. Da sventolare con orgoglio”. Ma altrove (cioè qualche pagina più avanti) la “sottoletteratura” diventa sinonimo di “volgarità”, di una letteratura “tirata via, scritta in fretta per essere letta in fretta”. Dall’orgoglio eccoci piombati nel disprezzo. La contraddizione è segno anche di un atteggiamento mentale e culturale di Evangelisti, che screma sempre il meglio dalla letteratura di genere, gettando il resto in spazzatura, ma tende ad essere riduttivo nei confronti della letteratura alta, inevitabilmente intesa in modo vago e approssimativo. La sua stessa “difesa della fantascienza” si muove tra queste discrasie concettuali. Si comincia con un riassunto-elogio de La guerra dei mondi di Wells, esempio illuminante che ci fa “capire che la fantascienza è sì letteratura di genere, ma di un genere diverso da tutti gli altri”. Poi si liquida Uno studio in rosso di Conan Doyle in un modo piuttosto grossolano e sbrigativo. Quindi si arriva a una prima formulazione generale: “Certo, non tutta la fantascienza è rimasta fedele al modello originario. Tuttavia, nella sua interezza ha assunto le modificazioni tecnologiche quale fattore di cambiamento sociale, e talora perfino psicologico. Ecco un tema che nella narrativa mainstream di ieri e di oggi, è del tutto assente”. Quale sia questa narrativa mainstream resta ancora una volta nel vago, nell’indefinito. Italo Calvino, per esempio, ne fa parte? Se solo si pensa a scrittori come Primo Levi o Paolo Volponi, per limitarci ai notissimi e al nostro paese, è difficile sostenere che la letteratura di alto profilo non abbia mai trattato il tema delle modificazioni sociologiche e psicologiche determinate dallo sviluppo tecnologico. Si può invece condividere l’affermazione secondo cui la fantascienza “aggiunge qualcosa alla letteratura senza aggettivi”. Cosa sia questo surplus o quid essenziale ce lo ha spiegato benissimo Philip K. Dick. Ma Evangelisti opta piuttosto per una interpretazione in un certo senso para-psicologica, sostenendo che la fantascienza è “il medium attraverso il quale scienza e tecnologia entrano nei sogni. È dunque essa stessa materia onirica, che dal reale riceve l’input, ma poi lo rielabora fino a renderlo assimilabile da parte dell’inconscio”. Qui il discorso s’inabissa nell’insondabile. Più concreto sembra invece il giudizio sul ruolo anticonformista e trasgressivo della fantascienza: “È sovversiva, perché spinge a pensare in grande, quando tutti vorrebbero che pensassimo in piccolo. È anticonvenzionale, perché nella sua forma scritta abolisce spesso il lieto fine, e talora anche il dogma della coerenza. È problematica, perché si pone questioni di portata addirittura universale”. Quasi mai del tutto banale, la fantascienza “ha l’intelligenza nel suo patrimonio genetico”. Sicché, è impossibile prescinderne, come invece possiamo fare per altri generi come il giallo o l’horror, poiché ignorandola ci costringiamo a vivere in un mondo “più ristretto”. Tolti certi toni a volte integralisti, il discorso portato avanti da Valerio Evangelisti è certamente interessante e in gran parte condivisibile. Conclusioni: quando l’acciuga divorò New York Si potrebbero già trarre delle conclusioni, ancorché provvisorie e parziali. Ma rimandiamole ancora per un momento, un ultimo momento di riflessione. Resta infatti ancora aperta la questione del bello nella letteratura fantascientifica. Né s’intende qui trattarla in termini di pura critica accademica. Ogni lettore di fantascienza ha le sue preferenze, i suoi criteri di valutazione, i suoi gusti, insomma. Più che di canoni estetici, propriamente intesi, si tratta di aspetti formali (ma di quella forma che è sostanza) che, più o meno istintivamente, a seconda della formazione culturale di ciascun lettore, ci portano a dire, per esempio, che Isaac Asimov è uno scrittore importante ma tutt’al più gradevole, mentre Kurt Vonnegut o James Graham Ballard sono giganti che hanno prodotto intramontabili capolavori della fantascienza (e della letteratura tout court). Come abbiamo visto lo scrittore di fantascienza (come presumibilmente buona parte dei suoi lettori) tende a trascurare fattori nient’affatto trascurabili quali lo stile, la lingua, la costruzione