RITORNARE A MARX (seconda parte)
12/2/2019
Collettivo di fabbricato
3. Come si definisce allora in Marx un metodo che sia scientificamente corretto senza configurarsi come filosofia della storia? Nell’Introduzione del ’57 ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Marx teorizza una teoria della conoscenza che si articola attraverso la dialettica concreto-astratto-concreto che supera l’idealismo speculativo da un lato e l’empirismo (materialismo volgare) dall’altro, dando luogo ad un circolo di rimandi reciproci che definiscono la tendenza. Scrive Marx: “Sembra corretto cominciare con il reale ed il concreto, con l’effettivo presupposto; quindi, per es., nell’economia, con la popolazione, che è la base e il soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma, ad un più attento esame, ciò si rivela falso. (…) Se cominciassi quindi con la popolazione, avrei una rappresentazione caotica dell’insieme e, precisando più da vicino, perverrei via via analiticamente a concetti più semplici; dal concreto rappresentato, ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni più semplici. Da qui si tratterebbe poi di intraprendere di nuovo il viaggio all’indietro, fino ad arrivare finalmente di nuovo alla popolazione, ma questa volta non come a una caotica rappresentazione di un insieme, bensì come a una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni. (…) Quest’ultimo è, chiaramente, il metodo scientificamente corretto. Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione. Per la prima via, la rappresentazione concreta si è volatilizzata in una astratta determinazione; per la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero. È per questo che Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come risultato del pensiero, che si riassume e si approfondisce in se stesso, e si muove spontaneamente, mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo, per il pensiero, di appropriarsi il concreto, di riprodurlo come qualcosa di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso.”[14] Per la coscienza il movimento delle categorie si presenta come l’effettivo atto di produzione il cui risultato è il mondo nel senso che la totalità concreta è un prodotto del pensare. “Ma mai del concetto che genera se stesso e pensa al di fuori e al di sopra dell’intuizione e della rappresentazione. La totalità come essa si presenta nella mente quale totalità del pensiero, è un prodotto della mente che pensa, la quale si appropria il mondo nella sola maniera che gli è possibile (…). Il soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua autonomia fuori della mente; fino a che, almeno, la mente si comporta solo speculativamente, solo teoricamente. Anche nel metodo teorico, perciò, la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto.”[15] Emerge dalla lettura di questi passi l’antidogmatismo presente in questo metodo: quali sono dunque i presupposti teorici con cui concepiamo la conoscenza? Che tipo di effetti ha la definizione di questi presupposti sulla pratica sociale? E come questi effetti sulla pratica sociale retroagiscono sulla costruzione di una teoria della società? Il metodo della conoscenza esposto da Marx, che sembra contenere un’implicita idea della relazione soggetto conoscente-oggetto conosciuto, istituisce una clamorosa discontinuità con l’idea per la quale la conoscenza in quanto tale sia la conoscenza dell’oggetto reale. Entra in discussione l’idea che la conoscenza possa essere intesa come rispecchiamento fotografico dell’idea adeguata all’oggetto reale in cui quest’ultimo e l’oggetto della conoscenza coincidono. Marx non disconosce il fatto che fra il mondo della conoscenza ed il mondo dei fenomeni devono essere evidenziate differenze di tipo logico. Questo non vuol dire cadere in una qualche forma di psicologismo della coscienza o in una sorta di idealismo soggettivistico in base al quale il pensierosi configurerebbe come la facoltà di un soggetto trascendente contrapposto al mondo materiale della realtà. Al contrario, riconoscendo la differenza che si insedia fra l’oggettorealee l’oggetto della conoscenza, riconoscendo dunque la differenza fra la realtàed il concetto, si tratterà di pensare, nell’approssimazione dell’astrattezza, l’adeguatezza all’oggetto. Ma non basta. In Marx il modo di produzione della conoscenza è sempre calato