di Vincenzo Scalia
L’8 aprile scorso è scomparso Roger Matthews, uno dei principali criminologi critici contemporanei, fondatore, con John Lea e Jock Young, del cosiddetto left realism, ovvero realismo di sinistra, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei primi anni Ottanta. Negli ultimi anni della sua vita, insieme agli stessi autori, si era cimentato nella fondazione della cultural criminology. Per i non addetti ai lavori, i nomi di questi autori e queste definizioni non avranno un suono familiare. Eppure le loro riflessioni hanno giocato un ruolo fondamentale nell’elaborazione delle politiche penali – e non solo - contemporanee. Per questo motivo vale la pena di commemorare Matthews, che assieme ai suoi colleghi si sforzava di tenere le sue riflessioni al passo con le trasformazioni sociali. Per comprendere l’importanza del suo lavoro è necessario fornire a chi legge una minima infarinatura criminologica. Fino agli anni Sessanta del secolo scorso, la criminologia oscillava tra il classicismo, ovvero l’utilitarismo di Beccaria e Bentham, e il positivismo di Lombroso. I primi sostenevano che un atto criminale fosse la conseguenza di una scelta individuale, basata sul calcolo di costi e benefici. In parole povere, si commette un crimine quando si pensa che i benefici derivanti da questa azione siano maggiori dei costi. I secondi vedevano la criminalità come la conseguenza di deficit individuali, ambientali e sociali presso certi individui e gruppi sociali. Per esempio, la mafia derivava sia dall’arretratezza culturale dei siciliani, sia dal clima mediterraneo, che incidevano su di una predisposizione genetica. Entrambe le correnti convergevano sulla natura oggettiva del crimine e dei criminali, ma divergevano sulla punizione: gli esponenti della teoria classica gravitavano sul versante retribuzionista, ovvero, sulla necessità che i rei pagassero per le loro colpe in misura proporzionale alla violazione commessa. I positivisti, da parte loro, parlavano di un trattamento calibrato sul reo, che andasse quindi dal trattamento rieducativo, per quei “criminali” affetti da carenze sociali, fino all’esclusione permanente per chi presentava patologie mentali. Da qui il sorgere di un arcipelago di ‘istituzioni totali’: prigioni, manicomi, orfanotrofi, sanatori, dove la linea tra presunta pericolosità sociale ed eterodossia di pensiero, comportamenti e stili di vita era sempre più sottile. Nel caso italiano, per esempio, la sovra-rappresentazione di meridionali, operai, contadini, donne e omosessuali all’interno di tali istituzioni era evidente. Fu negli USA, all’inizio degli anni sessanta, che Erving Goffman e, soprattutto, Howard Becker, in piena lotta per l’emancipazione degli afroamericani, posero le basi per il rovesciamento di 200 anni di assunti criminologici. Sul solco dell’interazionismo simbolico si evidenziò come la criminalità fosse il prodotto di una costruzione sociale, alla base della quale si collocano le lotte sociali e le disuguaglianze di risorse. Gli insiders, ovvero i membri affluenti della società, decidono i comportamenti legittimi, etichettando come criminali le condotte, gli stili di vita e il modo di pensare degli outsiders. Il confine tra queste due categorie è labile, e consiste nel comportarsi diversamente secondo il contesto. E’ celebre lo studio di Becker sulle droghe, con la marijuana criminalizzata perché utilizzata dai jazzisti afroamericani e la cocaina che viene ignorata come sostanza pericolosa perché droga delle classi superiori. Anche Humphrey, nel 1970, scandalizzò i benpensanti statunitensi, quando mostrò come le sale da tè, in realtà, fungessero da case d’appuntamento per i padri di famiglia delle classi medie che volevano intrattenere relazioni omosessuali clandestine. Il problema dell’ ‘etichettamento’ consiste nella creazione di un circolo vizioso: chi è etichettato come criminale entra nel circuito penale e subisce un processo di sradicamento dal sociale. Finito di scontare la pena, l’etichetta gli rimane addosso. Non gli resta che vivere ai margini della società o abbracciare l’identità di criminale. Da questa impostazione partirono gli idealisti di sinistra, battendosi per la chiusura dei manicomi, per la fine dei trattamenti inumani, per l’introduzione delle misure alternative alla detenzione. Fu così che in Gran Bretagna nel 1969 si arrivò all’abolizione della pena di morte. Il governo laburista mostrava di recepire le spinte innovative provenienti dalla società. Sembrava l’inizio di una parabola libertaria ascendente, che si interruppe bruscamente pochi anni dopo. La crisi economica scoppiata nel 1973 si combinò coi troubles dell’Irlanda del Nord, con i riots degli immigrati afrocaraibici e asiatici di seconda generazione, coi movimenti giovanili dei punk e degli squatters. I laburisti non riuscirono a frenare il cortocircuito neo-liberale che si generò da questo passaggio epocale, finendone risucchiati. Il Winter of Discontent del 1979, coi sindacati a protestare contro il governo laburista e i soldati precettati a garantire i servizi essenziali, prepara il terreno a Margareth Thatcher, che taglia la spesa pubblica ma aumenta i salari e gli effettivi alla polizia. I realisti di sinistra, e Roger Matthews con loro, entrano in gioco proprio nel contesto della Gran Bretagna thatcheriana. L’idealismo di sinistra ha fallito, proclamano. Alla base del fallimento, starebbe la sua incapacità di trovare una soluzione al problema della criminalità, che comunque viene sentito dal pubblico, in particolare dalla classe operaia. Come mai? Matthews e compagni, sulla