di Giordano Sivini
L’asimmetria delle crisi e la centralità dei rendimenti Nella grande recessione iniziata nel 2007 e in quella attuale del grande lockdown, il mondo si confronta con crisi di portata globale, paradossalmente originate da eventi localizzati. La grande recessione è stata originata dalla insolvibilità dei mutuatari subprime, che aveva bloccato il flusso di rendimenti dei titoli basati sulla cartolarizzazione dei mutui. Questi titoli costituivano appena il tre per cento del totale delle attività delle banche di Wall Street[1], una nicchia particolarmente speculativa entro una enorme massa costruita sui debiti delle famiglie. Il grande lockdown è stato invece innescato dal blocco delle attività produttive del mercato di Wuhan, un’area della Cina dove sono localizzati i fornitori di 51 mila imprese attive nel mondo. Si è estesa alle aree contigue, ed ha interrotto le catene mondiali di approvvigionamento just-in-time ben prima che gli Stati, uno dopo l’altro, chiudessero le proprie attività non essenziali. Le imprese e le famiglie si sono trovate in difficoltà nel far fronte alla massa dei debiti in scadenza. Entrambe le crisi hanno colpito i rendimenti. Nell’economia del debito i rendimenti esprimono la vitalità del rapporto di credito sul quale si erge il sistema dei titoli finanziari. “I titoli - chiarisce un esperto di finanza - sono radicati in uno spazio giuridicamente coerente di diritti, doveri o convenzioni. Esistono dunque in quanto originati dalla realtà che li contiene. Perciò, all’estremo, tutti gli elementi della realtà possono essere introdotti nello spazio teorico e pratico della finanza. L’attività sottostante è ovunque la stessa: quella di uno stock autonomo di ricchezza che mira a generare un flusso di rendimenti”[2]. I rendimenti determinano la riproduzione del rapporto tra credito e debito. Da ciò deriva la loro centralità nell’analisi delle crisi e degli interventi dello Stato per affrontarle, al di là delle enunciazioni relative a specifiche misure di sostegno per banche, imprese e famiglie, e delle implementazioni da parte del Tesoro e della Banca centrale. La rilevanza dei rendimenti è poco tematizzata nelle analisi, ma è implicita nel discorso pubblico. Si legge, ad esempio, sul Sole 24 Ore. “La crisi del 2008-2009 fu essenzialmente una crisi finanziaria che contagiò l’economia attraverso una generale stretta creditizia. Con il Covid le imprese hanno avuto un blocco del fatturato che ha messo a rischio la loro capacità di onorare i debiti”[3]. Ogni titolo è originato dalla cessione di un credito e attesta l’esistenza del debito. Definisce le modalità del rimborso accresciuto dagli interessi, mediante rendimenti che l’attività sottostante, costituita o potenziata utilizzando il credito, deve erogare. Per farvi fronte, deve attingere al valore di cui dispone, anche se non è riuscita con il credito ad acquistare mezzi di produzione e forza lavoro e creare nuovo valore. L’interruzione del flusso di rendimenti è comune alle due crisi. Nella grande recessione si è manifestata dal lato della insolvibilità dei titoli, per il timore che si potesse estendere dai subprime alla generalità dei derivati; nel grande lockdown, invece, dal lato delle attività sottostanti, la cui operatività è stata sospesa. In entrambi i casi, lo Stato - come si evidenzia dall’esame relativo agli Stati Uniti - è intervenuto prioritariamente per riaffermare la connessione tra attività sottostanti e titoli attraverso i rendimenti. La loro funzione di strumenti di espropriazione di ricchezza sociale è qui di seguito delineata. L’inversione tra valore e debito Nella società del valore il credito genera il debito per contribuire a realizzare nuovo valore. Due soggetti, il capitale produttivo di interesse e il capitale produttivo di merce si riproducono incontrandosi. Il primo si accresce offrendo credito in cambio di interesse, il secondo lo domanda quando non dispone di risorse proprie per acquistare i mezzi che gli consentono di accrescersi attraverso la produzione