In occasione della pubblicazione della sua Autobibliografia del lettore da giovane (Edizioni Plumelia, con una Postfazione di Aldo Gerbino) abbiamo discusso del libro e dei “suoi primi quarant’anni” di scrittura con il narratore, critico e animatore di svariate riviste Marcello Benfante.
Questa Autobibliografia parla – non inaspettatamente, dato il titolo – dei libri che hai letto prima di raggiungere la maggiore età. Ma allude anche ai libri che in seguito hai scritto, a cominciare dallo sfondo di quelle antiche letture, un Viale Strasburgo che iniziava allora a prendere corpo. Intendo dire che i tuoi romanzi e i tuoi racconti trattano di una “condizione contemporanea” che, ragionando in superficie, potrebbe darsi in qualsiasi periferia metropolitana d’oggi; ma leggendo tra le righe ci si accorge che questa scrittura “astratta” si giova pur sempre di un contrappeso “territoriale”, che non solo nelle tue storie c’è la megalopoli del Meridione d’Italia, ma c’è proprio “Lo Strasburgo” in senso lato, la parte di Palermo che 40 anni fa rappresentava il Nuovo e che poi è rimasta più o meno al palo, una specie di Museo del Modernariato a cielo aperto… Quando sono arrivato, nei primi anni Sessanta, qui era il Selvaggio West; non esisteva nemmeno Viale Strasburgo come tale, la strada non era asfaltata, ovunque era campagna. Noi giovani “pionieri” ci scontravamo con i ragazzi delle borgate limitrofe vuoi in combattutissime partite di calcio, vuoi in vere e proprie battaglie, scorrazzando in bicicletta, bersagliandoci con le fionde e tirandoci addosso di tutto, una volta perfino i carciofi, che – ti assicuro - fanno malissimo e provocano ferite sanguinosissime. Questo può darti un’idea del retroscena reale del lungo capitolo dell’Autobibliografia che ho dedicato ai libri Western, al Mito della Frontiera. In molti miei racconti o in un certo tipo di articoli narrativi - per rispondere alla questione che poni - c’è sì Viale Strasburgo, ma c’è anche lo Zen, un quartiere nettamente più popolare di questo, le borgate di Resuttana e San Lorenzo. Lo specifico dello “Strasburgo” è quello di essere una periferia borghese, ma culturalmente deprivata: in pratica senza vere librerie, per dirne una. All’epoca c’era soltanto una cartolibreria che si trovava proprio qui, sotto quella che adesso è nuovamente casa mia, presso la quale avvenne la scoperta di Sherlock Holmes, attraverso un’edizione Salani dallo strambo titolo Lo Scritto Rosso. La copertina del libro (come quasi tutto ciò di cui parlo nell’Autobibliografia, per esempio la sigla del telefilm Ivanhoe, che ho cercato su YouTube solo a cose fatte) l’ho ricostruita a memoria, perché quello che qui contava era il mio ricordo. Più in generale, nelle vicende che racconto inevitabilmente parlo del mondo in cui vivo (da un certo punto di vista sono io il voyeur di un mio libro di qualche anno fa, L’uomo che guardava le donne), parlo pur sempre di me che “guardo la vita” dalla mia postazione periferica. Riguardo ad un autobiografismo più puntuale, be’, ad esempio le fobie che si agitavano nella raccolta di racconti Cassata a orologeria mi appartengono in buona sostanza, sono fobie che ho esasperato facendone dei racconti fantastici. Un tema in qualche modo profetico è quello dell’uomo che va rintanandosi in casa, e qui la narrativa ha anticipato la realtà. Mi sono davvero chiuso in me stesso. Peraltro, questa ritirata è tipica di un certo tipo di intellettuali palermitani che sono sempre stati un mio punto di riferimento. Penso per esempio a Franco Maresco. La battuta di Enzo Sellerio, che m’è sempre piaciuta tantissimo, “Io non vivo a Palermo, io vivo a casa mia”, esprime proprio questa frattura che a un certo punto viene a crearsi tra l’intellettuale e la sua città. Il caso limite è quello di Angelo Fiore, un rintanato senza tana, dato che non possedeva una casa. L’eccezione che conferma la regola – rispetto all’ambientazione delle tue storie – è Cinopolis, un romanzo del 2006 che inizia, se non nel centro storico propriamente detto, senz’altro in una Palermo “vecchia”. A me sembra che tu abbia rasentato la perfezione letteraria con Vorago et Vertigo – che è un romanzo breve, o racconto lungo, risalente al 1992 – ma che tutto