PUNK A PALERMO
11/6/2018
di Giovanni Di Benedetto
Un tuffo al cuore: è questa la sensazione che provocano le fotografie di Fabio Sgroi a chi, come il sottoscritto, ha vissuto quella stagione, al tempo stesso mitica e reietta, che sono stati gli anni ’80, gli anni, per così dire, del grande riflusso. Il ciclo progressivo di lotte e di conquiste del ventennio precedente si era inesorabilmente e drammaticamente concluso, sembrava restassero solo macerie e una grande e rampante solitudine. Eppure, in quel tempo oscuro, qualcuno tra chi aveva quindici o venti anni sopravviveva, provava, anche se in forme acerbe e inesperte, a porsi domande, resisteva tra le angosce giovanili, gli strapazzi e gli eccessi deliranti. In fondo, nel continuare a cercare c’era poco da perdere e, certo, la rassegnazione non appartiene a tutti. La mostra fotografica di Fabio Sgroi si intitola Palermo 1984-1986, Early works e rimarrà aperta dal 6 al 18 Giugno al Dom art space, in Piazza Giovanni Meli, per l’appunto a Palermo. Si diceva, più sopra, di un’atmosfera ribelle: dagli scatti in bianco e nero di Sgroi risuona una precisa attitudine, traspare una, riconoscibilissima a chi scrive, resistenza disperata e creativa ad un tempo, uno sforzo di ricerca quasi sovraumano, dissipativo di energie ma carico di vita e emozione. Sembra quasi di cogliere la sopravvivenza di quella pulsione contestataria che aveva animato il mondo giovanile fin dagli anni ’60 e che, di fronte al principio di realtà personificato dalla legge del Padre, di per se stessa arbitraria e autoritaria, sceglieva il diritto alla protesta per garantirsi l’accesso al godimento assoluto. Da qui, e gli scatti fotografici sono quanto di più eloquente possa esserci, lo svacco ai giardinetti con l’immancabile mangianastri, il rito pagano e fraterno dei concerti le sere d’estate, la balorda sconcezza di una certa promiscuità collettiva, la perturbante e dissacrante provocazione contro il banale perbenismo piccolo-borghese, l’ottundimento narcotizzato al ritorno da certe lontane avventure su vagoni ferroviari più simili ai carri bestiame. Di questo sentire, a dire il vero poco comune, la musica era sintesi massima. Ed è come se dalla quasi totalità delle fotografie contenute nel catalogo della Yard Press (2018) emergesse il raro dono di un soave sottofondo sonoro. Punk, post-punk, new wave, il fatto è che le foto hanno un respiro largo, internazionale, potrebbero essere state scattate a Londra o a Berlino, piuttosto che a Palermo. A volte i balordi figuri ritratti nelle immagini danzano ma, anche quando assumono posture più statiche e quiete, i ritratti umani appaiono quasi caricarsi, per motu proprio, di un tumulto ritmico in grado di risalire indietro fino a riecheggiare i latrati punk di Johnny Rotten dei Sex Pistols, il combat rock dei Clash di Joe Strummer o le sonorità, più o meno darkeggianti, dei Siouxsie and the Banshees. Potenza del ricordo e, ancor più, magia delle foto che lo evocano. Come se i linguaggi, soprattutto quelli musicali, non fossero il sintomo di una più generale atmosfera intessuta di valori e di culture antagonisti. Ma non è solo il richiamo nostalgico per un passato che rischia di assomigliare a un feticcio macabro irreversibilmente spazzato via, all’indomani del crollo del 1989, dalle palline colorate e dai giochi d’artificio della vittoriosa controrivoluzione capitalistica al seguito del successo a stelle e strisce della tecnologia digitale, non solo quella militare. Se penso al fatto che Sgroi avrà dovuto riesumare ingranditore, spirali e pozioni chimiche per sviluppare e stampare i negativi in bianco e nero quasi mi commuovo. L’ingenua durezza di certe posture giovanili, da un certo punto di vista, ricorda più il candore innocente della vita selvaggia, ma anche schietta e genuina, a cui ci si vuole aggrappare con le unghie e con i denti, piuttosto che l’ipocrita luccicore e i perfidi bagliori dell’apatica mercificazione totalitaria dei giorni nostri. Il punto è che, saranno stati gli ardori giovanili o non so cosa, in quei catastrofici anni ’80 sembrava si respirasse un dirompente eccitamento per il futuro e, di conseguenza, per ciò che non era ancora. Come se in quegli anni le giovani generazioni potessero ancora permettersi il lusso di immaginarsi il domani come differente dal presente e quindi, anticipatamente, rifuggire dalle tristi passioni del contemporaneo, con tutto il loro carico di cinica tossicità: competizione, arrivismo, individualismo sfrenato, aggressività, egoismo narcisistico, inimicizia, rancore e chi più ne ha più ne metta. Al riguardo, si veda il consistente numero di fotografie nelle quali compare il gesto solidale dell’abbraccio come cifra della vitale natura umana, dell’essere in comune, dell’affratellamento, della comunità. E, ovviamente, ad accompagnare il tutto, l’ebrezza dionisiaca dell’alcol a fare da naturale complemento. Musica, amicizia, convivialità ma anche rabbia, sconforto, straniamento. Una miscela esplosiva che, pazza idiozia si direbbe oggi, ambiva a funzionare come critica militante dell’età del consumismo oramai dominante e, al contempo, come dispositivo sovversivo del cambiamento. Di fronte all’imperativo thatcheriano che, proprio in quegli anni, ammoniva a rinunciare a pensare alternative al capitalismo, si ergeva una piccola schiera di fanatici esistenzialisti che rivendicava spazi di autonomia e libertà. Oggi tutto questo suona stonato, e per più ragioni. La più importante delle quali può essere rintracciata nel potente e mortifero movimento di introiezione, da parte dell’inconscio collettivo, dell’immaginario consumistico e mercificante fondato sul profitto. Ma allora si credeva ancora nelle potenzialità prefigurative e proiettive di un mondo diverso, più umano, più sobrio e più eguale. È proprio vero, il capitalismo occupa tutta la scena del pensabile e immaginare possibili mondi diversi e alternativi è quasi impossibile. Le semplici pose estetizzanti o le illusorie scorciatoie evocanti metafisiche ribellioni virtuali, o peggio ancora, da talk show televisivi, non sono più sufficienti. Probabilmente non lo erano già negli anni ’80, ma ancora di più oggi sappiamo che, se è necessario riformulare un progetto complessivo di cambiamento, per realizzarlo sono indispensabili la consapevolezza che anche il cliché della protesta fine a se stessa finisce per essere un ingranaggio della società dello spettacolo. Tuttavia, di fronte alla autentica sofferenza di soggettività sempre più frantumate e sussunte all’interno dei circuiti di controllo e intrattenimento del capitalismo globalizzato, il ricordo incredulo di quegli anni, attraverso la rievocazione operata dalle immagini fotografiche di Sgroi, può servire a riattivare, come se si realizzassero per la prima volta, vecchi gesti di rivolta e contestazione, azioni che abbiano la forza di squarciare quel velo di straziante apatia edonistica e di angosciante inedia narcisistica che contrassegna le generazioni cresciute, secondo i vaneggiamenti di Fukuyama, nel tempo della fine della storia e dell’eterno presente.
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