base di alcune ricerche condotte nelle aree operaie dell’East End londinese, rispondono che la classe operaia è la principale vittima della criminalità. Innanzitutto, perché la disoccupazione, le ristrettezze economiche, i tagli al welfare, spingono fasce sempre più ampie della popolazione di origine operaia a commettere crimini contro la proprietà, che siano occasionali o abituali. Furti, ricettazione, spaccio, sono appannaggio della working class, riguardo tanto agli autori che sotto l’aspetto delle vittime. In secondo luogo, la marginalità produce disgregazione sociale e induce a comportamenti distruttivi come il consumo di stupefacenti, le risse, le violenze domestiche. In terzo luogo, la rappresentazione dei media, combinata con la retorica thatcheriana di legge ed ordine e con la repressione attuata dalla polizia e dalla magistratura, si traducono in un’ulteriore vittimizzazione della classe operaia, che si trova ad infoltire le schiere del sistema penale. Infine, dal momento che la domanda di sicurezza proviene prevalentemente dalla classe operaia, bisogna trovare una risposta di sinistra, alternativa a quella dei governi Tory. I realisti di sinistra si spostano quindi dal versante delle cause della criminalità a quello delle soluzioni possibili, proponendo una politica di riduzione del danno. Questa definizione si adatta sia alle vittime che agli autori del reato. Preso atto dell’esistenza oggettiva della criminalità, bisogna attenuarne l’impatto. Per esempio implementando la mediazione penale, che riavvicini il reo e la vittima, o proponendo il “punishment in society”. Dal momento che il reo e la vittima sono entrambi di origine operaia, bisogna infatti tentare di sanare la lacerazione interna che la commissione di un fatto criminale produce. Inoltre, per un operaio che ha una famiglia e un’occupazione, una condanna a pene detentive si tradurrebbe in una perdita di reddito, status e legami sociali. Per questo vengono proposte misure alternative come l’affidamento in prova o la pena da scontare nei fine settimana, ad esempio per chi si è reso colpevole di lesioni e aggressioni nei pub. La riduzione del danno riguarda anche il consumo di stupefacenti, la prostituzione, la violenza di genere, con l’introduzione, ad esempio, delle unità di strada composte da medici, psicologi e assistenti sociali che assistano prostitute, tossicodipendenti o le donne vittime di violenza sessuale. Se da un lato la riduzione del danno lavora per sgonfiare l’ipertrofia del sistema penale, dall’altro lato, riconoscendo il crimine come un fatto oggettivo, finisce per riportare le cose al punto di partenza fissato in particolare dai positivisti. La dimostrazione pratica è costituita dalla politica criminale promossa dal governo Blair, che segna il ritorno al potere del Labour dopo 18 anni, con la consulenza attiva dei realisti di sinistra, Matthews incluso. Lo slogan blairiano è tough on crime, tough on its causes (duri contro il crimine e le sue cause), e viene immediatamente tradotto in pratica col Crime and Disorder Act del 1998. Questo provvedimento legislativo introduce l’ASBO, ovvero l’Anti Social Behavoiur Order, che consiste nell’irrogazione di ordinanze restrittive nei confronti di individui problematici che possono culminare nell’allontanamento coatto dai luoghi di residenza. Un’altra misura è quella dei Parenting Orders per combattere la devianza minorile, coi minori recidivi che possono essere sottratti alla potestà genitoriale, e l’introduzione dei Youth Offending Team, composti da poliziotti, giudici e assistenti sociali, a monitorare sulla devianza minorile. A fianco di queste misure, la riforma restrittiva del welfare con il welfare to work che sancisce l’abbraccio tra il sociale e il penale. Il welfare diventa così una misura caritatevole rivolta a una popolazione marginale sempre più ampia, da monitorare attraverso l’utilizzo di professionalità originariamente orientate alla riabilitazione, come psicologi e assistenti sociali, ma che gravitano all’interno di un contesto contenitivo o preventivo. In altre parole, ci troviamo di fronte a un positivismo post-industriale, dove all’universalità dei diritti si sostituisce il controllo preventivo e caritatevole dei soggetti a priori definiti “a rischio”. E le figure che dovrebbero presiedere al reinserimento sociale, in realtà, finiscono per agire in funzione della domanda di sicurezza dei settori garantiti della società garantiti. Il progetto dei realisti di sinistra finisce così per arenarsi sullo scoglio della precarietà economica strutturale, della segmentazione sociale spinta, con migranti e rifugiati a fungere da capri espiatori. Inoltre, pur partendo da presupposti non del tutto errati, il realismo di sinistra ha rimesso al centro della scena la criminalità di strada, portando acqua al mulino di chi fa della legge e dell’ordine la propria bandiera, sia a livello politico, sia sul piano del sensazionalismo mediatico. La conseguenza è quella di tralasciare la criminalità dei colletti bianchi: riciclaggio, corruzione, crimini ambientali, violazione della sicurezza sul lavoro, evasione fiscale. O di dimenticarsi dei ‘crimini di Stato’, come gli abusi di polizia, le stragi, la manipolazione delle prove. In quest’ultimo campo Tony Blair si è distinto; e sappiamo che l’intervento militare in Iraq ha infine provocato la morte di 300 mila civili. E regalato al Labour 10 anni di lontananza da Downing Street. A proposito di circoli viziosi.
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Gennaio 2021
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