e la vendita di merce. I loro diversi orizzonti sono espressi dalle relazioni D-D’ e rispettivamente D-M-D’, che evidenziano la diversa origine del denaro accresciuto. L’incremento D’ che nella relazione D-D’ rappresenta il rendimento, deve sostanziarsi attingendo al D’ della relazione D-M-D’. Nella società del valore implica una sottrazione di ricchezza sociale, compensata tuttavia dal contributo del credito alla creazione delle condizioni della produzione di plusvalore. Quando l’accumulazione rallenta, il capitale produttivo di merce utilizza il profitto non per riprodursi ma per alimentare il capitale produttivo di interesse, il quale, per accrescersi come D-D’, eroga crediti e produce titoli di debito. Questo afflusso di titoli espande la liquidità, un concetto che denota la variabilità del loro prezzo nel momento della trasformazione in denaro. Il prezzo infatti dipende sia dall’andamento dell’attività sottostante sia dall’apprezzamento nella loro compravendita, da cui scaturiscono plusvalenze o minusvalenze. Il passaggio dall’economia basata sul valore a quella basata sul debito si realizza con la terza rivoluzione industriale, che riduce la capacità di produzione di plusvalore a causa dell’aumento della produttività del lavoro, che contrae l’utilizzazione di lavoro vivo, e condiziona il capitale produttivo di merce a ricorrere sistematicamente al credito. Quando il credito condiziona la valorizzazione, il saggio di profitto va ridefinito rapportando al plusvalore i suoi costi oltre a quelli del capitale costante e del capitale variabile. Il saggio si abbassa, e per conseguire un profitto al netto del debito è necessario aumentare ancora la produttività. Nel contesto di generale riduzione della produzione di plusvalore il capitale produttivo di merce accelera la centralizzazione. La sopravvivenza competitiva è riservata a quella parte del capitale produttivo di merce che realizza profitto oltre la soglia necessaria a far fronte agli interessi sui crediti. L’altra parte, tuttavia, resta in piedi finché ha risorse di cui il capitale finanziario può alimentarsi. Metà delle grandi imprese che operano nel mondo non realizzano profitti economici, ma riescono a remunerare il capitale finanziario. Altre ricadono nella categoria delle imprese zombie, che stanno sul mercato senza essere in grado di rimborsare il debito, costrette dai creditori ad emettere nuovi titoli per rinnovare il credito fino a quando possono estrarre da esse rendimenti. D’altra parte le imprese stesse, approfittando dei bassi tassi di interesse, prima della recente grande crisi si indebitavano per acquistare azioni proprie e aumentare il prezzo di quelle che restano in borsa, facendo contenti azionisti e manager premiati con stock option. Nel 2018 e 2019 hanno speso 115 dollari in buy back per ogni 100 di investimenti, contro i 60 della media dei 20 anni precedenti. Le imprese che non riescono nella valorizzazione devono emettere nuovi titoli per onorare il debito. L’erogazione dei rendimenti deve essere fatta con capitale-denaro che deriva dalla cessione di parte del valore che l’entità sottostante ha già in sé incorporato, in un processo che la porta all’estinzione. I rendimenti legati al debito delle imprese di servizio incidono negativamente oltre che sul profitto specifico dell’impresa, anche sul plusvalore complessivo con cui si sostiene il settore terziario, costituito dall’esternalizzazione delle funzioni improduttive di valore. I rendimenti legati al credito per il consumo sono estorti al salario e al reddito delle famiglie, a fronte di mutui, prestiti e, meno consapevolmente, delle carte di credito, tanto molecolarmente diffuse che i rapporti sociali di merce sono ormai mediati dalla coazione al debito. La crescita dell’economia del debito si realizza attraverso il credito che genera titoli di debito, che attraverso i rendimenti trasformano valore in liquidità. Alla moltiplicazione dei titoli si arriva per due strade, la speculazione e l’investimento produttivo. Su entrambe si sviluppano