sommato proprio Cinopolis costituisca il tuo maggiore apporto alla tradizione del conte philosophique. Ho già scritto che mi fa pensare a certe tesi di René Girard su conflitto civile e capro espiatorio, ma con un occhio all’aspetto “semiotico” della manipolazione ideologica che è ai massimi livelli, dall’Orwell di 1984 all’analisi della retorica del Mein Kampf fatta nel 1939 da Kenneth Burke. E tutto ciò impiegando fino in fondo le armi proprie del narratore, incluse le “svolte” e le soprese narrative (sulle quali taccio per non rovinare la sorpresa ai futuri lettori del romanzo). Diciamo soltanto che nel libro ha luogo una classica Rivolta degli Animali, la cui essenza tuttavia subirà metamorfosi e troverà smentite nel corso della storia. Lo stesso “cane” filosofico assume man mano significati diversi. Si va dalla rivolta diabolica (il sabba iniziale) alla caninità non corrotta (il cane che accompagna un cieco), fino al “farsi uomini” dei cani. Un tema hobbesiano coniugato con Hitchcock, per tramite di Daphne Du Maurier. A mio parere da Cinopolis potrebbe venir fuori una Graphic Novel straordinaria. Ci hai mai pensato? E, a proposito, cosa mi racconti dei due libri firmati a quattro mani con Gianni Allegra (Ballata triste della città dei topi e Diario della pioggia)? In effetti scrivendo Cinopolis disegnavo dei personaggi, facevo degli schizzi, degli storyboards se vogliamo. Ma, ad esempio, non so disegnare i cani, che mi vengono come dei piccoli cavalli. Con Gianni ci scambiamo sempre parecchie idee - lui ad esempio ha apportato dei piccoli cambiamenti nella sceneggiatura al Diario della pioggia, soprattutto a livello di scansione delle sequenze e di inquadrature - ma nelle nostre collaborazioni ci sono comunque dei ruoli abbastanza definiti, ciascuno fa la sua parte in totale autonomia. Nella Ballata l’apporto dell’illustratore al libro è in apparenza più tradizionale: ma i personaggi della vicenda, questi topi incivili, li aveva inventati Gianni, sulle pagine di Repubblica. Io ci ho costruito intorno una storia e ho declinato la categoria della topeità, per così dire. Torniamo adesso all’Autobibliografia, che è anche una specie di premessa al tuo personale Bildungsroman. Cos’è successo “dopo Majakosvkij”, cioè dopo l’ultimo vero e proprio capitolo del libro? Quello di Majakovskij è il primo libro che acquisto – nel 1972, a quasi diciassette anni - con soldi “miei”. C’è rimasto sopra il segno di un mio passaggio: una macchia a mezzaluna impressa certamente da una tazzina di caffè. Osservo nell’Autobibliografia che “deve essere stato bellissimo bere il caffè leggendo poesie e sognando la rivoluzione”. Qui finisce il periodo raccontato nel libro e inizia la mia vita di adulto: nel 1975 esordisco come poeta (dando alle stampe un volumetto che in seguito riuscirò a far sparire dalla faccia della terra) e parallelamente milito nella ‘Nuova Sinistra’ italiana, continuando a sognare una rivoluzione che io e tanti altri immaginiamo come un processo talmente vasto e partecipato che l’eventuale uso della coercizione vi avrebbe giocato un ruolo minimo. Il che mi sta benissimo, dato che non potrei fare male a una mosca. In quegli anni leggo la rivista Praxis e frequento le iniziative animate da Mario Mineo, da me molto stimato. Non riesco però a far mio un certo taglio economicista (ho letto quasi tutto Marx, ma davanti al Capitale mi sono fermato al primo libro, senza capirne granché) con cui allora percepivamo il gruppo di Praxis, né le scelte settarie a livello organizzativo. Ritenevo, come molti, che si dovesse aggregare una grossa formazione – o perlomeno la più grossa possibile - a sinistra del PCI, e pertanto partecipo al processo costituente di Democrazia Proletaria: nel 1978 DP viene alla luce per acclamazione al Teatro Lirico di Milano, e io sono lì tra gli “acclamanti”. Seguono poi gli anni in cui da lettore del Quotidiano dei Lavoratori [organo di Avanguardia Operaia prima e di DP poi, Ndr] divento suo collaboratore. Il mio primo articolo firmato è del 1977: un’intervista al pretore Di Lello. Con gli anni Ottanta matura però il mio distacco dalla militanza politica in senso stretto: non sopporto il marxismo vissuto come religione (i Sacri Testi, i “Marx non dice questo…”, eccetera), anche se Marx - pensiamo a un testo stupendo anche dal punto di vista letterario, come Il Manifesto - rimane un punto di riferimento culturale e politico imprescindibile. Ma mi considero più vicino a Voltaire, a Diderot (che è ancora oggi il mio intellettuale preferito) e ad un certo socialismo liberale, tra Rosselli e Capitini, per intenderci. Nel frattempo, però, anche per me gli ’80 sono anni di relativo “disimpegno”: riscopro innanzitutto la passione per i fumetti e per i romanzi gialli, di cui scriverò per tredici anni sul Giornale di Sicilia. Al giornale ero approdato in seguito ad un vero e proprio “provino” (un articolo su Diabolik) fattomi da quel raffinato giornalista che era Fausto De Luca. Considera che, come accade in tutte le migliori famiglie, anche al GDS le pagine culturali non contavano molto, anche se a gestirle c’erano professionisti preparatissimi come Giuseppe Sevello, Anselmo Calaciura, Arturo Grassi; figuriamoci poi gialli e fumetti. Perciò potevo scrivere quello che mi pareva, da una prospettiva politico-culturale palesemente diversa da quella imperante nel giornale. Il rapporto si incrina nel 1993, per via di una mia lettera al Manifesto, pubblicata con un certo rilievo, in cui scrivo che in vista degli imminenti mondiali di calcio “non riesco a fare il tifo per l’Italia”, di fronte agli “azzurri” berlusconiani e allo stesso nome – Forza Italia – del partito di centro-destra al governo. Prontamente sulla prima pagina del Sicilia esce un articolo in cui vengo tacciato di bacchettonismo, e soprattutto apostrofato come “un certo Benfante”: questo dopo 13 anni di collaborazione e circa 1.000 articoli pubblicati sul giornale ! La collaborazione termina lì. Nella seconda metà degli anni Ottanta dirigi la tua prima rivista, Casba... È stata un’esperienza bellissima, di autentica felicità, ma ahimè troppo breve. La prima serie di Casba, “rivista dell’immagine e dell’immaginario”, nasceva dalla mia collaborazione con il raffinatissimo illustratore Alfonso Cucinelli, che adesso fa l’architetto a Milano. In quel periodo ci divertivamo un sacco a rivisitare la città in chiave fantastica. Ma la stagione “disimpegnata” era destinata a durare poco. Nell’estate del ’92 ci sono le stragi di mafia, e Casba rinasce in risposta alla mattanza, con un nuovo “mandato” morale e civile. Io e Francesco Giambrone scriviamo, nell’editoriale della nuova serie, che la prima Casba “è stata rivista dell’immaginario, che ci appare oggi tremendamente anacronistica”. Con me e Francesco in redazione ci sono Alessandro Rais, Masi Ribaudo, Marina Fazio, Ada Merlo, Valeria Balsano, Salvo Fedele, Sebastiano Giacobello, Raimondo Marcenò, Margherita Cottone, Mara Antonietta Salamone. La rivista parte in quarta, ottiene subito consenso (e anche una forte sottoscrizione popolare) ma poi si arena quasi subito per una serie di errori di gestione e di divergenze, fondamentalmente sul rapporto con la Giunta Orlando, quella della Primavera palermitana. La cosa è già visibile in un Forum in cui la redazione dibatte proprio con il sindaco: c’è chi – ed io sono tra questi – pur appoggiando Orlando ritiene indispensabile mantenere un’assoluta autonomia; e chi pensa invece di poter essere più utile alla città attraverso un rapporto organico con la giunta. Prospettive e scelte diverse che si riflettono anche sui contenuti della rivista: Casba finirà col morire stavolta definitivamente, ma non dopo aver vinto, alla fine del 1993, il prestigioso Premio Linea d’Ombra, grazie ad una segnalazione di Marzio Mazzara, che dopo essere stato tra i protagonisti del movimento palermitano della “Pantera” si era trasferito a Milano e teneva i collegamenti con il gruppo di intellettuali capeggiato da Goffredo Fofi. Ricordo tra gli altri premiati il cantante degli Almamegretta Raiz, l’attrice Iaia Forte, Mereghetti che lanciava proprio allora il suo Dizionario dei Film: una foto di famiglia di una certa sinistra culturale dell’epoca, con tutti i pregi e i limiti del caso… e direi che da questo momento in poi ci sono “due” Benfante paralleli: da un lato il narratore, che scrive all’insegna del “pessimismo della ragione” (basti pensare a Vorago et Vertigo, del 