RISCOPRIRE IL VALORE-LAVORO
28/3/2015
Scritto da Marco Palazzotto
Questo articolo fa riferimento a due seminari sul libro di Giorgio Gattei: Storia del valore-lavoro, Giappichelli 2011. Lo scopo dei seminari era quello di discutere un argomento oggi considerato inattuale, poco applicabile alla realtà, da relegare alla storia del pensiero. Noi crediamo che una riflessione su come si forma il valore delle merci in economia rappresenti un punto di partenza teorico importante per fornire una lettura della società il più vicina possibile alla realtà. Soprattutto l’intenzione è quella di fare chiarezza su un concetto, quello di valore, che viene spesso confuso con quello di denaro o viene associato alla “finanza”, o ancora che viene inserito - con lo scopo di sviluppare e superare il pensiero classico - in filoni di ricerca “postmoderna”. L’interrogativo che ci poniamo allora è se la teoria del valore-lavoro elaborata dagli economisti classici e da Karl Marx sia ancora un utile dispositivo di analisi della realtà capitalistica – come tenta di dimostrare Gattei nel suo libretto - e quindi il fondamento del valore sia ancora il rapporto di lavoro, scambio di forza lavoro, basato sullo sfruttamento, oppure sia qualcos’altro: l’utilità marginale, o la finanza, o il lavoro cognitivo, relazionale, affettivo, o altro ancora.[1] Occorre premettere che nella storia del pensiero si scontrano da molti decenni due principali teorie del valore, intese come teorie che hanno l’obiettivo d’individuare la sostanza che conferisce valore alle merci. Il paradigma classico e marxista riconduce il valore delle cose al lavoro che direttamente o indirettamente è stato impiegato nel processo produttivo per produrre le merci. La seconda vulgata, che nasce con il marginalismo e che viene adottata dalla maggior parte delle scuole neoclassiche, afferma che il valore delle merci dipenderebbe dall’apprezzamento, da parte dei singoli soggetti, dell’attitudine dei beni economici a soddisfare bisogni. Quindi i prezzi delle merci dipenderebbero dall’utilità marginale che viene misurata nel mercato da parte dei consumatori attraverso il prezzo (approccio soggettivo). La teoria del valore lavoro invece assume che lo scopo del processo capitalistico sia la produzione di valori di scambio, in vista della realizzazione di un profitto, affermando principalmente che il luogo della determinazione dei valori è il processo produttivo e non il mercato.[2] Gattei nel suo testo pare soffermarsi non tanto sul concetto filosofico della forma valore, dando per assodato il lavoro astratto quale sostanza del valore e il tempo di lavoro contenuto quale grandezza di valore, ma sul problema della trasformazione dei valori in prezzi.[3] Problema che è stato oggetto di un dibattito secolare e che ha spesso creato divisione tra i pensatori di sinistra sulla validità della teoria del valore marxiana. Adam Smith fu il primo a formulare la legge del valore di scambio secondo la quale il valore relativo (o di scambio) tra due merci è uguale al rapporto delle quantità di lavoro occorse per produrre le due merci. Se una merce vale il doppio di un’altra significa che è stato necessario il doppio di lavoro per produrla. Il rapporto dei lavori contenuti vale per i rapporti dei prezzi naturali (Ricardo) delle merci che sono quei prezzi di equilibrio che assicurano uniformità del salario e saggio di profitto in tutte le produzioni. Quindi quando una merce, in condizioni di equilibrio, non vale né più né meno di quello che dovrebbe essere allora si hanno dei prezzi naturali, diversi dai prezzi correnti che dipendono da situazioni congiunturali. Per Marx il capitale non è una somma di valori, ma una particolare forma di circolazione D-M-D’ (denaro – merce – denaro) dove tuttavia gli scambi non si svolgono a valori equivalenti, come nel sistema economico “naturale” alla Smith e Ricardo. Perché c’è il plusvalore che corrisponde alla differenza D’-D. Quindi Marx spiega la formazione del plusvalore attraverso la mediazione del sistema produttivo che s’inserisce tra l’acquisto e la vendita. Nella circolazione il valore originariamente anticipato non solo si conserva, ma in essa altera anche la propria grandezza di valore, aggiunge un plusvalore, ossia si valorizza. Rispetto a Smith e Ricardo, Marx svela l’arcano della valorizzazione capitalistica, ovvero l’acquisto di forza-lavoro. Qui Marx divide lavoro morto (bene capitale) dal lavoro vivo che serve a trasformare, con la forza lavoro assistita dalle macchine, il lavoro morto (bene capitale). Il valore delle merci non è altro che somma di lavoro morto e vivo. Ma come viene individuato il plusvalore che si trasforma in profitto? Attraverso la divisione del lavoro vivo tra lavoro necessario e pluslavoro. Il lavoro necessario è il paniere di beni salario, cioè il lavoro che viene speso nel complesso per acquistare beni necessari alla sopravvivenza di chi per l’appunto lavora. La parte di lavoro vivo che rimane da distribuire, tolto cioè il lavoro necessario - ovvero il valore