di Marcello Benfante
Marcello Benfante riprende la sua esplorazione dell’odierna “Terra di Nessuno” culturale, ai confini tra quelle che furono produzione di massa, midcult e Grande Arte, rileggendo un autore che di volta in volta è stato reclamato da tutti e tre i suddetti “territori” della letteratura. “Amo Stevenson perché pare che voli” Italo Calvino È difficile spiegare le ragioni della ingenerosa (s)fortuna editoriale di Catriona in Italia. Forse il suo svolgersi un passo dopo la linea d’ombra. O magari un certo suo carattere ibrido. Una strutturale promiscuità di generi. Probabilmente questo romanzo double-face (storico-politico e avventuroso-sentimentale) che si divide in due sezioni piuttosto eterogenee (“Il procuratore generale” e “Il padre e la figlia”) non rientra nello schema riduttivo in cui nel nostro paese è stata inquadrata tutta l’opera di Stevenson. Cioè quella tendenza a farne, sulle orme di un’appassionata dichiarazione di Borges, “una delle forme della felicità”. O, per dirla con Domenico Scarpa, un “conduttore di felicità” capace di scatenare nel lettore “un piacere fisico prima che intellettuale, una mescolanza di appagamento e di appetito” (1). Stevenson invece è anche uno scrittore problematico e riflessivo. Uno scrittore morale che ha pure una sua pesanteur, ancorché leggiadrissima. Sarà stato dunque questo equivoco euforico a confinare Catriona in un angolo, a farne un testo quasi obliato? Eppure si tratta di un testo importante per uno approccio a un autore che ha fatto della perlustrazione dei temi etici e della dimensione interiore uno dei suoi filoni privilegiati. Scritto nel 1893, Catriona (2) è il seguito de Il fanciullo rapito (Kidnapped) ed ha il medesimo protagonista, il giovane e integerrimo David Balfour: un candido assennato, con la testa sulle spalle. Vi compare anche il prode e scanzonato Alan Breck, ma in un ruolo marginale e discontinuo che lo relega sullo sfondo della vicenda. Tuttavia i due romanzi hanno poco altro in comune. A conti fatti, si può dire serenamente che alla seconda parte del dittico manchi lo splendore della prima. Vi è minore dinamismo, manca una scena madre, il tono epico si smorza. Lo stesso Balfour, crescendo, sembra perdere il vigore e l’entusiasmo del suo esordio, la magia del suo ingresso nel mondo aleatorio e spietato della cappa e della spada. Insomma, il romanzo non si può dire che spicchi il volo (per riferirci a quella che per Calvino era la dote primaria di Stevenson), bensì procede con giudizio sul piano dilemmatico della verosimiglianza. D’altronde, lo stesso Stevenson ne era in qualche modo consapevole se, nella dedica all’amico e avvocato scozzese Charles Baxter scritta dalla lontana Polinesia nel 1892, affermava, quasi come preventiva excusatio, che “il destino di coloro che tanto hanno atteso il seguito di un racconto è di venirne delusi”. In Catriona infatti si nota un forte e insolito elemento sentimentale che a larghi tratti prevale su quello avventuroso (il romanzo apparve dapprima a puntate su una rivista per fanciulle dalla mitologica testata di Atalanta) sebbene Stevenson lo smorzi con una sorta di pudore antiretorico. Si tratta di un amore travolgente che reca in sé l’ossimorica condizione di una febbrile salubrità e che Stevenson paragona alla forza gentile eppure indomabile della natura: “Ella stava fra me e il sole. Era cresciuta improvvisamente, dicevo, ma di uno sviluppo sano; sembrava tutta salute, splendore e vitalità; mi pareva che camminasse come una giovane cerva e che si rizzasse come una betulla sulle montagne”. Beninteso, Catriona è un testo che avvince e conquista. Indubbiamente si tratta di un momento importante nella narrativa stevensoniana, presenta un intreccio non privo di azione (vi sono duelli, inseguimenti e ancora un rapimento) ma soprattutto è animato da una profonda riflessione