1992, dove persino uno scoop tipo l’Asso nella Manica di Billy Wilder è ormai del tutto irricevibile per l’“opinione pubblica”); dall’altro l’animatore di progetti (contro)culturali, il “rivistaro”, che giocoforza è animato da una certa testardaggine “civile”… Be’, come dice Sciascia, se scrivi – perfino se scrivi del tuo pessimismo - alla fin fine del tutto pessimista non sei… ad ogni buon conto, con Fofi nasce in quel frangente un rapporto forte e duraturo: per le sue riviste, (dopo Linea d’Ombra c’è il breve esperimento di Dove sta Zazà a Napoli, poi La Terra vista dalla Luna, e infine Lo Straniero) scriverò soprattutto di letteratura meridionale; ma la cosa più importante è che Goffredo – in quel periodo assiduo frequentatore di Palermo - mi (ci) convince a fare una nuova rivista, Nino domani a Palermo, e fa da catalizzatore del gruppo redazionale: ci sono Matteo Bavera, Mela dell’Erba, Roberto Alajmo, Marina Fazio (che con me è l’unica superstite di Casba), Roberta Torre, Ciprì & Maresco nonché Giacomo Vaiarelli del gruppo di Segno. La rivista, il cui allargatissimo “Politburo” si riunisce a casa di Matteo, è subito molto critica nei confronti della politica culturale – fortemente involutasi - della giunta Orlando: tanto che il sindaco “convoca” me e Matteo e ha luogo un confronto decisamente teso. In quegli stessi anni inizio a collaborare con Segno (di cui farò poi anche parte della redazione per alcuni intensi anni), cosa che faccio tutt’ora, in un’ottica militante, cercando di fare politica anche attraverso la cultura e viceversa. E bisogna dire che Segno, con la sua straordinaria storia quarantennale, grazie all’intelligente perseveranza di Nino Fasullo, è una di quelle rassicuranti anomalie di cui non cessiamo di stupirci e di compiacerci. Nel momento in cui l’esperienza di Nino domani a Palermo si esaurisce (per motivi intuibili anche in base alla eterogenea composizione del collettivo redazionale), fondo, nell’aprile del 2000, la mia quarta rivistina, niño, che per me avrebbe dovuto essere la quadratura del cerchio: polemica culturale, letteratura, politica, ma anche immagine, dato che ogni fascicolo era interamente illustrato da un solo artista, che nel caso del n.1 fu – manco a dirlo – Gianni Allegra. L’editore era Fabio Orlando e in redazione stavolta c’eravate tu ed Emiliano Morreale (conosciuti “intorno” a Nino domani a Palermo), Matteo Di Gesù (incrociato a Segno) e il compianto Francesco Alaimo. Che ricordo annunziare “io sono un comunista” all’affollatissimo incontro per il lancio del primo numero, con un certo sgomento di una parte dei convenuti… Francesco era un amabilissimo intellettuale e gentiluomo. Animava Kaleghè, una rivista dall’impostazione se vogliamo tradizionale, ma che era un crocevia di cose buone. Mi manca, Francesco, e mi mancano anche spazi sul tipo di Kaleghè o di Margini. Ce ne sono, adesso? Non mi pare. A parte Segno, ovviamente, rimasto pressoché l’unico testimone dell’epoca o dell’epica delle riviste. In generale è difficile oggi fare immaginare a chi ha vissuto la discussione politico-culturale soltanto in rete – se non soltanto su Facebook! – che le piccole riviste cartacee erano tutt’altro che clandestine, che – nei loro limiti – erano spesso occasione di doverosa polemica e anche di scoperta intellettuale… Per concludere vorrei parlare della tua attività di critico militante, della quale hai fornito una splendida definizione tu stesso (sia pure parlando d’altro): mi riferisco a quel “cecchino disarmato” con cui si conclude L’uomo che guardava le donne. Sì, il cecchino disarmato è una metafora dell’intellettuale, e in particolare del letterato. Un’immagine dell’impotenza della critica, militante o meno. Per quanto possa essere lungimirante e per quanto la sua mira possa essere precisa, oggi il critico è divenuto una figura pleonastica e ininfluente. Nel migliore dei casi, spara a salve. Eppure nella triangolazione scrittore-editore-lettore (anch’essa in buona sostanza saltata) il critico dovrebbe essere un mediatore indispensabile. E con lui, mi pare, le riviste, ossia il luogo deputato della critica, del pensiero critico. Intervista raccolta da Alfonso Geraci
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