SCUOLA E GENERE. Un dibattito a Palermo
14/3/2016
di Giovanni Di Benedetto
La scuola di Renzi è in grado di offrire un punto di vista di genere sul mondo? A giudicare dalle riflessioni maturate nel corso di un incontro dibattito tenutosi a Palermo lo scorso 2 Marzo e organizzato dal Cesp, il Centro studi per la scuola pubblica che affianca il lavoro politico e sindacale dei Cobas della scuola, sembrerebbe proprio di no. “Soggettività, differenza e genere. Appunti per una didattica delle differenze”: questo il titolo del Convegno, tenutosi presso il liceo Scientifico Galileo Galilei, e che è stato seguito da circa 150 partecipanti. Un vero e proprio successo, considerati i numeri, non proprio significativi, che caratterizzano in questa fase storica iniziative di chi propone un punto di vista critico e fortemente conflittuale rispetto alle derive privatistiche e aziendalistiche della cosiddetta buona scuola di Renzi. Interessantissimi gli interventi delle tre relatrici e del relatore che hanno aperto il dibattito, a cominciare dalle riflessioni della Prof.ssa Elena Di Liberto sul pensiero femminista e gli stereotipi di genere. La crisi epocale nella quale viviamo ha, tra le altre cose, messo definitivamente in discussione ruoli e identità socialmente riconosciuti. La percezione che ne è derivata comporta un inedito senso di vertigine ogni qualvolta acquisiamo consapevolezza di vivere in un mondo in cui sempre di più si incontrano identità plurali, indefinite e non riconducibili ad un unico modello. Un mondo in cui strutture socio-simboliche quali la famiglia e l’autorità maschile sono precipitate entro un campo di iscrizione in vorticosa ridefinizione. Di esperienza e cultura delle donne nel processo educativo ha parlato Mariella Pasinati della Biblioteca delle donne. L’essere uomo e l’essere donna non sono portatori di un significato determinato situato fuori dal tempo e dallo spazio. In questo senso, porre la donna come soggetto implica il significare in direzione sessuata la propria posizione di insegnante, svelando la falsa neutralità dei processi di apprendimento-formazione che si svolgono a scuola. Ecco perché le pratiche pedagogiche della differenza sessuale si pongono come obiettivo quello di definire un nuovo percorso formativo che non sia previsto nell’ordine educativo esistente. Il che rimanda alla necessità di sperimentare modelli pedagogici segnati dal posizionamento femminile. Da questa prospettiva, quali sarebbero le strade da percorrere? Si tratta di mettere in campo un doppio movimento: del ritrarsi, rispetto ad una cultura segnata esclusivamente dal maschile da un lato; dell’esporsi in un universo simbolico nel quale emergano genealogie di donne mostrando la loro relazione valorizzatrice, dall’altro. Il che significa, all’interno della scuola, esplicitare l’assunto che il riferimento all’altro/a si configura sempre come condizione fondamentale. Il percorso di formazione del sé è sempre complesso. La mediazione della consapevolezza del genere comporta la possibilità di interpretare liberamente l’esistenza femminile e maschile affrancandosi dagli stereotipi che veicolano interpretazioni non libere di cosa significa essere uomini e essere donne. Anche lo stereotipo è il prodotto di una cultura maschile e il suo superamento non può essere inteso nell’ottica di una pretesa parità dei sessi. Da qui l’esigenza di utilizzare il linguaggio sessuato: si tratta di esprimersi creativamente sapendo che ciò che si vuol comunicare ad allievi ed allieve è soprattutto il fatto che intendiamo creare la lingua per dire la verità della nostra esperienza e, cioè, che l’esperienza di tutti è che il mondo è abitato da esseri umani sessuati. Nella pratica didattica la consapevolezza della differenza di genere deve significare, dunque, la definizione di nuovi contenuti per fare emergere la presenza delle donne nella cultura e, contemporaneamente, la decostruzione dell’ordine simbolico e del discorso culturale maschili. Infine, a coronamento di questo percorso, è indispensabile cercare nuove forme di interpretazione e di ermeneutica non fintamente neutrali. Come ha sottolineato Stella Bertuglia, docente dell’Istituto Tecnico Industriale Volta, il tema, ovviamente, non è quello delle pari opportunità ma quello dell’educazione alla differenza di genere nelle scuole. E qui si deve lavorare non soltanto sul genere femminile ma anche sul genere maschile. La scuola, infatti, è luogo della riproduzione di relazioni tra le persone e in quanto tale è lo spazio nel quale si formano soggetti. Purtroppo, la scuola valorizza poco le differenze di genere e in questo rispecchia un po’ un contesto economico e sociale, quale quello italiano, in cui le donne laureate sono più numerose degli uomini e tuttavia occupano un numero minore di posti di comando e responsabilità. Senza, per questo, voler avvalorare le contraddizioni, anche dolorose, di quella falsa emancipazione della quale le portabandiera sono, a mio avviso, le donne in carriera e le donne nell’esercito, cioè l’espressione più turpe di quel modello che riproduce alcuni dei