UN INCUBO ASSURDO E INESORABILE
14/4/2018
di Vito Bianco
Potentissima tragedia in tre atti orchestrata con una radicalità visiva davvero memorabile, Foxtrot di Samuel Maoz, (Gran Premio della Giuria all’ultimo festival di Venezia) dice, sull’insolubile e annoso conflitto arabo-israeliano, più di quanto sia possibile spiegare in un saggio analitico di storia o politologia. Dice, non spiega. O meglio, fa sentire. Ma non è una novità, non è la prima volta che un romanzo, un film, per non parlare della poesia (Todenfuge di Paul Celan su Auschwitz) arrivano più a fondo e più lontano di inchieste e storici, toccando e facendo vibrare la corda intima di un dramma, di un dolore privato e individuale, di un conflitto in cui, come in questo caso, si mischiano in modo ormai inestricabile dolori rancori e ingiustizie patite e vendicate. Sul settantennale (ma i precedenti risalgono al tempo del protettorato inglese) conflitto in Palestina non sono mancati i buoni film, e tra questi l’opera d’esordio di Saverio Costanzo, Private; e infatti è spesso toccato agli artisti (scrittori e cineasti) raccontare la parte invisibile e più traumatica di questa lunga, troppo lunga storia di sangue, terrori e lutti. Nessuno però lo aveva fatto, perlomeno al cinema, con la forza e l’originalità visiva di Samuel Maoz, con una messinscena nella quale scrittura drammatica e immagini si compenetrano, si sovrappongono con una perfezione che lascia a bocca aperta. E viene da pensare, uscendo dalla sala, che Maoz (anno di nascita 1962) abbia deciso di prendere alla lettera l’esortazione di Roy Anderson: nessuna inquadratura sia indifferente. E così è: nessuna inquadratura è “indifferente”; e tutte sono necessarie, precise e insostituibili. Il regista israeliano è autore da scelte estreme ma non gratuite; lo aveva già dimostrato con Lebanon, la guerra in Libano dell’82 vista dalla feritoia di un carro armato, un modo insolito ma molto efficace di despettacolarizzare la guerra riducendola ai limiti angusti di una feritoia o di un mirino, e lo conferma con questo studiatissimo lavoro sull’assurda inesorabilità di una situazione bellica permanente dietro la maschera di una normalità quotidiana vissuta sotto il costante incombere della morte, da una parte e dall’altra. Dicevo “tragedia in tre atti”. Il primo comincia con due soldati che suonano alla porta di casa Feldman. Ad aprire la porta è la moglie Alma (la madre) alla quale non servono le parole per capire che i soldati sono lì per annunciare la morte del figlio Jonatan, militare di leva. La donna ha una crisi e viene sedata. Il marito, un affermato architetto, stringe i denti e si sforza di trattenere un dolore che vorrebbe esplodere. C’è da rispondere alle telefonate, organizzare il funerale, parlare con la vecchia madre che non ci sta più tanto con la testa, trovare le parole giuste per dirlo alla figlia minore. Maoz riduce al minimo i dialoghi, usa l’ellissi e affida la rappresentazione di quel ciò che è letteralmente irrappresentabile alle immagini: inquadrature strette, primi e primissimi piani, punti di vista allargati, riprese dall’alto (il padre in bagno che va freneticamente da una parete all’altra…). È una scelta oltranzista, che qualcuno ha scambiato per narcisismo autoriale quando è invece, in tutta evidenza, una calcolata opzione drammaturgica e una marcata preferenza per la sottrazione, per il meno che, valorizzato al massimo delle sue possibilità, diventa un più: più forza, più significato, più allusività, più vicinanza inesprimibile, e più lontananza dalla banalità – dal già visto e sentito. Perché la domanda ancora una volta è, non di chi è il torto, chi ha cominciato, ma: questo è un incubo; come si esce dall’incubo? E ancora: come si interrompe il ballo folle che ti riporta sempre al medesimo punto? L’equivalente visuale di queste domande, di un clima psicologico unico al mondo, sono i dettagli, la lentezza espressiva, la vicinanza lenticolare dei carrelli, la piattezza frontale insistita e ripetuta a dare la sensazione fisica – ottica – della coazione a ripetere, di una clausura spaziale e