che interiorizza le traversie del personaggio principale, proiettandole sullo sfondo storico di più complesse vicissitudini. E anche il giovane Balfour mantiene le sue caratteristiche di eroe purissimo, la cui inerme innocenza si converte immancabilmente in fulgida vittoria personale, pur nell’ambito di un pessimismo epocale. Ma David è divenuto nel mentre un uomo di saldi principi che fa i conti con la propria coscienza (e nel contempo con le proprie tasche: non a caso il romanzo si apre il 25 agosto 1751 con un cospicuo prelevamento bancario presso la British Linen Company). L’orfanello usurpato di Kidnapped, maturando, ha fatto suo un certo buon senso illuminista, che insieme a una rassicurante solidità economica gli conferisce stabilità e fermezza. Il che potrebbe tenerlo lontano dai guai, se non fosse per la sua indole schietta e morale che rifugge la menzogna e il vile tornaconto. Infatti, benché il realismo gli suggerisca la prudenza, i rovelli dell’etica lo trascinano fatalmente in conflitti assai rischiosi in cui, con qualche compromesso, egli cimenta il suo senso dell’onore e della giustizia. Nella Scozia dilaniata dalla contesa intestina tra giacobiti e seguaci del re Giorgio II, David si trova nella scomoda posizione di potenziale testimone a discolpa di Alan Breck e James Stewart, accusati infondatamente del fatto di sangue passato alla storia come l’omicidio di Appin (3). Il carattere politico del processo, il suo essere sostanzialmente una resa dei conti fra i due clan rivali dei Campbell e degli Stewart, fa sì che di ciò che David ha visto e sa non si debba fare parola nel dibattimento, affinché si affermi senza intralci la precostituita tesi colpevolista. Si tratta dunque di una “causa politica”, un vero e proprio “complotto” ispirato all’ambiguo principio secondo cui “salus populi suprema lex”, ossia una ragion di Stato arbitraria e faziosa spacciata per forza di necessità e interesse collettivo. In questo contesto, in cui la giustizia è ridotta a strumento iniquo di una faida e di schieramenti partigiani, la figura di David rifulge come quella di un eroe della verità. Egli non può tacere né mentire a cospetto della sua coscienza. I suoi imperativi sono tutti interiori. La questione nazionale scozzese gli è quasi estranea, pur restando nel suo spirito ribelle un forte senso di appartenenza naturale ed atavica. La stessa lealtà nei confronti di Alan è vissuta come un rapporto del tutto personale che prescinde da ogni considerazione politica. Se la sua posizione si complica e diviene più problematica è solo per ragioni di natura sentimentale. Pur facendo di tutto, anche mettendo a repentaglio la sua stessa vita, per salvare James More dal patibolo, David non nutre per lui alcuna simpatia. Ma il detenuto è il padre della bella e altera Catriona, per la quale David avverte subito un’attrazione fatale, fin dal primo incontro, in un vicolo di Edimburgo dall’atmosfera incantata (“Tutto l’aspetto insomma di quel luogo mi affascinava come una fiaba”). E Catriona è davvero uno creatura che appartiene a un mondo quasi magico: diafana e sulfurea, è certamente in grado di stregare col suo sguardo di Gorgone e con la sua trasparenza fantasmatica. La si potrebbe definire un’eroina della volontà: una Cordelia inasprita e agguerrita, capace di furibonda veemenza, ma pure di dolcissima abnegazione. Catriona racconta la sua storia con le sue fattezze accese e insieme gentili, con la schiettezza sanguigna dei suoi dati somatici, con i suoi colori magmatici e la selvaggia naturalezza del suo aspetto. È una forza pura e genuina. Indomabile e fiera. David, analogamente, non può nascondere la sua sorte. Essa è incisa nelle pieghe sincere del suo stesso volto. Per strada, all’inizio del romanzo, il giovane protagonista incontra due uomini impiccati che dondolano, spalmati di pece, sul