STENDHAL RAZZISTA AL CONTRARIO
31/10/2017
di Vito Bianco
Era scritto nel cielo del destino che l’ultima riflessione critica di Roland Barthes (Non si riesce mai a parlare di ciò che si ama, traduzione e cura di Augusto Ponzio, pp. 42, Mimesis) avesse per oggetto Stendhal, analista partecipe della fenomenologia amorosa e narratore rapido e avventuroso della passione sentimentale e dell’ambizione. Lo scrittore ammirato da Balzac - distante per l’ossessione catalogatrice ma vicino quanto a bisogno di realtà temporalmente identificabile – e adorato da Sciascia, Brancati, Savinio; quello stesso scrittore che si immaginò autore postumo per un pubblico di happy few, non avrebbe mai potuto prevedere l’incontro estremo con quello che a giusto titolo possiamo considerare il critico letterario per antonomasia del secolo scorso, legato a lui da più di un filo, a cominciare dal complesso e affascinante rapporto che in entrambi unisce la scrittura alla vita. Felicità e intelligenza per pochi e desiderio di essere amato da molti sono in Stendhal i due poli di una produttiva contraddizione che non aspira a essere risolta; in modo analogo, ma con diverso itinerario, nel grande critico convivono – intrecciandosi, alternandosi e contraddicendosi – due opposte e apparentemente inconciliabili istanze: una scientifica inclinazione alla tassonomia, stilistica e strutturale, da una parte; e, dall’altra, un bisogno intimo di soggettività, di sempre più larghe aperture autobiografiche e impressionistiche lungo un percorso che aveva una meta paradossale: una “scienza della singolarità”, una saggistica d’autore in cui gli oggetti di una coinvolta e coinvolgente analisi fossero gli scarti e le eccezioni. Ed ecco quindi per entrambi un analogo movimento che va dalla catalogazione asettica (De l’amour per il primo, S/Z il secondo) al richiamo soggettivo, alla presa di parola diretta che usa l’intelligenza per altri fini (S.:Ricordi d’egotismo, Diari…;B.: L’impero dei segni, Frammenti di un discorso amoroso e, soprattutto, La camera chiara). Ma mentre Stendhal avrà bisogno di passare alla terza persona del romanzo, di forgiare un altro io di invenzione per meglio nominare e descrivere l’amou fou, Barthes dovrà compiere il passo inverso: mettere da parte la terza persona della critica per lasciar parlare la prima persona del desiderio e della passione, del lutto e del ricordo. Ed è proprio questo passaggio dal diario e dai frammenti biografici alla creazione romanzesca che Barthes mette a fuoco in Non si riesce mai a parlare di ciò che si ama (ma l’espressione francese On échoue toujours pour parler de ce qu’on aime può intendersi “si finisce sempre per parlare di ciò che si ama”), una relazione scritta pochi giorni prima dell’incidente mortale per il convegno “Stendhal a Milano” che si tenne nel capoluogo lombardo dal 19 al 23 marzo del 1980. Ma che cos’è che ama Stendhal-Henry Beyle così tanto da non riuscire a fare a meno di parlarne, di nominare e rinominare l’oggetto della sua debordante passione? L’Italia; o meglio, una sua sineddoche: Milano. Milano, la Scala, la musica in quel teatro, le donne (“In vita mia non ho mai visto tante belle donne insieme, la loro bellezza fa abbassare lo sguardo”) e persino la lingua che vi si parla sono per lui altrettante incarnazioni della felicità che insieme all’amore è il sentimento più difficile da tradurre in parole. Così accade che quanto più sente l’urgenza di comunicare quella felicità, tanto più finisce per fallire, scivolando nella piattezza del banale e nelle formule più trite. “Stendhal” nota Barthes, “ha a disposizione solo una parola vuota: ‘bello’, ‘bella’”. E anche quando prova a dire quale sia la differenza tra Parigi e Milano, si accorge che l’impresa presenta una difficoltà insormontabile, è “il colmo della difficoltà”. Straniero in una terra che lo seduce, il futuro autore della Certosa di Parma è una sorta di razzista al contrario: ogni cosa lo esalta, lo commuove, gli procura sensazioni piacevoli; ma tutto crolla se per caso gli capita di incontrare un connazionale: “Confesserò” scrive, “dovesse l’onore nazionale ripudiarmi, che un francese in Italia ha la capacità di distruggere in un istante la mia felicità”. Acutamente Barthes coglie il punto, e sottolinea il peculiare fenomeno che