delle merci che vengono vendute alla forza lavoro stessa - è il plusvalore di cui si appropria il capitalista, “che sorride al capitalista con tutto il fascino di una creazione dal nulla” (pag. 68). Ecco dunque il succo della valorizzazione capitalistica. Il plusvalore è pluslavoro conseguenza dello sfruttamento della forza lavoro salariata, eccedenza del lavoro vivo erogato oltre la quantità di lavoro necessario. Per la trasformazione dei valori in prezzi Marx non pensa che esista una corrispondenza tra valore e prezzo di produzione per singolo bene: parla invece di valore assoluto della produzione nel suo complesso, nella quale le differenze di valori si elidono. Attraverso una serie di equazioni che Gattei riporta, Marx dimostra che il profitto complessivo è uguale al pluslavoro estorto ai lavoratori. Si parte quindi dal saggio di sfruttamento (pag. 77) e si ricava il saggio generale del profitto al quale guardano i capitalisti per la remunerazione del capitale investito. Il saggio generale del profitto è funzione diretta del saggio di sfruttamento. Se sostituiamo la formula del saggio generale del profitto nel prezzo di produzione si vede che questo, il prezzo di produzione, non è che la forma trasformata delle componenti di lavoro morto, necessario e pluslavoro. Quindi è la legge del valore che determina i prezzi di produzione. Marx commette tuttavia un errore grossolano, di dimenticanza, ovvero in una situazione di prezzi di produzione il bene capitale e la forza lavoro non possono essere inseriti ai loro valori, bensì ai prezzi di produzione. Infatti Bortkiewicz ha gioco facile nel criticare questa impostazione nei primi anni del ‘900 ed introdurrà, per superare l’errore di Marx, il prezzo di produzione del bene capitale e il salario della forza lavoro al posto dei loro rispettivi valori. Però non ci siamo più, così come succedeva in Ricardo, perché il prezzo di produzione del bene capitale, impiegato anche se precedentemente prodotto con solo lavoro, non può equivalere al contenuto di lavoro morto per la presenza di un saggio di profitto “r” per tutto li tempo trascorso nella sua produzione. Solo se il saggio di profitto fosse nullo in assenza di capitalisti, o se il tempo di produzione fosse zero per la produzione istantanea del bene capitale e se i salari fossero uguali a 1 a significare che tutto il valore prodotto finisce ai lavoratori, la trasformazione marxiana potrebbe trovare conferma ed i prezzi di produzione non sarebbero che lavoro contenuto trasformato. Pertanto, il lavoro contenuto nella merce rappresenta l’essenza del valore delle merci quando, in Smith, non entra nel processo di produzione alcun bene capitale. Infatti appena entra a far parte della produzione un bene capitale le cose cambiano. Si potrebbe ovviare al problema considerando il bene capitale come salario pagato in precedenza, ma a causa del fattore tempo occorrerebbe renderlo attuale e quindi applicare al lavoro precedente un saggio di profitto per la capitalizzazione. Del problema si era candidamente accorto anche Ricardo. Occorre tuttavia considerare il valore assoluto di tutte le merci, o di una merce rappresentativa, e non il singolo valore relativo, ovvero il valore di scambio. Se inoltre consideriamo il prezzo del prodotto netto (come suggerisce Sraffa) - e non più il prodotto lordo - che è formato dall’insieme del prodotto nazionale al quale è stato tolto l’insieme delle merci utilizzate per reintegrare i mezzi di produzione, il problema della capitalizzazione al saggio di profitto dei beni capitali si può risolvere. Infatti, la parte di prodotto netto che rimane dopo la remunerazione dei beni capitali è quella da distribuire tra profitto e salari. In pratica si sottrae ai prezzi di produzione il prezzo dei beni capitali necessari a produrre, così che il prezzo di produzione del prodotto netto non sarà altro che lavoro “presente” ovvero lavoro vivo per intenderla alla Marx. Partendo infatti dall’equazione di valore assoluto Qp = L + Qkpk e passando a sinistra il prezzo assoluto dei beni capitali otterremo la seguente uguaglianza: Qp – Qkpk = L Questa possiamo chiamarla equazione del neo-valore, trovata come per caso da Sraffa in Produzione di merci a mezzo di merci, quando pone a numerario dapprima il prezzo del prodotto netto e poi l’ammontare del lavoro complessivo impiegato, quasi a suggerire che le due grandezze siano la stessa cosa. Questa è la soluzione che trovano gli studiosi della “new interpretation” per superare il problema della trasformazione. Tuttavia ci si porta dietro ancora un errore che commette lo stesso Marx nella trasformazione. Vediamo in che senso. Riccardo Bellofiore ad esempio si è misurato con la “new interpretation”, supponendo l’identità tra neovalore in termini di lavoro contenuto e neovalore espresso in termini di prezzi di produzione, dove il neovalore ai prezzi di produzione è il prezzo del netto. In una produzione circolare in cui una merce si produce a mezzo della medesima merce per il bene capitale, il prodotto