di Manoela Patti
Il 1° maggio del 1947 Salvatore Giuliano e la sua banda sparavano sugli inermi contadini di Piana degli Albanesi, come ogni anno dopo la fine del fascismo riuniti a Portella della Ginestra per celebrare la festa dei lavoratori insieme a decine di compagni dei paesi vicini, e uccidevano 11 persone. Nel settantesimo anniversario della strage l’Istituto Gramsci Siciliano e l’Associazione Portella della Ginestra con altri enti ed istituzioni, con il sostegno della Fondazione Federico II dell’Assemblea regionale siciliana e dell’Università di Palermo, hanno promosso il convegno di studi La strage di Portella della Ginestra. Tra storia e memoria, svoltosi allo Steri di Palermo e a Piana degli Albanesi il 21 e il 22 aprile, e articolato in tre sessioni oltre ad una tavola rotonda conclusiva. Quest’ultima ha avuto per tema la controversa questione della “ricerca della verità” sulla strage di Portella, che nel dibattito pubblico viene spesso presentata come “nascosta”, nei segreti delle carte e degli archivi dello Stato. Non a caso, i rappresentanti delle istituzioni che hanno aperto la prima sessione il 21 aprile, hanno posto al centro dei propri interventi la “necessità” di conoscere la “verità” su Portella. Su questa linea in particolare ha insistito l’intervento del Presidente del Senato Pietro Grasso, che ha inoltre evidenziato l’altra grande questione al centro del dibattito pubblico sulla strage, ovvero quella della presunta inaccessibilità della documentazione disponibile. Si tratta di temi che sono quasi divenuti più noti dei fatti stessi. La strage di Portella è davvero la prima manifestazione della “strategia della tensione”, come, spesso in buona fede, ritiene buona parte dell’opinione pubblica? Il comitato scientifico che ha promosso il convegno ha posto proprio questa domanda al centro della riflessione, sottolineando la necessità di riportare la discussione nell’alveo dell’analisi storiografica, malauguratamente sempre meno capace di “incidere” nel dibattito pubblico e nella ricerca della verità. O, perlomeno, nella ricerca di una verità possibile. Gli interventi presentati nelle due giornate di studio si sono quindi focalizzati principalmente su due temi: l’analisi del contesto in cui matura l’attentato del 1° maggio 1947 e la rielaborazione dei fatti nelle ricostruzioni e narrazioni successive, anch’esse maturate in specifici contesti. Ovvero, la Guerra fredda, la lotta politica, il processo ai membri della banda Giuliano svoltosi a Viterbo, le celebrazioni dell’anniversario dell’eccidio e le ricostruzioni cinematografiche. Le relazioni presentate nella prima sessione (La Sicilia dalla Liberazione alla prima Assemblea regionale (20 aprile 1947)), hanno analizzato il contesto locale nel dopoguerra, sottolineandone la complessità ed evidenziando l’alto livello di conflittualità sociale che l’isola stava attraversando. Questione quest’ultima cruciale per leggere i fatti di Portella: non si spiega infatti la strage se non la si colloca nella stagione delle lotte contadine per la terra e della violentissima reazione agrario-mafiosa a quell’incredibile ciclo di lotte insieme sociali e politiche. Così, anche la figura di Salvatore Giuliano non si comprende se non si tiene conto della caotica e magmatica fase postbellica; una stagione che si chiude con la lotta condotta da una classe dirigente retriva e violenta, quella agrario-separatista-mafiosa, per mantenere il ruolo egemone che i decenni precedenti le avevano consegnato e che il movimento contadino guidato dalle sinistre metteva in discussione. Eppure oggi la strage viene per lo più interpretata ora come la prima manifestazione della “strategia della tensione” − che avrebbe invece caratterizzato la storia dell’Italia repubblicana a partire dalla fine degli anni Sessanta − ora come il risultato di un complotto internazionale che farebbe di Piana degli Albanesi il teatro di uno dei conflitti della Guerra fredda. In entrambi i casi, i risultati elettorali del 20 aprile 1947, sono ritenuti un elemento determinante, la causa prima dell’eccidio. La “vittoria” del Blocco del Popolo avrebbe infatti determinato una violentissima reazione anti-comunista, di cui Giuliano sarebbe stato mero esecutore. In questa prospettiva, come si è detto, si trascura però del tutto l’analisi del quadro sociale e politico locale, caratterizzato da una grave crisi socio-economica, ma anche da una grande spinta al cambiamento delle classi subalterne in una fase di progressiva democratizzazione della società. Simbolo di questa fiducia in una modernizzazione democratica fu la mobilitazione dei contadini nelle lotte per la terra, sulla strada aperta dai decreti Gullo emanati nel 1944 e proseguita con l’azione del PCI e del PSI e per una riforma agraria che ne permettesse il riscatto. Si trattava di lotte sociali senza precedenti nell’isola, che riprendevano ed ampliavano quelle del 1919 ma vedevano questa volta chiaramente presenti un nuovo nucleo di quadri e dirigenti sindacali della CGIL unitaria, spesso anche leader delle locali sezioni social-comuniste. Una mobilitazione politica, che molti, troppi, sindacalisti e