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PALERMOGRAD

SPECCHIO AMBIGUO - Leonardo Sciascia e il cinema

14/10/2019
di Marcello Benfante 

I turbamenti cinefili del giovane Sciascia

 
Il rapporto di Leonardo Sciascia con il cinema è un rapporto, se non proprio conflittuale o contraddittorio, quanto meno controverso, di amore e diffidenza, elezione e rifiuto, passionale coinvolgimento e intellettuale distacco.
Sciascia frequentò moltissimo, da giovane soprattutto, le sale cinematografiche, poi se ne allontanò, ma non del tutto.
Sappiamo d’altronde come per Sciascia fossero fondamentali “gli indelebili anni dell’infanzia”, cioè i primi dieci, a cui è ragionevole aggiungere un altro decennio di decisiva formazione.
Come ha notato Giuseppe Traina: “Molto più che il teatro, il cinema per Sciascia si presenta come il luogo dell’emozione: e, come tale, confinato nell’infanzia e nell’adolescenza, territori delle emozioni per eccellenza” (Leonardo Sciascia, Bruno Mondadori, 1999, p. 69).
E pure di indelebili impressioni. Di volti che s’imprimono per sempre nella memoria e assumono la valenza di icone di un percorso intellettuale.
Come quello di Jack Holt, che appare, silente e ammaliante, nello schermo del teatro comunale di Racalmuto, adibito a sala cinematografica, in un lontano 1929, e poi sempre riapparirà nel teatro della memoria sciasciana, “vago e intermittente come nei sogni”.
Sono epifanie d’una lanterna magica fra cui spicca soprattutto il volto, la maschera, di Ivan Mosjouskine, interprete del  Il fu Mattia Pascal (Le feu Mathias Pascal) di Marcel L’Herbier.
Scrive Sciascia: “Il film è del 1925. Io credo di averlo visto tra il ’33 e il ’34: poiché – per me felice ritardo – al mio paese il cinema continuava ad essere muto, nonostante l’avvento del parlato” (Cruciverba, Einaudi, 1983, p. 187).
Il giovanissimo Sciascia non sa ancora nulla di Pirandello (che è come dire del suo destino). Ben altra consapevolezza letteraria avrà lo scrittore allorché, quarantacinque anni dopo, lo rivedrà con stupore e commozione (“rivedo il film con una emozione da adolescente”).
Anzi, è come se questa re-visione fosse doppia, esteriore e insieme interiore:
“E non credevo di averne un ricordo così preciso: di ogni sequenza, direi persino di ogni fotogramma. Come se assistessi a due proiezioni: una nella mia memoria, l’altra sullo schermo” (Ivi, p. 188).
All’incirca nello stesso periodo, all’età di dodici anni, Sciascia scopre il cinema sonoro.
“Il primo film parlato l’ho visto la volta che sono stato, per il mio primo viaggio fuori dal paese, a Palermo: nel 1933. Entrando nella sala ne ebbi un senso di frastornazione, di stordimento, addirittura non capivo. A capirlo, restai a vedere il film per la seconda volta. Era Il segno della croce, mi piacque moltissimo: ma più mi piaceva tornare a vedere, al mio paese, i vecchi film muti” (Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, 1989, p. 122).
Il segno della croce (The Sign of the Cross) di Cecil B. De Mille è un drammone storico tratto da un romanzo di Wilson Barrett ambientato nella Roma del 64 d. C., con Fredric March, nel ruolo del prefetto di Roma Marco Superbo, Elissa Landi che interpreta Marzia, una giovane martire cristiana, Claudette Colbert nella parte di Poppea e Charles Laughton in quella di Nerone.
Presumibilmente, salvo arbitrarie manomissioni locali, Sciascia poté assistere alla versione originale, non mutilata, del kolossal di Cecil B. De Mille, uscito l’anno prima, quella cioè precedente alla revisione puritana del 1944, che intervenne pesantemente sul film con tagli e censure tese a smorzarne il sottinteso erotismo (anche se questa ragionevole ipotesi implica che il giovane spettatore, avendo rivisto il film daccapo una seconda volta, dovette rimanere in sala per oltre quattro ore).
Ciò significa che Sciascia vide, a coronamento iniziatico del suo primo viaggio, e per ben due volte, la scandalosa e celeberrima scena di Claudette Colbert-Poppea che s’immerge nuda in una vasca colma di vero latte d’asina (tanto da svenirne sul set per il greve olezzo), nonché la danza saffica della sacerdotessa di Eros: maliziosi e fascinosi ammiccamenti al voyeurismo del pubblico che poi furono espunti dalla versione riveduta e purgata.
Come dire, parafrasando Musil: i turbamenti del giovane Sciascia.
 