netto si può determinare anche in termini fisici sottraendo all’output in termini fisici l’input. Quindi l’equazione del prodotto netto si potrebbe scrivere: Qn (prodotto netto) = Q - Qk Così l’equazione del neovalore si può scrivere Qnp = L Se in questa equazione si sostituisce alla quantità fisica del prodotto netto la sua definizione come differenza, altrettanto fisica, dell’output dall’input, si otterrebbe: (Q - Qk)p = Qp - Qkp = L Questa equazione della new interpretation però non coincide con quella del neo valore a causa delle diversa imputazione del prezzo di produzione del bene capitale impiegato che per il neovalore è pk mentre con la new interpretation è diventato p. Questo problema introduce il fattore temporale al quale si sono ispirati i teorici della Temporal Single System Interpretation (TSSI). È evidente che per valutare il prezzo del netto occorre anche conoscere il prezzo di produzione dei rispettivi input e output che però appartengono a due diversi momenti temporali. Ora i prezzi non sono mai coincidenti tra input e output. Perché si suggerirebbe al lettore che i prezzi rimangono costanti in due momenti diversi della produzione tra l’immissione dell’input, poi la trasformazione, e poi l’output. Impossibile che ci sia un mercato simultaneo degli input ed degli output. Augusto Graziani infatti evidenziava che “l’idea dello scambio simultaneo, dopo il trionfo del marginalismo, ha soppresso ogni residuo di versione classica del processo economico; ha resistito agli attacchi di Keynes e di Schumpeter; ha superato le palesi incongruenze che essa stessa genera nella teoria della moneta; ed infine, è riuscita ad attirare dalla sua perfino le analisi di scuola marxista. Infatti, gli stessi marxisti, quando studiano il problema della trasformazione, lo analizzano come problema di equilibrio simultaneo” Ecco che Gattei approda alla funzione del neovalore combinando la new interpretation (enfasi sul prodotto netto) e la TSSI (enfasi sul processo sequenziale marxista del processo produttivo, contrario a quello marginalista e marxiano alla Borkiewicz): Qp - Qk pk = L. Quindi da una parte a sinistra dell‘equazione ci sta il passato rappresentato dal lavoro morto che sottratto al prodotto lordo ci fa ricavare il fattore di destra ovvero il lavoro vivo derivante dallo sfruttamento dei lavoratori. Però manca il prezzo del netto da dare ai profitti. Allora per l’equivalenza del neo valore il prodotto che va ai lavoratori nella distribuzione del prodotto netto come formulata sopra, è pari ai salari ovvero al lavoro necessario come lo chiama Marx, ovvero la parte che serve a reintegrare i beni che vanno consumati dalla classe lavoratrice: W = a Qn p = a L. Il profitto che è quello che rimane dopo aver detratto il monte salari ovvero la parte della produzione consumata dai lavoratori, viene a coincidere con la differenza tra lavoro vivo e lavoro necessario: P = Qn p – W = L-a L Che è la differenza in ore lavoro che Marx chiama pluslavoro così dall’equazione scopriamo che il profitto è equivalente al pluslavoro (P = L - aL). Quindi anche se profitto e plusvalore sono coincidenti, questi non rappresentano la stessa cosa. Intanto uno è rappresentato dai prezzi, l’altro da ore lavoro. <<Ma poi essi forniscono informazioni differenti sulla maniera capitalistica del produrre. Infatti, se per la determinazione del profitto è necessaria la conoscenza del “prezzo del netto” quale risulta al termine del processo produttivo e dopo che i prodotti sono stati venduti, la determinazione del pluslavoro è antecedente a tutto questo, dipendendo dall’ammontare complessivo di lavoro “vivo” estorto alla forza-lavoro e dalla sua percentuale “ipotecata” dai lavoratori con il proprio monte-salari. Così, se la prima grandezza ci mostra quanto è stato prodotto, la seconda illustra invece come lo si produce attraverso la ripartizione del lavoro “vivo” in “lavoro necessario” e “lavoro disponibile” o pluslavoro. Il fatto è che la partita del profitto, impostata sul mercato della forza-lavoro con la stipula del contratto lavorativo, si gioca tutta nell’atto di produzione con l’erogazione/ripartizione del lavoro “vivo”. Il resto, ossia quel che avviene sul mercato dei prodotti, è solo “sanzione notarile” di quanto già conseguito nel luogo economico fondamentale della “maniera capitalistica del produrre” sulla cui porta sta scritto (come a tutti dovrebbe essere noto): Vietato l’ingresso ai non addetti al lavoro “vivo”>>. [4] Note: [1] Per i concetti di lavoro cognitivo, relazionale e affettivo si rimanda a “La vita messa a lavoro: verso una teoria del valore-vita”, di Cristina Morini e Andrea Fumagalli (qui il testo completo). [2] Lunghini G.-Ranchetti F.: “Valore, Teorie del”, Enciclopedia delle scienze sociali, Treccani (1998). [3] Sui concetti di sostanza, grandezza e forma di valore: “La merce” di Roberto Fineschi, in L’ospite Ingrato 10 settembre 2012. [4] Gattei G.: “Per ritrovare il senso del capitale”, Proteo 2003-1.
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