all’interno del divenire storico, esso si configura proprio come un apparato di pensiero collocato all’interno di un sistema storicamente definito e costituito da determinate e specifiche condizioni reali. Il sistema, costituito dall’apparato teorico, presenta la coesistenza di differenti livelli, da quello economico a quello politico a quello ideologico ed ognuno di questi sistemi, pur mantenendo una relativa autonomia, si articola in una più ampia connessione con la totalità dell’apparato teorico stesso. In questo senso, l’autonomia di ciascun livello si dispiega all’interno di un più vasto contesto di dipendenza relativa col quale si presenta l’insieme delle strutture. Questo vuol dire che non c’è uno spazio unidimensionale in cui, per esempio, i rapporti fra struttura economica e sovrastruttura politica si determinano secondo la linea causa-effetto, in conseguente successione temporale. Viceversa, a partire da un determinato apparato di pensiero prodotto attraverso l’astrazione, si tratterà di pensare la totalità storica e sociale nell’articolazione reciproca di tutte le sue componenti. Il metodo marxista farà di questa totalità l’oggetto della propria teoria della storia, connetterà questa teoria alla teoria economica, infine provvederà a verificare l’adeguatezza di tale apparato di pensiero attraverso il confronto con le tendenze e le dinamiche innescate dai soggetti reali. 4. Che in una tale teoria non vada disconosciuta l’importanza dei soggetti realiè dimostrato dal fatto che calare, come fa Marx, gli individui nella storia vuol dire calarli all’interno di quel processo reale che fonda l’estraneazione e il suo superamento, i bisogni ed il loro soddisfacimento. Ne La sacra famiglia Marx dice che “l’idea ha sempre fatto brutta figura quando si è distinta dall’interesse ”e ne L’ideologia tedesca aggiunge che le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti. Come non riconoscere il sospetto, terribile, nei confronti della parzialità di coloro che, cantori dell’economia politica classica, contrariamente a quanto praticano, spacciano per oggettivo il proprio sapere. La verità, dunque, non esiste per se stessa, bensì, innanzitutto come critica dell’ideologia, di quell’apparato di potere e di sapere che produce contesti di accecamento mistificando la natura dello sfruttamento che presiede al rapporto capitale-lavoro. Dall’altro lato, nel momento stesso in cui la teoria marxiana si configura come adeguata strategia del sospetto in grado di operare una corrosiva critica del dominio, essa proietta se stessa entro l’orizzonte dell’emancipazione e della riappropriazione dell’essenza dell’uomo, il cui scopo e il cui senso sono individuati nella trasformazione. Nelle Tesi su Feuerbach Marx scrive che l’uomo di Feuerbach è l’uomo-genere-astratto, che risiede nell’intimo dell’individuo singolo, svincolato dalla società e dalla storia reale. Nella VI tesi, Marx ricorda, invece, che “l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali”. Se è vero che l’uomo è il risultato dei rapporti economici e sociali che determina e da cui è contemporaneamente determinato, diventa necessario guardare ai processi che stanno alla base della sua estraneazione. Ciò va considerato sapendo che in Marx la premessa è “l’interesse della classe proletaria” nella sua partiticità,[16] l’interesse per gli ultimi della terra, i poveri, gli sfruttati, i diseredati. Non si comprende Marx se non si capisce che la rivendicazione della propria parzialità si configura come uninteresseconfessato per la parte dei vinti, interesse confessato che poi, proprio per queste ragioni, in sede teorica, si assume la responsabilità di definirsi come un sapere che riflette sui propri pregiudizi. Qui non si tratta di una relativizzazione della teoria marxiana a mera ideologia della classe operaia e dei suoi egoistici interessi, ma della convinzione che, senza disconoscere la possibilità della coesistenza culturale, gli interessi della classe operaia possano essere universalizzabili. Infatti, secondo Marx, l’interesse della classe consisterebbe nell’individuare chiaramente la sua situazione e nell’abolirla, abolendo così non solo la propria estraniazione ma l’estraneazione di tutti gli uomini. È per questo che la teoria e la prassi non tendono soltanto alla trasformazione ma anche al miglioramento del mondo. La famosissima parola d’ordine della tesi XI recita: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo.” Cosa vuol dire questo se non il fatto che l’autentica prassi deve procedere soltanto in complementarità con la teoria? La trasformazione non può che attuarsi con un’incessante conoscenza dei contesti che si misura con la situazione analizzata, che si realizza a partire dalla comprensione della tendenza dialettica, delle leggi oggettive, della possibilità reale. 