crisi come quelle qui oggetto di analisi. La prima strada, quella speculativa, porta alle banche, dove la liquidità si espande con mero capitale fittizio, per la sovrapposizione di titoli che fanno perdere il rapporto con l’attività sottostante dotata di valore. Qui si incontrano gli eventi che hanno segnato la grande recessione: i prestiti e i mutui di famiglie che si indebitano, la cartolarizzazione dei titoli di debito, la loro superfetazione sollecitata da investitori voraci, il blocco dei rendimenti, l’arresto delle relazioni interbancarie, la contrazione delle attività, la disoccupazione, e, infine lo Stato che condona il malfatto e risana i bilanci delle banche senza che queste contribuiscano alla ripresa. La seconda strada, quella dell’investimento produttivo, porta alla Borsa e riguarda le imprese che, senza, la crisi, potrebbero contribuire all’espansione della liquidità con i rendimenti dei titoli generati da crediti finalizzati ad investimenti produttivi. La Borsa rende palese che molti titoli, quotati nella speranza di generare plusvalenze, non fanno profitti e restano in vita per essere spogliate dai creditori[4]. Nel grande lockdown l’imperativo dello Stato è di evitare, per dirlo con le parole del Sole 24 Ore, che sia messo a rischio la capacità delle imprese di onorare i debiti. La grande recessione La nicchia dei titoli subprime che avevano fatto deflagrare il sistema non essendo più alimentati da rendimenti, stava all’interno della massa dei derivati che aveva gonfiato le banche. Per espandere l’attività speculativa, quelle commerciali avevano creato uno shadow banking system, un fitto e dinamico intreccio di società finanziarie ombra, che consentiva di superare i limiti normativi di operatività. Vi facevano ricorso anche quelle di investimento che, avendo il privilegio di operare con una leva fino a quaranta volte superiore al valore patrimoniale, facevano operazioni fino a quaranta volte superiori al suo valore, traendo dalla speculazione utili molto maggiori di quelli derivanti dalla collocazione dei titoli azionari e obbligazionari, dall’intermediazione nelle fusioni e acquisizioni, e dalla ottimizzazione della gestione di portafogli di clienti privati e pubblici di tutto il mondo. La speculazione si reggeva sull’enorme liquidità immessa nel circuito finanziario da un capitale produttivo di interesse che faceva credito a chi emetteva titoli immobiliari cartolarizzati. Era alimentato dai profitti realizzati con le esportazioni da Giappone, Cina, Corea, Germania e Medio Oriente, da quelli non reinvestiti dalle multinazionali statunitensi, dagli investitori istituzionali, e dai rendimenti pagati da Stato, imprese e famiglie a fronte dei loro debiti. La cartolarizzazione aveva bisogno di enormi quantità di mutui immobiliari. Il basso costo del credito ne facilitava la sottoscrizione e sosteneva anche un robusto sviluppo edilizio. La domanda di titoli era talmente alta che venivano costruiti per sovrapposizione, allontanandosi dalle attività sottostanti i mutui fino a dimenticarle. La bolla si gonfiava però partire dal punto di incontro tra circuito produttivo e circuito finanziario costituito dai mutui che finivano cartolarizzati, e scoppiò quando l’aumento del tasso di interesse deciso dalla Federal Reserve interruppe il flusso di rendimenti dai mutui ai titoli a causa dell’impennata delle rate a tasso variabile, e abbassò i prezzi delle case che garantivano i mutui. Il timore che le insolvenze si estendessero dai subprime a tutte le attività sottostanti i titoli interrompendo i flussi di rendimenti, minò la fiducia coltivata in anni di euforia espansiva, sostenuta dalle agenzie di rating che minimizzavano i rischi. Nella primavera del 2007 una delle grandi banche di investimento, la Bear Stearns, specializzata in titoli subprime, entrò in dissesto, e l’anno successivo venne acquistata da JPMorgan, altra banca di investimento. Qualche mese dopo, altre due banche crollarono: Lehman Brothers dichiarò il fallimento e Merrill Linch venne acquistata