Il cinema era tutto
 
L’avvento del sonoro, che Sciascia visse con un certo ritardo, nella sua originaria condizione di provinciale in una remota Sicilia, segnò un primo, fatale, disincanto.
Il distacco è graduale ma irreversibile: “Arrivava intanto il parlato: in cui travasai, pur con qualche residua nostalgia, tutto l’amore che avevo avuto per il muto” (Ivi, p. 122).
La sensazione è tuttavia  quella di essere stato tradito dal cinema, come da un grande amore che rivela i suoi aspetti prosaici e futili. Il cinema, ai suoi occhi, è “diventato altra cosa di cui, in effetti, non c’era bisogno se non per masse miseramente ‘bisognose’: è diventato parodisticamente letteratura, parodisticamente pittura, parodisticamente avanguardia di ogni cosa che sa di avanguardia” (Ivi, p. 123).
Il cinema, tuttavia, ebbe un’importanza assoluta nella sua formazione intellettuale.
“Studiando intanto a Caltanissetta, avevo modo di vedere più films: uno al giorno, e a volte anche due. Ogni anno riempivo un libretto di annotazioni sui films visti: avevo, prima che lo facessero i giornali, inventato una specie di votazione con asterischi: cinque il massimo voto. La cosa curiosa, scoperta qualche anno fa, è che Gesualdo Bufalino, che non conoscevo, faceva allora la stessa cosa” (Ivi, p. 122).
Il cinema è dunque per Sciascia (e per Bufalino) palestra di scrittura in cui il critico forgia e affina i suoi strumenti.
Un mondo conchiuso e perfetto. O tale almeno gli appare nella memoria: “il cinema allora era tutto. Tutto” (Ibidem)
Di cinema, sul cinema, d’altronde Sciascia scrisse spesso, in modo specifico o indiretto, e ad esso dedicò in particolare tre saggi, sui quali baso sostanzialmente il presente lavoro.
Si tratta di “La Sicilia nel cinema” (in La corda pazza), “Il volto e la maschera” (in Cruciverba) e  “C’era una volta il cinema” (in Fatti diversi di storia letteraria e civile).
Tre saggi molto intensi e profondi, che attestano il ruolo iniziatico e propedeutico di quest’arte nella comprensione non solo della letteratura, ma del mondo stesso, della realtà, dell’uomo.
Il cinema per Sciascia è una potente approssimazione gnoseologica e artistica. Una sorta di itinerario filosofico.
Rivedendo Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier  presso gli Archives du Cinéma di  Bercy, a circa trenta chilometri da Parigi, Sciascia rimane colpito dai “due grandi, ermetici parallelepipedi di alluminio in cui migliaia di films sono custoditi”.
Gliene viene un’immagine labirintica d’infinite potenzialità : “l’idea che tanti films stiano come sigillati dentro queste gigantesche scatole metalliche mi dà un senso di smarrimento, di vertigine: quasi mi trovassi improvvisamente di fronte alla materializzazione – solidificata, mineralizzata, inaccessibilmente squadrata e pure segretamente e rischiosamente accessibile – dei più ardui problemi che il pensiero umano da secoli declina, delle più ardue fantasie. Il divenire e l’essere, il tempo, la libertà, la predestinazione, l’identità, il potere. Eraclito, Parmenide, Platone, Agostino, Shakespeare, Einstein, Borges. E Pirandello” (Cruciverba, p. 182).
Il cinema, la sua storia, la sua memoria, gli si presenta allora come un “archivio di ombre”, una fantasmagoria proiettiva che rimanda, con sconvolgente puntualità, al mito della caverna che Platone illustra in un celebre passo della Repubblica.
Per Sciascia è una rivelazione illuminante.
“Quante volte, dagli anni della scuola ad oggi, questo passo della Repubblica mi si è svolto nella mente senza che m’avvenisse di pensare, se non come stravaganza, a quel che ora, davanti agli ‘archives du cinéma’, mi sembra assolutamente ovvio: a una prefigurazione o profezia del cinema – e di un’estetica e di una sociologia del cinema (Ivi, p. 183).
Sono molte le annotazioni di Sciascia sull’impatto travolgente che il cinema ebbe sul pubblico siciliano, a partire dalla sua Racalmuto, sul sentimento, sulle abitudini e ovviamente sull’immaginario collettivo.
“Ne venne a tutto il paese una passione, una febbre, per cui dal lunedì al venerdì o si parlava del film già visto o si vagheggiava e si facevano congetture su quello da vedere” (Fatti diversi di storia letteraria e civile, p. 120).
Di questa febbre sociale bruciava anche il giovane Sciascia, la sua eccitabile e fertile fantasia.
L’idea di fare cinema, oltre che esserne spettatore, deve averlo preso molto presto (così ricorda per esempio il suo amico e compagno di studi Stefano Vilardo) ma altrettanto velocemente deve essere stata accantonata.
 