militanti pagarono con la vita. Sulla questione della lunga scia di sangue che segna senza soluzione di continuità il ciclo delle lotte contadine in Sicilia, si è soffermata la relazione di Pierluigi Basile, che utilizza non a caso la parola strage per indicare il decennio di omicidi che si apre nel 1944 con l’assassinio a Casteldaccia di Andrea Raja, membro comunista della commissione popolare per i Granai del Popolo, e che vede cadere tra gli altri Placido Rizzotto a Corleone e Salvatore Carnevale a Sciacca. Sull’analisi delle evoluzioni del movimento contadino, a partire dalla stagione dei fasci, si è focalizzata invece la relazione di Vittorio Coco, attento come Basile a sottolineare la violenza della reazione agrario-mafiosa, specialmente nel primo dopoguerra. Per comprendere cosa accade a Piana degli Albanesi, più che all’America e ai presunti disegni eversivi di parte degli uomini dello Stato, bisogna dunque guardare al contesto locale, in cui la prassi era storicamente quella della reazione violenta, facilitata dall’intreccio di interessi che legava proprietari e mafiosi, spesso anch’essi espressione di interessi diretti, e non certo semplici esecutori di una volontà “altra”. In questo senso, appare prezioso il contributo di Vito Scalia che, evidenziando come il conflitto tra socialisti (poi anche comunisti) e proprietari dei feudi avesse radici antiche, ripercorre le tappe del movimento contadino a Piana degli Albanesi e parallelamente quelle della carriera politica e criminale del capomafia Francesco Cuccia, proprietario e a lungo sindaco del piccolo comune alloglotto. La congiuntura del secondo dopoguerra – delineata nei suoi aspetti sociali, politici, economici da Rosario Mangiameli – riporta alla luce conflitti e dinamiche sopite, ma non certo superate. Le radicalizza anzi, laddove la possibilità di cambiare e trasformare la società appare finalmente davvero realizzabile. È da questa prospettiva che va osservata la vicenda di Portella, nella quale la figura di Giuliano, nata in una stagione in cui ordine e disordine si confondono, incarna una dimensione sì ribellistica ma di stampo reazionario facendo propri gli obiettivi della componente agrario-separatista, e condividendone l’ultima parabola. Il bandito difende un’idea di società, espressa da una classe dirigente ormai al tramonto, ma capace in parte di riciclarsi spostandosi nella destra qualunquista e monarchica, con la quale, mentre si consuma l’eccidio di Portella, la Dc si appresta a costituire il primo governo regionale nel quadro della più generale svolta anticomunista del partito di De Gasperi, orientato alla rottura della alleanza con la sinistra già dalla fine del 1946 anche se poi quest’ultima si realizzò effettivamente solo nel maggio del 1947. Prima ancora che l’Italia Repubblicana varasse la Costituzione, in Sicilia prendevano quindi forma alleanze politiche di lì a poco nazionali, che mettevano fine all’unità delle forze antifasciste e che mostravano quanto complessa fosse la transizione dalla monarchia, ma soprattutto dal fascismo alla Repubblica. Le istanze di modernizzazione della società espresse dalla sua parte più progressista, che in Sicilia avevano trovato espressione nel consenso accordato al Blocco del Popolo, furono ostacolate dalla nuova congiuntura politica che si andava delineando. In Sicilia, il nuovo assetto recuperava parte della vecchia classe dirigente reazionaria, che con l’eccidio di Portella mostrava di essere ancora pronta a reagire violentemente ad ogni tipo di mobilitazione sociale che avesse per obiettivo la trasformazione dell’ordine sociale esistente. La strage però non arrestò né il movimento contadino, come testimoniano le lotte degli anni successivi, di cui si è detto, né provocò una reazione speculare, terroristica, da parte delle forze comuniste. Bersaglio principale, queste ultime, di Salvatore Giuliano, che il suo anticomunismo sbandierò dopo Portella in proclami e dichiarazioni destinate tanto all’opinione pubblica, quanto a quella classe politica di cui si era fatto braccio armato, non sappiamo se motu proprio o se dietro espressa richiesta (penso per esempio alla fantomatica lettera in cui veniva chiamato a compiere la strage, che Giuliano dichiarava di aver ricevuto e poi distrutto). Questo dato tuttavia è relativamente importante, poiché gli obiettivi di Giuliano coincidevano con quelli di una classe dirigente retriva che già in passato aveva usato la violenza per fermare il movimento contadino e per riaffermare un odioso strapotere contestato con forza, e con alterne fortune, da un pezzo di società. In questo senso, le relazioni di Patti e Mangiameli mostrano la continuità di un’altissima conflittualità sociale che esplode con violenza inaudita nel caos del secondo dopoguerra, in cui il radicalizzarsi dello scontro è legato anche alla crisi alimentare, alle distruzioni belliche, all’incertezza istituzionale e all’azione del movimento indipendentista, che irrompe sulla scena facendosi latore di una violentissima carica eversiva e reazionaria. Il banditismo siciliano del secondo dopoguerra è il precipitato di tale composto, e Giuliano è colui