narrativa, la creazione del personaggio. Al centro di tutto – secondo Dick – starebbe un’idea innovativa capace di attrarre il lettore. Un contenutismo unilaterale assai discutibile e talora anche controproducente. Tale infatti parve a Maurice Blanchot, secondo cui certe narrazioni “spesso cominciano con un’idea mirabile che rende tutto il resto superfluo”. L’idea, per quanto buona, è in fondo poca cosa rispetto al modo in cui la si sviluppa. Ossia al modo in cui si porge il suo senso nel corpo del testo. L’indifferenza a questo lato del problema dovrebbe produrre un tipo di scrittura tecnica e asettica, interamente concentrata sull’estrinsecazione di una tesi. Ma le cose, almeno a quanto mi risulta, non stanno affatto così. Molti lettori di fantascienza (o d’altro) sono attratti anche da storie piuttosto ripetitive, da situazioni paradigmatiche di cui è facile prevedere l’evoluzione, il dénouement. Oppure da pulsioni apparentemente estranee o marginali al contesto. La faccenda è alquanto intricata e ad esplorarla esaurientemente occorrerebbe un altro saggio. Ma occorre aggiungere almeno questo: c’è anche un risvolto che riguarda la critica, cioè la possibilità o l’impossibilità di una valutazione squisitamente letteraria. A porre la questione in tali termini fu già Sergio Solmi nella celeberrima prefazione a Le meraviglie del possibile del 1959, la storica ‘Antologia della fantascienza’, firmata insieme a Carlo Fruttero, che sdoganò in Italia un genere fino ad allora ritenuto paraletterario: Si potrebbe ancora avanzare, contro tale pretesa, il fatto che il più autentico intenditore di fantascienza, il quale è spesso uno scienziato, un tecnico, o quanto meno un dilettante di scienza e di tecnica, non opera verosimilmente le sue scelte in base a criteri estetici, quanto piuttosto in relazione alla perspicuità, fondatezza e soprattutto novità dell’invenzione dell’ipotesi affacciata in questi racconti. Elementi che potrebbero in qualche caso coincidere, ma non coincidono necessariamente, con la superiore qualità di fantasia e di stile. Sotto questo particolare aspetto, il critico non può che declinare la propria incompetenza. Ma occorrerebbe sfatare il mito di un lettore medio di fantascienza così attrezzato teoricamente e soprattutto così tenacemente ed esclusivamente motivato a verificare la congruenza scientifica di ipotesi svolte in forma di fiction. A queste condizioni la fantascienza non sarebbe mai divenuta un genere popolare, di massa. Nella fantascienza c’è anche qualcosa che ci intriga, ci entusiasma, ci ammalia, che riguarda più il lato fantastico che quello scientifico, senza nulla togliere al peso specifico che le “regole del gioco” hanno in questo genere così particolare. Philip K. Dick ironizzava su coloro che pensano “che la SF si esaurisca nei film di George Pal sull’Acciuga che ha inghiottito New York, come quelli che si vedono a tarda notte in tv”. Capisco la doverosa presa di distanza, ma devo confessare che se stanotte dessero questo film, non me lo perderei per niente al mondo. Di questa fascinazione tutt’altro che cerebrale ha consapevolezza anche il selettivo Valerio Evangelisti, sebbene si limiti a scrutarla nel cinema, senza allargare il discorso alla letteratura: Circola in larga parte del cinema americano di serie z un qualcosa di gioioso, di vitale, di genialoide, che apparenta queste produzioni sgangherate a spettacoli da circo. E poiché l’origine del cinema è il baraccone da fiera, nessuno riuscirà mai a espellere i film di rozzo artigianato dall’anima più intima della settima arte, e dalla felicità che riesce a procurare. Ben detto. Ma l’intuizione vale pure (se non tale e quale, con un’opportuna mediazione) per la letteratura. E cioè per un certo sottogenere di letteratura nella quale pure esiste un rozzo artigianato, un bric-à-brac da sagra paesana, un certo parodismo da guitti circensi. Tutti ingredienti certamente amabili di cui molti flâneur della carta stampata hanno subito il fascino indiscreto nei loro vagabondaggi tra un’edicola e una bancarella dell’usato. Depurare la fantascienza di questa sua parte bassa equivarrebbe a snaturarla. Peggio: a privarla del suo cuore. Ma si tratta soltanto di un immaginario