Relazioni pericolose
 
Sebbene Sciascia abbia partecipato pure alla sceneggiatura di Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato diretto da Florestano Vancini nel 1971, soprattutto per adesione emotiva e storica a un tema, prettamente verghiano, che lo avvinceva particolarmente, rifiutò sempre di intervenire nella sceneggiatura dei film tratti dalle sue opere, dichiarando l’indipendenza delle une quanto degli altri, come se cinema e letteratura fossero due mondi separati e incomunicabili, ovvero intraducibili.
Il cinema d’altra parte ricambiò abbondantemente (e piuttosto infedelmente) l’interesse e la passione cinefila di Sciascia.
Molti film sono stati tratti o ispirati dalla narrativa sciasciana, con alcune ovvie predilezioni e alcune strane o sintomatiche omissioni.
Il primo regista ad affrontare l’universo sciasciano fu Elio Petri, con A ciascuno il suo, del 1967. L’anno appresso seguì Il giorno della civetta di Damiano Damiani, con un successo che si ripercosse (con esiti diversi) sulla carriera dello scrittore di Racalmuto.
È quindi l’aspetto mafiologico a muovere un primo interesse, altrettanto scontato che riduttivo, del cinema nei confronti dell’opera di Sciascia.
Nel 1976, con Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, liberamente ispirato al romanzo Il contesto, il filone mafioso trova una declinazione o deviazione fantapolitico-giallistica.
Sempre del 1976 è Todo modo di Elio Petri, dall’omonimo romanzo. È ancora la commistione tra politica e intrigo poliziesco a orientare la riduzione cinematografica.
Nello stesso anno appare, senza troppo clamore, Una vita venduta di Aldo Florio, che s’ispira a L’antimonio, uno dei più bei racconti di Leonardo Sciascia, contenuto nella raccolta Gli zii di Sicilia (1958). È lo Sciascia, questo, della corda civile e del frammento storico, della introspezione psicologica e della testimonianza antifascista. Tutti elementi di relativo richiamo per il grande pubblico.
Nel mentre è cominciata (e proseguirà negli anni successivi) una curiosa perlustrazione cinematografica di alcuni testi sciasciani minori, poi confluiti nella silloge Il mare color del vino (1973).
Comincia Giovanni Grimaldi nel 1969, con Un caso di coscienza. Due anni dopo è la volta di Gioco di società di Giacomo Colli. Nel 1972 Alessandro Blasetti in Storia dell’emigrazione, un film per la TV, s’ispira al racconto Il lungo viaggio.
Nel 1982 tocca a Pino Passalacqua con Western di cose nostre, dall’omonimo racconto, ancora per la televisione. Nel 1989 Nanni Loy torna su Gioco di società, e nuovamente il medium utilizzato è quello televisivo. Infine,  ricordiamo Filologia di Giuseppe Gigliorosso del 1990.