da Bank of America. Goldman Sachs e Morgan Stanley, infine, dovettero rinunciare ad alcuni privilegi e trasformarsi da banche di investimento a banche commerciali. Il timore nella solvibilità dei mutuatari si era trasferita sulla solvibilità delle banche, provocando il blocco del credito e il crollo della Borsa. Le attività produttive si contrassero, il PIL si restrinse del 4,3 per cento; i prezzi delle case diminuirono del 30 per cento, la disoccupazione raggiunse il 10, i consumi crollarono. La recessione iniziata nel dicembre 2007 si protrasse fino al giugno 2009. La cartolarizzazione dei titoli era stata fatta negli Stati Uniti, e l’external shadow banking sub-system delle sussidiarie europee e nipponiche delle banche commerciali e di investimento statunitensi li aveva piazzati nel mondo. Il sistema bancario deregolamentato di Londra registrò il dissesto di Northern Rock, quinta tra le grandi banche britanniche, già prima che si disgregasse Wall Street. Congresso e Federal Reserve si attivarono per affrontare la situazione, assumendo che la crisi fosse causata dalla mancanza di fiducia sulla liquidità dei titoli. Il principale intervento fu di sostenere le banche e ritirare dal circuito finanziario quelli che il mercato considerava illiquidi pur continuando ad essere alimentati da rendimenti, per ricollocarli sul mercato una volta superata la crisi. In questa direzione si mosse il Segretario al Tesoro Henry Paulson sostenuto dal presidente George W. Bush, presentando al Congresso un programma di 700 miliardi di dollari per l’acquisto di titoli deteriorati. “Cash for trash” scrisse Paul Krugman, sul New York Times. Venne bocciato dalla Camera dei Rappresentanti. “Centinaia di americani si sono svegliati, scrisse Michael Moore, ed hanno deciso che era tempo di ribellarsi. Il Congresso è stato bersagliato da milioni di telefonate e di mail: basta col saccheggio, arrestate i ladri”[5]. Ma la proposta venne ripresentata, rivista e approvata dopo un intenso mercanteggiamento per acquisire i voti dei deputati riottosi. Paulson non usò i soldi per acquistare i titoli deteriorati. I primi 150 miliardi vennero dati a nove grandi banche e altri 125 a banche regionali, contro la cessione al Tesoro di titoli sicuri e di partecipazioni privilegiate senza diritto di voto. Altri ancora, a condizioni analoghe, servirono per salvare AIG, Citigroup, Bank of America, General Motors e Chrysler. Timothy Geithner, nuovo segretario al Tesoro con Obama, decise di utilizzare 250 miliardi per coprire fino all’85 per cento il credito di investitori privati che avrebbero acquistato titoli immobiliari deteriorati, offrendo garanzie sui relativi rendimenti. Nel 2010 il programma venne ridimensionato a 475 miliardi. Ne furono spesi complessivamente 431 con un utile, dalla liquidazione dei titoli, di 24 miliardi nel 2012. Da parte sua la Federal Reserve azzerò il tasso di interesse e lavorò, anch’essa, per immettere liquidità nel sistema bancario. Elargì prestiti a istituti finanziari per periodi progressivamente allungati, contro garanzie sempre meno sicure, persino a soggetti ombra. Lo fece in base all’articolo 13 paragrafo 3 del Federal Reserve Act del 1913 che consentiva in circostanze eccezionali di estendere il credito a individui, associazioni e società. Avviò nell’ottobre 2008 il quantitative easing con un impegno iniziale di 600 miliardi, ai quali seguirono altri fino a giungere nel febbraio 2010 a quasi 2 mila, di cui 1250 in titoli di Fannie Mae e Freddie Mac, le due finanziarie che dominavano la concessione dei mutui, e 700 in titoli del Tesoro, monetizzando così interamente la spesa preventivata dal Congresso. Per quanto deteriorati o persino ridotti a spazzatura i titoli continuavano ad alimentarsi di rendimenti. Il loro declassamento era dovuto alla emersione dei livelli di rischio prima di allora accuratamente nascosti dalle agenzie di rating, pagate dagli stessi produttori dei titoli. La crisi sociale venne trattata a parte, con 152 miliardi stanziati dal Congresso sotto la