filmico, per di più di infima categoria? Di mostri della laguna e di alieni vegetali nei loro baccelli? Di carotoni e lucertoloni? Di spade-laser e venusiani telepatici? Il discorso in realtà si può estendere ad autori e ad opere di più raffinata concezione. Torniamo a Sergio Solmi e leggiamo quanto scrive, per esempio, su Ray Bradbury nel 1955: Naturalmente, per leggere Ray Bradbury è indispensabile una certa disposizione alla meraviglia infantile, un gusto per l’invenzione e la trovata, magari spinte, quelle stesse che ci appassionarono, da ragazzi e più tardi, a Hoffmann e Poe. L’armamentario dei suoi racconti è il medesimo della letteratura popolare di fantascienza, le macchine prodigiose del futuro, le spedizioni interplanetarie, i viaggi nel tempo; egli interpreta da poeta la materia di questo spettacoloso e inquietante mito contemporaneo: e bisogna vedere cosa sa farne. Questa bella analisi contiene tutti gli elementi che ci occorrono per chiudere il nostro discorso. Senza predisporsi allo stupore, a una fruizione ludica e giovanile, cioè fresca e ingenua, a un’accettazione gioconda delle luci della ribalta, non sarà possibile cogliere il nucleo lirico e mitico della fantascienza. E dunque lo spirito della fantascienza, come d’altronde Bolaño ci suggeriva a ogni pagina, altro non è che la sua poesia. E anche un po’ il suo circo. Talora la poesia malinconica e ilare del suo circo. Eccoci pronti adesso a tirare le somme del nostro modesto panegirico. La fantascienza, nel suo insieme, è un genere altamente apprezzabile perché allarga il nostro sguardo, proponendoci sempre un “oltre” da superare con l’immaginazione e la buona volontà. Essa pone in essere l’altro da noi (magari con ribrezzo e terrore, ma sempre con rispetto e un’attonita ammirazione). Assume inoltre un’ottica planetaria che costringe ad accantonare i gretti localismi, gli angusti nazionalismi, e ad assumere atteggiamenti solidali e comportamenti ecologici. La fantascienza è un filone letterario intelligente, ricco di idee, talora perfino colto, che stimola la nostra ricerca della verità sulla realtà che circonda e su noi stessi. In un certo senso, s’inserisce nella tradizione del racconto filosofico. Considera la scienza non come un sistema di certezze, ma come un campo di possibilità da valutare in modo razionale e allo stesso tempo con fantasia creativa. Delle tecnologie mostra le possibili degenerazioni e aberrazioni, senza tuttavia spingerci verso forme di arcaismo e misoneismo. Generalmente, sollecita nel lettore un atteggiamento anticonformista che lo spinge verso prese di posizione contestatrici ed antiautoritarie, anche se non è priva in certi casi di derive mistiche e reazionarie. La fantascienza è sempre un po’ più inquietante che rassicurante, nonostante una certa tendenza al lieto fine (non sempre soddisfatta, peraltro). Una volta che scopriamo che non siamo soli nell’universo, non possiamo più dormire tranquilli. È vero. Ma l’avere sperimentato che possiamo sopravvivere a questa sconvolgente rivelazione ci ha reso più forti e più disponibili al nuovo. Anche il catastrofismo più tetro riserva (quasi) sempre una speranza, per quanto piccola e fragile, sulle capacità dell’umanità di sopravvivere a se stessa, ai suoi più micidiali errori. Non è poco, non vi pare? Ma non è ancora tutto. La fantascienza soddisfa un inesauribile, atavico bisogno di raccontarci storie che riguardano il nostro destino. E lo fa rivisitando i grandi cicli leggendari, a partire dal Faust, sul potere magico della conoscenza, cioè trasformando la scienza in mito, in alchimia tecnologica, in Odissea astrofisica, nei modi di un immaginifico e sublime poema stellare. Bibliografia essenziale Roberto Bolaño, Lo spirito della fantascienza, Milano, Adelphi, 2018. Philip K. Dick, Vita breve e felice di uno scrittore di fantascienza, Milano, Feltrinelli, 2001. Valerio Evangelisti, Alla periferia di Alphaville, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2001. Karen Joy Fowler, Jane Austen Book Club, Vicenza, Neri Pozza, 2005. Sergio Solmi, Saggi sul fantastico, Torino, Einaudi, 1978.
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Gennaio 2021
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