In totale, quindi, sei film basati su cinque racconti tratti da Il mare colore del vino (che ne raccoglieva tredici). Un’attenzione piuttosto strana, se si considera che altri testi sciasciani, generalmente ritenuti più importanti e significativi, sono rimasti esclusi dall’occhio cinematografico.
Dopo la parziale riuscita del Todo modo di Petri, l’interesse del cinema per l’opera di Sciascia torna a farsi eccentrico nel 1978 con Grand Hotel des Palmes di Memè Perlini, liberamente tratto da Atti relativi alla morte di Raymond Roussel , uno dei testi più suggestivi della riflessione saggistica, sempre densa di implicazioni narrative, di Sciascia.
Nel 1982 il regista Roberto Guicciardini con Candido affronta un romanzo di sottile riscrittura e reinterpretazione del modello volterriano. Si tratta ancora una volta di un film per la televisione, a conferma forse di una sorta di vocazione didascalica e divulgativa delle riduzioni cinematografiche tratte dalle opere sciasciane.
Subito dopo la morte di Sciascia, tocca a Gianni Amelio, nel 1990, tornare sui grandi temi civili e morali dello scrittore siciliano con un film esemplare come Porte aperte, potente dramma storico e giudiziario ambientato durante il fascismo in una Palermo definita irredimibile.
L’anno appresso esce Una storia semplice di Emidio Greco, tratto dal romanzo postremo di Sciascia, anch’esso incentrato sul tema dȕrrenmattiano della giustizia.
Ancora di Emidio Greco, nel 2002, una rilettura de Il consiglio d’Egitto, una delle più significative divagazioni meta-storiche di Sciascia, sull’arabica impostura dell’abate maltese Giuseppe Vella.
È strano che il cinema abbia, per esempio, tralasciato di occuparsi di testi come Il quarantotto, Morte dell’inquisitore, Il cavaliere e la morte, La strega e il capitano, I pugnalatori, che si offrivano particolarmente alla revisione storico-politica, alla critica del Risorgimento, anche in chiave anti-gattopardesca, alla critica del Potere e del Palazzo, alla demistificazione delle verità ufficiali e dei luoghi comuni folcloristici.
Ma a pensarci bene non è poi così strano. Anzi. Non a caso, i film ricavati dalle opere sciasciane sono stati spesso inficiati da una certa superficialità, nonostante alcune belle pagine e alcune magistrali interpretazioni. Si è trattato in ultima analisi di quelle che il critico cinematografico Alberto Farassino ha definito delle “operazioni sbrigative”.
L’attrazione reciproca tra il cinema e Sciascia sembra infatti destinata non tanto alla collisione quanto al disguido, all’appuntamento mancato.
In ciò si assimila al rapporto tra il cinema e la stessa Sicilia, almeno nei termini di una celebre analisi di Sciascia.
 