valori tipici del peggior capitalismo fondato sul denaro e sulla violenza. Nella relazione di Giuseppe Burgio, Che genere di scuola, il riferirsi a modelli di mascolinità e femminilità rigidi e anacronistici continua ad essere un problema perché è alla base di questi modelli che vengono strutturati i riferimenti per formare le identità di genere e le relazioni interindividuali. Occorre agire la differenza, ossia agire i valori legati alla soggettività femminile e maschile. Da questo punto di vista bisogna lavorare molto sull’identità maschile perché tra i giovani sussiste un forte disorientamento. Il problema è come le società agiscono sulla costruzione culturale dell’essere maschio visto che tutti noi uomini abbiamo imparato ad essere tali attraverso l’educazione. A scuola siamo educati ad essere maschi o femmine nel gruppo dei pari. Da qui, per esempio, emerge un’ideologia sessuale del maschio che si identifica nei seguenti caratteri: bianco, eterosessuale, competitivo e vincente. La stessa pratica del bullismo, a scuola sempre più diffusa, è agita dai giovani maschi come logica della violenza e della prevaricazione che si configura come una vera e propria performance della reputazione che deve vigere all’interno delle gerarchie tra coetanei. La scuola diventa così un dispositivo di genere che insegna saperi maschili, non neutri, e riconducibili al potere patriarcale. Tutto questo non può non avere un effetto sulla costruzione delle differenze. Il cambiamento, di conseguenza, deve avvenire pensando a una scuola autenticamente femminilizzata, aperta alla nonviolenza e al rispetto delle differenze. Si pone una questione: se la scuola fa già differenza di genere riproducendola nella modalità degli stereotipi e dei pregiudizi vigenti del maschile e del femminile, occorre proporre alternative a queste costruzioni del genere. I ragazzi sono vittime di un problema perché sono costretti ad un mondo che li costringe a conformarsi a un modello maschile difficile da perseguire. La sfida consiste nell’educare al senso libero di essere uomini e al senso libero di essere donne. Il patriarcato è in crisi e gli episodi di bullismo e violenza non sono altro che il sintomo di questa crisi. Il bilancio del convegno è assolutamente positivo e riflette un’accresciuta sensibilità della nostra società e del mondo della scuola su questi temi. Tuttavia, se proprio si dovesse svolgere un piccolo appunto, si potrebbe dire che se è vero che l’immaginario da combattere e destrutturare è quello fondato su una logica simmetrica che presuppone l’esistenza di tutto un insieme di categorie nelle quali l’altro è inteso come immagine svalorizzata della norma, a scuola un’operazione di questo genere non è più sufficiente. L’immaginario del nostro mondo, tecnologicamente sviluppato, ha messo in discussione la logica binaria delle identità fisse e delle appartenenze di sesso/genere. I giovani studenti e le giovani studentesse che incontriamo quotidianamente nelle aule delle nostre scuole vivono immersi e immerse in un ambiente in cui la tecnologia ha dissolto tutte le divisioni dicotomiche tradizionali. Da questo punto di vista, la messa in discussione della divisione patriarcale di genere è necessaria ma non più sufficiente. In un mondo come quello giovanile (e non solo quello) in cui le identità sono sempre più frammentate, precarizzate e sempre di più in costante evoluzione non basta la denuncia dei capisaldi patriarcali sulla base dei quali il femminile si è dato attraverso la relazione di subordinazione rispetto al maschile. Certo, come non riconoscere che in questa denuncia dimora l’imprescindibile crisi del sé maschile, una soggettività che storicamente si è costituita attraverso la relazione di dominazione dell’alterità femminile? Tuttavia, oggi, a fronte di teorie che rischiano di ricadere su fondamenti le cui matrici sarebbero di carattere naturale, la disordinata polifonia dei nostri tempi ci costringe a fare i conti con nuovi regimi iconico-politici in cui vige il dominio del potere tele-visuale e di codici culturali e simbolici strettamente connessi alla tecnologia. I nostri ragazzi e le nostre ragazze sanno bene di cosa parliamo. Il loro vissuto è permanentemente connesso all’infosfera, ossia allo spazio semiotico dell’informazione digitale e delle tecnologie più o meno virtuali. Il compito del pensiero critico dovrebbe essere, allora, quello di ripensare le modalità plurali e complesse con cui il potere costruisce soggettività, a partire dalla produzione di discorsi riconosciuti come socialmente veri e strettamente connessi con un uso quanto mai mutevole e spiazzante della tecnologia. La costruzione di una consapevolezza critica di questo tenore è qualcosa di molto complesso e, d‘altra parte, non si può elaborare entro lo spazio necessariamente limitato di un convegno. Quel che è certo, però, è che essa non ha nulla a che fare con la banale e becera implementazione, propagandata dal governo di Renzi e dai suoi corifei, dell’uso a scuola di tablet, computer e lavagne interattive.
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