5. Scrive Marx: “Il singolo ed isolato cacciatore e pescatore con cui cominciano Smith e Ricardo, appartengono alle immaginazioni prive di fantasmi che hanno prodotto le robinsonate del XVIII sec., le quali non esprimono affatto, come presumono gli storici delle civiltà, semplicemente una reazione alle eccessive raffinatezze e un ritorno a una malintesa vita naturale (…). Questa non è che l’apparenza, e precisamente l’apparenza estetica delle piccole e grandi robinsonate. In realtà si tratta piuttosto dell’anticipazione della «società civile», che si preparava dal XVI secolo e che nel XVIII ha compiuto passi da gigante verso la sua maturità. In questa società della libera concorrenza l’individuo si presenta sciolto da quei vincoli naturali ecc., che nelle epoche storiche precedenti fanno di lui un elemento accessorio di un determinato circoscritto conglomerato umano.”[17] L’economia politica classica intende recingere lo spazio inaccessibile proprio dell’io, dell’individualismo possessivo. Deve operare le enclosures dell’anima e del sé. Costruire il sé a partire da ciò che lo lega a sé in modo orizzontale e circolare. Circondare, recingere, chiudere e isolare, creare una ipseità. “Agli occhi dei profeti del XVIII secolo, sulle cui spalle poggiano ancora interamente Smith e Ricardo, questo individuo del XVIII secolo – che è il prodotto, da un lato, della dissoluzione delle forme sociali feudali, dall’altro dalle nuove forze produttive sviluppatesi a partire dal XVI secolo – è presente come un ideale la cui esistenza sarebbe appartenuta al passato. Non come un risultato storico, ma come il punto di partenza della storia. Giacché come individuo conforme a natura, o meglio conforme all’idea che essi si fanno della natura umana, esso non è originato storicamente, ma è posto dalla natura stessa. Questa illusione è stata finora propria di ogni epoca nuova.”[18] Marx ritorna laddove ha visto che l’ipseità si determina soltanto co-determinandosi. Divenir sé, ipse, solo con la pluralità degli ipse che sono tutti condotti, o ex-sistiti, tratti fuori da un’origine illusoria, un’origine che non c’è se non in un orizzonte plurale. L’economia politica classica gioca sulla progressiva instaurazione di un sé limite, di un sé che entra in una relazione diretta con la natura per trasformarla. Marx disinnesca questa illusione del soggetto individuale e della sua robinsoniana capacità di trasformazione-appropriazione della natura. “L’uomo è nel senso più letterale un Ζωον πολιτικον, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solamente nella società può isolarsi.”[19] E ancora viene ribadito nel Capitale: “Questo deriva dal fatto che l’uomo è per natura un animale, se non politico, come pensa Aristotele, certo sociale.”[20] Già nei Manoscritti parigini del 1844, Marx aveva propugnato l’idea di un’antropologia per la quale l’uomo può essere compreso solo a partire dal suo essere in relazione con altri uomini in una società, un’antropologia imperniata sull’uomo come essere sociale. In questa antropologia Marx innesta il suo concetto di lavoro carico di connotazioni normative. In questi scritti, infatti, si delinea una concezione della costituzione della soggettività e del riconoscimento intersoggettivo imperniato sulla mediazione del lavoro e dei bisogni. Nel prodotto del lavoro, l’uomo può vedersi come individuo al quale si attribuiscono certe capacità ma che è in grado di provvedere ai bisogni concreti di un altro nell’interazione. A questo si affianca l’idea che l’individuazione proceda a partire dal pre-individuale nella specie e che si realizzi nell’interazione. Nel contesto di un corpo a corpo serrato con il dispositivo della produzione, e quindi negli anni che seguono questa impostazione antropologica, Marx, mantenendo l’idea della centralità dell’essere sociale, studia concretamente le relazioni economiche. Egli riconosce quel