L’ingrossamento cinematografico
 
Ci riferiamo al saggio “La Sicilia nel cinema” del 1963, in cui di questo antico binomio vengono accuratamente esaminate le felici e insieme pericolose relazioni.
A stabilire un inizio, atto tra i più arbitrari e problematici, potremmo, sulla scorta di Sciascia, risalire fino al 1912: “la Sicilia entra nel cinema con Giovanni Grasso protagonista del film Sperduti nel buio: gente che gode e gente che soffre. Un film che possiamo dire siciliano, oltre che per l’interpretazione di Giovanni Grasso e di Virginia Balistrieri, anche lei attrice del teatro siciliano, per la regia di Nino Martoglio” (La corda pazza, Einaudi, 1970, p. 237).
Vi entra, e subito si pone in una situazione di avanguardia, giacché, a detta del critico cinematografico Umberto Barbaro,  Martoglio applica in questo film d’ambientazione napoletana, tratto da una novella del napoletano  Roberto Bracco, “una delle più potenti forme di montaggio, il montaggio di contrasto e di parallelismo; anticipando così non solo Griffith ma anche, quasi di due lustri, i grandi risultati artistici e le limpide teorie del Pudovkin” (Ibidem).
Ma, da un punto di vista filologico, è necessario retrodatare questo inizio pur così precoce e progressivo: “Quel che manca, nel preciso saggio di Barbaro su questo film, è il nome di Verga”. Più precisamente, potremmo dire, l’occhio realistico di Verga. Il suo obiettivo fotografico.
“Perché bisogna pur chiedersi come mai nel 1912, in piena stagione dannunziana e dentro una fiorente industria del cinema prevalentemente indirizzata al film in costume, al film ‘storico’ (e nell’anno successivo si sarebbe toccato il vertice della fortuna commerciale col Quo vadis?), sia nato un film come Sperduti nel buio. E la risposta non può essere che questa: che in Italia c’era, benché in disparte, benché quasi misconosciuto, Giovanni Verga; e che Martoglio, Grasso, la Balistrieri (di lei Barbaro dice: ‘Nessuna Greta Garbo potrà mai fare altrettanto’) provenivano da quel mondo, da quella esperienza, da quella verità” (Ivi, pp. 237-238).
Ma, seguendo Sciascia, attribuiamo a Verga questa primogenitura, ancorché in nuce, nonostante la recalcitranza dello stesso Verga, il quale mostra un certo imbarazzo di fronte ai mezzi stilistici del linguaggio cinematografico, che giunge fino ai limiti dell’incomprensione e dell’estraneità.
In una lettera a Federico De Roberto del 1912, Verga afferma di non aver compreso né apprezzato la riduzione cinematografica di Cavalleria rusticana e si dichiara inadatto a sceneggiare per il cinema le sue novelle o i suoi romanzi e perfino il suo teatro. La presa di distanza è pressoché totale: “Non mi sento di metterci mano nei miei lavori, per il diverso valore e intendimento artistico dato al quadro, spesso disegnato di scorcio, di sottinteso, quasi, con sobria pennellata che sarebbe sciupata altrimenti dall’ingrossamento fotografico. Figuratevi le mie viscere paterne ed anche un poco il mio amor proprio di autore, se volete” (Ivi, pp. 238-239).
E tuttavia, Verga è consapevole che tale “ingrossamento” è una esigenza espressiva imprescindibile e ineludibile (“Ma forse andava rappresentata proprio così, pel cinematografico”).
Ma se Verga comprende l’alterità assoluta del linguaggio cinematografico, ovvero che il suo “ingrossamento del quadro e della sintesi è necessario e necessariamente brutale”, non per questo si sente di condividerne direttamente gli esiti estetici, ché anzi si tira indietro con un moto di istintiva e radicale estraneità, lasciando e perfino chiedendo, con rassegnata accondiscendenza, che altri intervengano sui suoi lavori. E ne facciano quel che vogliono o devono (“Io ve l’abbandono ac  cadaver”).
Non dissimile, sebbene più aggiornato e consapevole, sarà l’atteggiamento psicologico dello stesso Sciascia. Un chiamarsi fuori di matrice verghiana, basato sulla enunciazione di un discrimine invalicabile tra la parola letteraria e il messaggio filmico.
Discrimine che tuttavia implica un dialogo, una scambio vitale e fecondo: una “conversazione”, sebbene indiretta, distorta e spesso malintesa.
 “Vittorini, Brancati e Quasimodo offrirono, più o meno direttamente, i tre diversi temi siciliani al cinema. La Sicilia come ‘mondo offeso’; la Sicilia come teatro della commedia erotica; la Sicilia come luogo di bellezza e di verità” (Ivi, p. 243).
In tal senso potremmo dire che l’opera di Sciascia introduce nello spazio cinematografico il tema della Sicilia vista come luogo del diritto conculcato e della verità occultata.
Luogo conflittuale e contraddittorio,  senza riscatto o addirittura irredimibile, che nel cinema si riflette come in uno specchio ambiguo. Ovvero, e fin dagli esordi, in forma dilemmatica e scissa, per un’intima e radicale lacerazione.
 