mentale. Michael, il padre, beve un bicchiere d’acqua ogni ora, secondo prescrizione dell’ufficiale medico. Bisogna organizzare il funerale ma il corpo del caduto non si può vedere. Non è rimasto nulla da vedere, i commilitoni porteranno una bara riempita di sassi, chiede irritato Michael? Ma ecco il colpo di scena: c’è stato un errore, Jonatan è vivo, è di stanza in un posto di controllo ai lati di una striscia di asfalto, nel mezzo di una landa desolata che somiglia molto a un deserto. È lo scenario di tutta la seconda parte, la cui cifra dominante è l’ironia surreale sullo sfondo dell’insensatezza di un tempo vuoto e morto, con quattro giovani soldati sfiduciati impegnati in un compito di sorveglianza tanto meticoloso quanto insensato. Jonatan mostra al compagno di turno i passi del ballo che dà il titolo al film, e uno straniante ritmo esterno ne accompagna l’esibizione. Passa un cammello solitario e si alza la barra; arriva in macchina una coppia di mezza età e scatta il rigoroso controllo sotto la luce del faro e la pioggia. Torpore e tensione; teatro dell’assurdo (verifica della pendenza del pavimento cronometrando il tempo di percorrenza di una lattina di birra) e sensazione ineliminabile di pericolo incombente. Così basta una lattina (un’altra) scivolata fuori dall’abitacolo di una macchina con a bordo quattro coetanei dei militari al posto di blocco per innescare la certezza della bomba. Jonatan, in quel momento dietro la mitragliatrice, spara una lunga raffica che li uccide tutti, quindi anche la ragazza seduta accanto al guidatore con la quale il soldato Feldman ha pochi minuti prima uno sguardo di “riconoscimento” e simpatia. Si muore per la caduta accidentale di una lattina in quella piccola fetta di Medio Oriente ad altissima densità religiosa, in quel venerato cuore saturo di lacrime della trascendenza monoteista. La sequenza della ruspa che solleva l’automobile con dentro i cadaveri e la deposita in una larga fossa scavata per l’impietoso rito di sepoltura è difficilmente dimenticabile: brutalità e cancellazione dei corpi del reato; mezzo meccanico (la pala meccanica) in primo piano a rimandare in un lampo a distruzioni e sventramenti, forza delle armi e forza dell’espansione illegittima, umiliante. Va bene così, dice il colonnello. Mettiamoci una pietra sopra. Il primo atto si era chiuso con Michael al telefono con un amico che ha un amico tanto importante che con una telefonata può fare favori quasi impossibili. Lui ora vuol vedere il figlio; non si fida, vuole toccarlo per essere certo che sia vivo. È testardo e a nulla valgono i tentativi di dissuaderlo della moglie e del fratello, che gli dicono: lascia perdere, goditi la bella notizia, è vivo e tanto basta. Ma il destino, “la danza del destino” (è il sottotitolo) il foxtrot del destino esige che il ballerino debba tornare nella posizione di partenza, quindi il soldato Jonatan Feldman può tornare a casa, in automobile. Sul sedile posteriore, Jonatan, talento di fumettista, disegna a matita una ruspa che tiene in bocca una macchina. A un certo punto un cammello attraversa la strada… Nella terza e ultima parte ritroviamo Michael e Alma. Si sono separati. È passato un anno, forse due. Lui padre è passato a prendere cose sue nella casa dove non abita più. La ferita è ancora aperta; la donna non riesce a perdonare al marito quella mortifera telefonata (ma cosa si può mai fare contro un destino segnato?). Si parlano. Fumano erba. Mangiano una torta che lei ha appena fatto, ma ha le nocche graffiate (l’avevamo vista in cucina infliggersi la punizione), Michael racconta un episodio del suo servizio militare che aveva sempre taciuto, un rimorso con cui da allora convive. Poi si alza; dice alla moglie, c’è un ballo, ti faccio vedere i passi. E come il figlio, ma senza musica, mima sconsolato i movimenti del foxtrot fatale. Il cerchio si chiude. (Lior Ashkenazi e Sarah Adler sono Michael e Alma: espressivi e intensi ma con misura. Il montaggio millimetrico è di Arik Leibovitch. L’intonatissima fotografia di Giora Bejach).
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