che in quel milieu più di altri coltiva aspirazioni (velleità?) che potremmo definire politiche, e che persegue attraverso strumenti che ben conosce: “terrore” e violenza, accompagnati da una scaltra costruzione “mediatica” della propria immagine. La posta in gioco è, per tutte le parti in causa – sinistre e movimento contadino, destre e agrari mafioso-indipendentisti, Giuliano, la nuova classe di governo regionale – altissima. Di qui il lungo epilogo dell’attentato del primo maggio: dal dibattito coevo che coinvolge il Pci e Girolamo Li Causi in primis, che immediatamente porta all’Assemblea Costituente la questione sul piano politico, e la Dc e Mario Scelba, ministro dell’Interno di De Gasperi, dall’altra. Gli interventi della seconda (La strage di Portella della Ginestra) e della terza (La memoria) sessione del convegno – Blando, Cruciani, Di Lello, Loreto, Del Rossi, Morreale – aprono una riflessione su questi temi, letti da diverse angolazioni. In particolare si concentrano sulla controversa questione delle forze messe in campo dal governo De Gasperi per catturare Giuliano, sul processo alla banda Giuliano svoltosi a Viterbo (1950–52), e sulla complessa questione del “dopo” la strage di Portella, analizzando tanto lo scontro tra le forze politiche che ne conseguì quanto la rielaborazione dei fatti nella memoria e nelle narrazioni successive. In questo quadro, Blando nel suo contributo sulle intricate vicende che caratterizzano la “caccia” a Giuliano, presenta un’interessante riflessione sul ruolo degli apparati di sicurezza e sul loro funzionamento interno. L’analisi proposta mostra come il gioco di infiltrati e le rivalità tra le i corpi di polizia, siano chiaramente decifrabili al di fuori di ogni logica complottista. Come la strage si inserisce in una congiuntura caratterizzata da una complessa transizione, in Sicilia resa ancora più complicata dalla precocità del dopoguerra (1943), così gli apparati polizieschi, nella loro composizione, costituiscono il riflesso di questa transizione. Uomini della polizia fascista – basta citare Messana, Verdiani e Spanò – e un corpo storicamente in conflitto con quest’ultima come i carabinieri, si trovano a collaborare per riportare l’ordine in una regione sconvolta da rivolte e disordini, dove la violenza, e non la politica, è ormai da anni lo strumento più comune per la risoluzione dei conflitti; dove le relazioni tra criminalità mafiosa e “società” sono complesse e radicate; dove lo Stato deve recuperare il monopolio della violenza. Di qui, prima di Portella, la scelta di Parri di utilizzare il confino contro i leader separatisti del Mis. Di qui, ancora, la scelta di Scelba – la cui linea politica peraltro non è certamente quella di Parri – di utilizzare ogni risorsa per la cattura di Giuliano, sino alla creazione del CFRB (Comando forze repressione banditismo) e al perdurare dello stato d’assedio a Montelepre per più di un anno. La partita finisce per giocarsi sul terreno delle spie e dei delatori, strumenti comuni ai due corpi rivali: ne consegue la messinscena dell’omicidio di Giuliano da parte dei carabinieri di Ugo Luca a Castelvetrano, il 3 luglio del 1950. Invece, com’è noto, fu tradito e ucciso dal suo luogotenente, il cugino Pisciotta. La conclusione cui giungono le due giornate di lavori è che la strage di Portella non rappresenta la prima di una serie di trame oscure che inquinano la Repubblica sin dalle sue origini. Si tratta sì di una vicenda intricata, che chiama in causa anche la classe dirigente nazionale e le sue alleanze politiche, ma per comprendere cosa accade a Portella della Ginestra settanta anni fa, la funzione euristica della teoria del complotto è sopravvalutata e fuorviante. Piuttosto, bisogna guardare alla documentazione nella sua complessità, tenere insieme il quadro politico e la congiuntura postbellica, le istanze di gruppi e di singoli, l’interazione fra vecchio e nuovo, le continuità e le rotture che caratterizzano in particolar modo le fasi di transizione; ancora, bisogna guardare al contesto locale, alle relazioni storicamente date in quel territorio, e all’interazione con il contesto nazionale. Pur ribadendo quindi la necessità di rendere pubblici i documenti sull’eccidio ancora non accessibili, concludono nei loro brillanti interventi Salvatore Lupo e i direttori dell’Archivio di Stato di Palermo e dell’Archivio Flamigni, Claudio Torrisi e Ilaria Moroni, per una verità possibile su Portella e su ciò che avviene dopo − a Castelvetrano, a Viterbo, nel carcere di Palermo dove viene ucciso Pisciotta − bisogna lavorare negli archivi e sulle fonti, fuori da prestabilite logiche che evocano cospirazioni e trame eversive internazionali. Per citare le parole del procuratore generale Alfredo Viola dopo la storica sentenza del 19 giugno 2017 sulla strage ordinovista di Piazza della Loggia, “se c’è una cosa buona in tutto questo tempo che è passato è che l’enorme distanza dai fatti consente di cogliere l’immagine di tutta la foresta e non quella delle singole foglie”.
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Febbraio 2019
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