patibolo. Nei pressi c’è una “vecchia pazza” che si offre di leggergli il destino nella mano. David si rifiuta, ma la donna, Auld Merren, gli dice: “Te lo leggo in faccia”. Allevato “coll’amaro cibo della verità”, David è quel che si dice un libro aperto. La sua storia è segnata sul suo viso con caratteri chiari e inequivocabili. Torchiato, in un rovente interrogatorio, dall’implacabile Simone Fraser in casa del Procuratore Prestongrange, afferma dapprima di poter “guardare in faccia sia il duca che re Giorgio senza alcun timore”, ma poi, sotto la minaccia di una morte disonorevole, sbianca atterrito. Il suo volto ancora una volta parla chiaro. “Ho trovato la chiave del suo cuore”, esclama Fraser. Più che trovarla, la constata: “Lei è pallido, il suo sguardo vacilla, signor David! Lei vede la tomba e la forca molto più vicini di quanto potesse immaginare”, afferma trionfante Fraser. Ma ciò che sgomenta David non è tanto la morte, bensì la vergogna, il marchio di una condanna infamante. È il suo buon nome a premergli di più, il rischio di poterlo compromettere in una partita giocata in modo spregiudicato da un rivale sleale e feroce. Ben più del patibolo, egli teme l’inflessibile tribunale della sua coscienza. “Il pericolo di venir fatto schiavo, il pericolo di naufragio. Il rischio di essere ucciso da una spada o da un fucile, li avevo tutti sostenuti senza discredito; ma il pericolo insito nella voce stridula e nel volto grasso di Simone, o più esattamene del signore di Lovat, mi toglieva ogni coraggio”. Tuttavia non sono tanto le minacce a intimorirlo, quanto le lusinghe. Sono le tentazioni, le offerte di cooptazione a farlo tremare. David sa che in cuor suo egli agogna una composizione pacifica del dissidio. È consapevole della propria natura accomodante. Ma non transige sulle questioni di principio. Ormai ne va del suo nome e del suo onore e non può più recedere dal suo impegno per la verità: “Ma, chiamatelo coraggio o vigliaccheria, ed io penso che fosse l’una e l’altra cosa, decisi che mi ero spinto mi ero spinto a tal punto da precludermi ogni possibilità di ritirata”. È un orgoglio, il suo, che non si esaurisce nell’amor proprio, ma si sostanzia di un profondo senso della giustizia. È davanti a se stesso che egli non può perdere la faccia. Davanti alla sua anima che in quella faccia si rispecchia così chiaramente. D’altronde, su questo punto David ha una precisa opinione: “La coscienza tranquilla è alla base del coraggio”. Lungi dall’essere un temerario, David è colui che fa quel che deve. E in questa sua correttezza inderogabile infonde una metodica ragionevolezza: “Ma come nel piantare interviene la ragione, così anche nella morale e nella religione esiste posto per il buon senso”. Tetragono e borghese, incline alla parsimonia e alla masserizia, all’uso oculato e provvido del suo “buon denaro”, David resta comunque un personaggio di formidabile coraggio. Privo di nozioni di scherma, affronta in duello uno spadaccino ingaggiato per provocarlo e ucciderlo, e con il suo ardito candore se ne fa un alleato. La sua condotta leale gli fa ottenere perfino l’appoggio dello stesso Procuratore, che lo affida alle cure delle figlie, non meno sagge che civettuole, e lo introduce negli ambienti dell’avvocatura edimburghese in cui Daniel intende avviare la sua carriera. E pertanto, Daniel “è un eroe davvero”, come ammette la bellicosa Catriona (‘Cateran’ significa guerriero highlander), ma un eroe altrettanto accorto che impavido, che riesce a mantenersi quasi super partes e a farsi alleati nelle file avverse con sagacia e candore, senza mai rinunciare alla propria dignità e autonomia. Un eroe morale, sempre “leggermente ansioso” nei confronti di una coscienza ipersensibile, incapace di compromessi diplomatici e insofferente nei confronti di “quella cosa detestabile che si chiama politica” di