fa dello scrittore un autentico attraversatore di confini, un uomo per il quale il viaggio serve prima di tutto a fare l’esperienza dell’altro e dell’altro in sé: “appena attraversa Bidassoa, trova incantevoli i soldati e i doganieri spagnoli; Stendhal ha questa passione rara, la passione per l’altro – o, per dirla in maniera più sottile, la passione per quell’altro che è in lui stesso”. Per lo scrittore l’Italia è il luogo della passione e della spontaneità, e della lingua che invece di esprimere frasi compiute, canta. Sicché può capitare di assistere a una conversazione fatta di sole esclamazioni. “Per tre quarti d’ora” annota, “misurati con il mio orologio, non c’è stata una sola frase definita”. C’è senz’altro l’ingenuità dell’innamorato in queste dichiarazioni che esaltano una supposta “naturalezza” italica che ben altri esempi avrebbero potuto smentire, allora come oggi. Se la lingua “esclama e non parla” è già pronta per la musica, per il melodramma. In quello che il critico chiama il “sistema italiano di Stendhal” la musica ha un posto di primo piano “perché può venire a stare al posto di tutto”: dei viaggi, delle donne, delle altre arti e di ogni sensazione ineffabile. Avrebbe perciò bisogno di padroneggiare questa lingua fatta per la musica per uscire dall’afasia e ritrovare la capacità di dire ciò che si nega così ostinatamente all’espressione. E se la musica, l’indicibile per eccellenza, si può tautologicamente risuonare, con le donne e l’Italia (e Milano) questo non è possibile. Barthes parla di uno Stendhal letteralmente interdetto, “vale a dire continuamente interrotto nella sua locuzione”, nel suo reiterato atto di parola. Stendhal: “Quale partito prendere? Come raffigurare la felicità folle? In fede mia, non posso continuare, l’argomento supera chi dovrebbe parlarne. La mia mano non può scrivere, rimando a domani. (…)”. L’ammissione di impotenza aprirebbe spiragli di angoscia se non fosse che all’innamorato basta la ripetizione, la semplice nominazione, la dichiarazione di fallimento non essendo altro che una della maschere retoriche sotto la quale si nasconde la passione. Insomma, lo scopo, il piacere è poter allineare sulla carta le parole “felicità folle”, non cercare davvero le sottigliezze lessicali o metaforiche che la descriverebbero. E dunque i Diari scrutinati dal critico dicono l’amore per l’Italia “ma non lo comunicano”. Per quella si dovrà aspettare: la comunicazione, la presa vera e netta di parola, la descrizione dell’indescrivibile avverrà soltanto nella dimensione del romanzo, per via indiretta, per aggiramento narrativo. Accadrà nelle pagine iniziali della Certosa, nel capolavoro; sarà in quelle pagine che lo scacco del dire senza veramente riuscire a dire, scivolando ogni volta indietro, per ricominciare che lo scacco, l’arenarsi, il non “riuscire mai a parlare di ciò che si ama” si rovesceranno nel suo contrario: nella perfetta espressione di un amore durato una vita, nella lingua che finalmente riesce ad abbracciare l’oggetto di quella sgusciante passione. Come nella Camera chiara Barthes era riuscito a trovare l’essenza visiva della madre scomparsa in una scatto che la ritrae bambina, così Stendhal trova proustianamente dopo anni l’essenza di quella inafferrabile felicità italiana, milanese in virtù di un processo di trasformazione: il Diario delle rapide annotazioni che cercano di fermare le sensazioni diventa scrittura; la ripetizione inefficace invenzione narrativa. Quel che è accaduto, dice Barthes è (semplicemente) la scrittura (potremmo dire “la letteratura”); ovvero “un potere, frutto probabile di una lunga iniziazione che disfa l’immobilità sterile dell’immaginario amoroso e dà alla sua avventura una generalità simbolica”; come a dire che staccato dalla pelle personale l’amore passa dall’indicibilità alla dicibilità, dalla lallazione alla frase, al racconto. “Quando mento, sono come M. de Goury, mi annoio” aveva scritto da giovane (Roma, Napoli, Firenze) l’uomo che si volle milanese. E Barthes commenta, sornione: “non sapeva ancora che esiste una menzogna, la menzogna romanzesca, che sarebbe al tempo stesso – oh, miracolo – la svolta della verità e l’espressione finalmente trionfante della sua passione italiana”.
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