meccanismo del capitale che, con la separazione dei mezzi di produzione, distrugge le relazioni di riconoscimento degli individui, negando ad essi la possibilità di un controllo delle proprie attività, presupposto per una libera cooperazione. Inoltre, per questa via, il dispositivo capitalistico sussume sotto di sé la cooperazione sociale impedendo, pertanto, le libere dinamiche di riconoscimento. Nell’analisi della divisione del lavoro e della manifattura, ad esempio, Marx porta avanti un’analisi della costituzione della soggettività nel modo di produzione, come modo di produzione dell’assoggettamento: “Come persone indipendenti gli operai sono dei singoli i quali entrano in rapporto con lo stesso capitale ma non in rapporto reciproco fra loro. La loro cooperazione comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato d’appartenere a se stessi (…). Entrandovi, sono incorporati nel capitale. Come cooperanti, come membri d’un organismo operante essi stessi sono un modo particolare d’esistenza del capitale.”[21] Marx ha visto nel processo di valorizzazione del capitale una de-propriazione, nella perdita di saperi artigianali, nella creazione di un esercito industriale di riserva i momenti della separazione, della privazione, della riduzione a semplice forza lavoro. “Non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra diversi individui, ma l’individuo stesso vien diviso, vien trasformato in un motore automatico d’un lavoro parziale.”[22] E poco più avanti: “Le potenze intellettuali della produzione allargano la loro scala da una parte perché scompaiono da molte parti. Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale, di contro a loro (…). Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice (...), si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente, dal lavoro e la costringe a entrare al servizio del capitale.”[23] C’è un doppio movimento, la visione di un dispositivo, di un modo di produzione, che da un lato concentra le forze nella cooperazione, dall’altro impoverisce ed isola. L’istanza di valorizzazione del capitale tende a spezzare e a impoverire la possibilità di una appropriazione di sapere, spezzando la cooperazione stessa. “La subordinazione tecnica dell’operaio all’andamento uniforme del mezzo di lavoro e la peculiare composizione del corpo lavorativo, fatto di individui d’ambo i sessi e di diversissimi gradi d’età, creano una disciplina da caserma che si perfeziona e diviene un regime di fabbrica completo.”[24] Il modello teorico marxiano viene a configurare una situazione nella quale la mediazione del lavoro non rappresenta più un’autorealizzazione individuale e l’apertura al riconoscimento di altri soggetti, ma la manifestazione di un conflitto e di un’alienazione, dovuto alla sussunzione, dentro alle dinamiche dello sfruttamento, delle istanze di riconoscimento intersoggettivo. 6. La riflessione di Marx ha, dunque, nell’essere sociale, ossia nell’individuo in relazione, il presupposto della propria riflessione. Come abbiamo visto, ogni definizione teorica che pensa l’individuo come atomo irrelato che agisce isolatamente, si configura, dice Marx, come mera robinsonata; [25] viceversa, occorre pensare l’uomo come la risultante “del sistema dei rapporti sociali.” Posta questa precondizione, in base alla quale le circostanze determinano l’uomo al pari del fatto che l’uomo determina le circostanze, ed in base alla quale i rapporti sociali sono in perenne trasformazione, quale può essere, dunque, il ruolo delle soggettività che si situano criticamente nei confronti del dominio capitalistico? Provare ad abbandonare ogni punto di vista metastorico, trascendente o aprioristico, può voler dire riconoscere il fatto che il soggetto, configurantesi come il movimento che abbatte lo stato di cose presenti (Marx, L’ideologia tedesca), muta di continuo caratteristiche politiche ed antropologiche, a seconda delle condizioni storiche, delle invarianti sociali, dei contesti culturali, delle determinazioni economiche. Esso non può possedere alcun contenuto positivo che sia fisso, invariabile e sintetizzabile in una sola formula. E tuttavia, delineare financo i termini della transizione dalla sfera della necessità alla sfera della libertà resta un compito improbo. Eppure, se pensiamo la collettività come punto di incontro delle singolarità, dobbiamo