cui aborre il “putridume” e le “atrocità”. Ovvero, in un certo senso, una creatura lunare che non accetta la logica realistica di chi sostiene che “in questo mondo, così come Dio lo ha fatto, purtroppo non è possibile ottenere sempre ciò che si vorrebbe”. Il che può forse accettarsi, ragionevolmente, in termini di aspirazione, ma non in termini etici. Bisogna sempre pretendere, soprattutto da sé stessi, ciò che si dovrebbe, ciò che la coscienza ci impone. L’individualismo smithiano di David e la sua naturale tendenza a una riservatezza a volte perfino eccessiva e dogmatica (come quando si rifiuta di “aprire la lettera di un altro” da cui potrebbe dipendere la vita dell’amico Alan Breck), si sottomettono in ultima analisi a una legge sociale e universale, inflessibile e sovrana, che non accetta deroghe o scuse. C’è un che di igienico nella sua avversione per un mondo che non ha “le mani pulite”. David è una persona pulita in ogni senso. Odia “il solo odore dell’ingiustizia” come se avvertisse la puzza abominevole di diaboliche sporcizie. Dell’Olanda, che attraversa insieme alla derelitta Catriona, loda l’estrema pulizia, le strade così linde “che si sarebbe potuto pranzare sul marciapiede”. Le leggi dell’anima e della ragione devono imporre il loro ordine traslucido alla giurisprudenza e all’economia. Impedendo che la prima degeneri in un “mezzo” non per raggiungere la “grazia” (come sostiene l’Epistola ai Romani di Paolo di Tarso) bensì la disgrazia della parte avversa, con l’uso spregiudicato di palesi irregolarità processuali (Catriona in tal senso anticipa alcune modalità del legal thriller). E vietando altresì l’uso incosciente e improprio del capitale in forme amorali di dissipazione, sperpero, corruzione, malaffare. Personaggio virtuoso per eccellenza, ancorché umanizzato da qualche secondario cedimento, David Balfour fa della sua probità una condizione eroica che rifugge da ogni aurea mediocritas contrapponendo senza remore il nudo tribunale della coscienza al teatro opulento e irto di trabocchetti della Legge togata. Tuttavia il “bravo ragazzo” dovrà amaramente scoprire che le sue buone azioni, così come le sue buone intenzioni, sono destinate ad essere inficiate e vanificate dal corso inesorabile della Storia. “Uomini innocenti perirono prima di Giacomo e probabilmente periranno ancora – nonostante tutta la nostra saggezza – fino alla fine dei secoli. E fino alla fine dei secoli i giovani, che non sono abituati alla duplicità della vita e degli uomini, combatteranno come feci io, prenderanno risoluzioni eroiche e correranno gravi rischi; il corso degli eventi li spingerà da un lato e proseguirà come un esercito in marcia”. Catriona è quindi un inno alla purezza della gioventù e al tempo stesso un’elegia sulle sue eterne illusioni, sempre infrante e sempre risorgenti. In questi insovvertibili corsi e ricorsi non resta – come Stevenson scrisse nella dedica a Baxter – che chinare “il capo davanti alla fiaba del destino” con ammirazione e sgomento. NOTE (1) Domenico Scarpa, Storia avventurosa di libri necessari, Roma, Gaffi, 2010, p. 3. (2) Edizione di riferimento: Robert Louis Stevenson, Catriona, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1961. Traduzione di Maria Grazia Testi Piceni. (3) Si tratta del misterioso omicidio di Colin Roy Campbell of Glenure, detto la Volpe rossa, esattore reale inglese, avvenuto nella località di Appin nelle Highlands occidentali il 14 maggio 1752, di cui vennero imputati Allan Stewart, condannato a morte in contumacia, e il suo tutore James Stewart. Walter Scott ne parla nel romanzo Rob Roy, principale fonte d’ispirazione per Stevenson. L’omicidio è tuttora irrisolto. Pare comunque assodato che Alan e James, nonostante alcune violente e compromettenti dichiarazioni, ne fossero estranei.
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