presidenza Bush nel febbraio 2008, ed esattamente un anno dopo con 832 miliardi sotto la presidenza Obama. Il primo, che anticipò di diversi mesi gli interventi sul sistema bancario, cercò di sostenere sia i consumi sia i rendimenti dei debiti per consumi, dando, per le fasce basse e medie di reddito, 600 dollari a persona più 300 per figlio a carico; provò anche a contenere il crollo dei prezzi delle abitazioni che aveva contribuito a creare problemi di solvibilità per coloro che le avevano ipotecate, e offrì incentivi agli investimenti. Con il secondo intervento i contributi alle persone scesero a 4 mila dollari, ma erogati sia nel 2009 che nell’anno successivo; si aggiunsero incentivi fiscali e crediti per beni di consumo, nonché numerose misure assistenziali, programmi sociali puntuali, e un fallimentare programma per le abitazioni, che lasciò campo libero all'enorme ondata di pignoramenti che ha fruttato miliardi agli speculatori. Nel terzo trimestre del 2009 la recessione era terminata; la Borsa aveva recuperato, le grandi banche avevano utili maggiori del 2007, ma il credito continuava a subire una contrazione senza precedenti[6]. I contributi alle persone servivano a risanare debiti e farne altri e l’impatto sui consumi e sulle importazioni era tanto modesto che, secondo Bernanke, presidente della Federal Reserve, aveva contribuito ad estendere e amplificare la crisi fuori dagli Stati Uniti. Nei due anni successivi il PIL ebbe un aumento annuo di appena il 2 per cento, la disoccupazione calò solo dal 10 all’8, si moltiplicò il lavoro precario e aumentò il tasso di inattività. A causa dell’aumento della spesa pubblica e del calo delle imposte, le amministrazioni statali e locali avevano tagliato 600 mila posti di lavoro. Bernanke attribuì la debolezza della ripresa a tre fattori. Il settore dell'edilizia abitativa non si era ripreso, perché sul mercato c’erano milioni di case pignorate e i consumatori erano impegnati a pagare i loro debiti. Le banche non concedevano crediti per consumi e investimenti perché stavano ancora risanando la loro situazione. La spesa pubblica non era stata sufficiente a compensare le debolezze del settore privato[7]. Focalizzandosi sul sistema bancario, il Tesoro e la Banca centrale si erano mossi con il presupposto che il finanziamento diretto alle banche e il recupero dei titoli fosse sufficiente a riavviare l’economia attraverso il credito. La liquidità immessa nel circuito finanziario vi era invece rimasta confinata, a rigonfiarle. Qualche limitazione all’attività speculativa venne posta nel 2010 dal Dodd-Frank Act, aumentando le garanzie patrimoniali delle banche e regolando il rapporto tra patrimonio e investimenti, con qualche barriera tra attività di investimento e attività commerciali. In particolare un Volker rule limitò gli investimenti delle banche in hedge fund ed altre attività ad alto rischio. Vennero prese anche misure per evitare il ripetersi di quei comportamenti che avevano portato alla creazione di titoli immobiliari privi di garanzie di rendimento: furono presentate come interventi a tutela dei consumatori. [1] Eichengreen B, Mody A, Nedeljkovic M, Sarno L, How the subprime crisis went global: evidence from bank credit default swap spreads, Journal of International Money and Finance, 31, 5, 2012. [2] Dembinski P.H., Finance servante ou finance trompeuse?, Paris, Parole et Silence, 2008, p. 86. [3] Francesci A., La crisi Covid sarà peggio di Lehman 2008 ma non per i mercati, Sole 24 Ore, 19 giugno 2020. [4] Sivini G., La centralizzazione del capitale e la caduta del saggio di profitto, Palermograd, 14 giugno 2019. [5] M. Moore, Congratulations, Corporate Crime Fighters! Coup Averted for Three Days, mrzine. Monthly review press.org/ moore300908.html, 30 settembre 2008. [6] Londo M., “A Mr. Smith il conto della recessione”, Sole 24 Ore, 25 ottobre 2009. [7] Bernanke B.S., Economic Recovery and Economic Policy, New York, Economic Club of New York, 20 novembre 2012.
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