necessariamente dedurre che la riappropriazione e la liberazione dell’individuo non può che avvenire sul terreno del comune. Solo entro questo sfondo comune, e perciò politico, si pone il problema della necessità della transizione da una forma dell’organizzazione produttiva e sociale inconsapevole (in cui vige l’antagonismo fra individualismo e socializzazione) ad una forma consapevole in cui questa contrapposizione viene superata. D’altra parte, un tale antagonismo non è una astrazione metafisica ma una realtà storica che si disloca nelle forme più diversificate a seconda dei mutamenti del contesto storico stesso. Il delicato tema della liberazione assume, dunque, connotati sui quali vale la pena di indugiare. All’individualismo possessivo ed egoistico, in cui la dimensione della cooperazione è funzione del dominio dispotico del capitalista ed in cui la mediazione avviene tramite il valore di scambio e non tramite il legame sociale, occorre sostituire una nozione di libertà adeguata all’antropologia relazionale di Marx. La liberazione cui pensa Marx è sì liberazione che si emancipa dai vincoli personali e dall’arbitrarietà politica. Essa è però, nello stesso tempo, anche liberazione positiva, che si traduce nella capacità collettiva di procedere all’autodeterminazione, alla costruzione ed alla trasformazione degli stili di vita, delle modalità esistenziali e degli orizzonti di senso. Scrive Bellofiore che “l’idea di Marx (…) è che il capitalismo, per la prima volta nella storia, renda possibile un essere umano autenticamente sociale. L’individuo ‘autonomo’ non (è) più concepibile, al suo posto subentra l’individuo costruito dalla reciproca relazione, dove l’interazione non è vista come un limite ma come una risorsa: risorsa, esattamente, per il perseguimento della libertà positiva, rispetto alla quale il superamento della divisione in classi e dell’eterodirezione nel lavoro sono premesse necessarie, perché, come scrivono Marx ed Engels nel Manifesto, la libertà ‘positiva’ degli altri è condizione della mia.”[26] Certo, lungo e tormentoso è il processo che dall’estraneazione conduce alla liberazione. Tuttavia, un’operazione di questo tipo è possibile non per una sorta di volontarismo utopistico ed arbitrario ma proprio perché, come abbiamo visto, in Marx l’enorme potenziale critico della teoria, indissolubilmente connesso alla mutazione pratica, si traduce in quello sviluppo storico in cui l’essere umano, entro vincoli e possibilità, pensa e realizza pienamente la trasformazione di sé e delle relazioni in cui è immerso. Marco Assennato Loriana Cavaleri Salvatore Cavaleri Giovanni Di Benedetto Sandro Gulì Marcella Maisano 14.K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol.I, La Nuova Italia Firenze, pp.26-27. In Marx, “il pensiero non mira affatto ad un cattivo universale, all’astratto; al contrario, rende accessibile precisamente il mediato, il nesso essenziale del fenomeno, che è ancora inaccessibile alla mera sensibilità di fronte al fenomeno. Avviene così che il pensiero, estrapolato da Feuerbach come astratto, è in quanto mediato, concreto, mentre al contrario il sensibile privo di pensiero è astratto. È pur vero che il pensiero deve ricondursi di nuovo all’intuizione, per far prova di sé in essa (…). Solo attraverso la mediatezza dell’intuizione, attraverso l’elaborazione teoretica della realtà sensibile che diventa così cosa per noi, quella del pensare diventa “un’attività, critica, stringente, esplicativa.” (E. Bloch, Le undici tesi di Marx su Feuerbach, in Karl Marx, Il Mulino Bologna, 1972, p.109). 15.K. Marx, Ibidem,p.28. 16.Ernst Bloch, Il concetto di scienza nel marxismo, in Karl Marx, op.cit., p.177. 17.K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, op.cit. pp3-4. 18.K. Marx, Ibidem, pp. 4-5. 19.K. Marx, Ibidem, p. 5. 20.K. Marx, Il Capitale libro I, op. cit., p. 367. 21.K. Marx, Ibidem, p. 374. 22.K. Marx, Ibidem, p. 404. 23.K. Marx, Ibidem, pp. 404 – 405. 24.K. Marx, Ibidem, p. 468. 25.K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, op. cit., p.4. 26.R. Bellofiore, Le condizioni della libertà. Dinamica capitalistica e questione del soggetto nell’epoca della «globalizzazione», in (a cura) R. Rossanda,Il Manifesto del Partito Comunista 150 anni dopo, Manifestolibri Roma 2000, p.273.
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