Scoperta e smarrimento della Sicilia
 
Sciascia affronta questo nodo, con affilata competenza, sempre nel saggio “La Sicilia nel cinema”, che è un’analisi puntuale quanto impietosa, in cui poco, se non pochissimo, è messo in salvo. Anche qui la memoria focalizza un volto da cui prendere l’abbrivio. Il volto è quello di Angelo Musco, contraltare grottesco di Giovanni Grasso. Comico l’uno, tragico l’altro, ma come in un’erma bifronte.
Tale doppiezza intrinseca contraddistinguerà tutto il cinema sulla Sicilia, come una specie di destino, a partire da 1860 (1934) di Alessandro Blasetti, in cui il realismo implicito dell’obiettivo si accompagna in modo stridente, secondo Sciascia, “all’assunto ‘storico’, fondamentalmente falso”.
Né poteva essere diversamente, se si considera il clima ideologico in cui il film fu concepito e realizzato.
Ad ogni modo, è con Blasetti che s’inaugura nel cinema italiano una “scoperta della Sicilia”, a cui talora il fascismo guarda con sospetto, temendone le implicazioni politiche riguardo a temi scottanti come il sottosviluppo, il latifondo, l’arretratezza sociale.
Un caso emblematico di questo tormentato e complesso rapporto di rivelazione  e insieme di mistificazione tra cinema, letteratura, realtà è il Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Agli occhi dei contadini, cioè per un pubblico che s’identifica esattamente con il tema e il protagonisti del film, l’opera di Rosi funziona come una sorta di rispecchiamento e straniamento onirico.
 
“Uno spettatore non siciliano, che si fosse trovato a vedere il Giuliano di Rosi in mezzo a questo pubblico, sarebbe rimasto esterrefatto a sentire scoppiare risate nel momento in cui sullo schermo la madre piange il figlio morto. A quella scena straziante, il pubblico in effetti reagiva come chi non avendo mai visto uno specchio improvvisamente vi si trova di fronte” (Ivi,  p. 252).
 
Tale capacità di coinvolgimento e di stravolgimento implica un giudizio positivo sulla forza espressiva del film: “bellissimo, intenso film; mai la Sicilia era stata rappresentata nel cinema con così preciso realismo, con così minuziosa attenzione”. (Ivi, p. 253).
 
Tuttavia, l’adesione estetica, che in Sciascia non è mai puramente formale, lascia un margine di perplessità. Un dubbio (extra artistico, per così dire) che muove dall’incredulità del pubblico rispetto alla diretta e reale responsabilità di Giuliano. Cioè da uno scetticismo inammissibile, contro ogni evidenza, che pare quasi un’amnesia collettiva o un rifiuto istintivo e viscerale di accettare il fatto.
Se questa è la risposta emotiva del pubblico siciliano, vi deve pur essere, secondo Sciascia, una ragione intrinseca all’opera stessa.
 
“Una possibilità di equivoco, di ambiguità, doveva dunque trovarsi in parte nel film: e a noi parve di scoprirla nella ‘invisibilità’ di Giuliano” (Ibidem).
 
Ma se in Rosi l’invisibilità metaforica di Giuliano aveva una ragione di interpretazione storica (ossia la dipendenza del bandito dalle “forze, gli interessi, le persone che lo muovevano”), al contrario, per lo spettatore siciliano, per il contadino che si rispecchia nel suo dramma storico, l’invisibilità di Giuliano assume un valore mitico, sacro, religioso.
 
“Un impermeabile bianco e un binocolo, quasi attributi dell’idea: il bianco, la lontananza. E diventa corpo, il bandito, sulla polvere del cortile De Maria, sull’ovale marmo della squallida morgue, sotto il pianto e le mani della madre. Una deposizione dalla croce, un Cristo” (Ibidem).
 
Con una impeccabile soluzione ottica e stilistica, non dissimile sotto certi aspetti da quella con cui Blasetti aveva eclissato Garibaldi dal movimento corale della rivoluzione siciliana, Rosi sottrae Giuliano, l’uomo, il bandito, il ribelle, da una presenza concreta, reale, individuale. Ne fa un fantasma, una sorta di simbolo ambivalente.
Vedremo poi che Michael Cimino farà un’operazione molto più grossolana e mistificante. Ma soprattutto assisteremo (e senza il coinvolgimento identitario ed alienante delle plebi rurali siciliane) a un cinema seriale e commerciale in cui l’estrema visibilità spettacolare della piovra mafiosa coinciderà sempre più ambiguamente con la sua astrattizzazione mediatica e consolatoria, di pari passo a una lettura banalmente turistica della Sicilia e della sua cultura.
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