PRO O CONTRO LA SCUOLA PER TUTTI
5/12/2017
di Angelo Foscari
“In questo dato popolo, in questo dato momento” “Più tardi si è capito che non c’era sconfitta, dalla rivoluzione era partito un nuovo corso della storia – il prevalere delle idee e delle correnti favorevoli o contrarie ai progetti rivoluzionari diventava secondario rispetto all’emergere di quelle correnti e agli esiti molteplici e nuovi del loro scontro.” Edoarda Masi, Il libro da nascondere (1985), p.165 La cultura vera non l’ha ancora potuta guardare in faccia nessuno, se questa, come dice la Scuola di Barbiana in Lettera a una Professoressa, “è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola” [1]. E non s’è neppure fatta vedere un granché, questa cultura vera, nei dintorni delle aule scolastiche di ogni ordine e grado: altrimenti potremmo adesso a buon diritto parlare di una Scuola (“l’atto e il compito dell’insegnare e l’atto dell’apprendere”, spiega il dizionario Palazzi) per Tutti. Orbene, la scuola oggi non è per tutti, non sono patrimonio generale i suoi frutti prelibati, ad esempio ciò che si studia in quell’“esempio di eccellenza italiana” che è il Liceo Classico, vigorosamente difeso da Nicola Gardini – al culmine di un grande dibattito svoltosi due estati fa sul domenicale del Sole 24 Ore[2] – come “l’esperimento di pedagogia più geniale e più fruttuoso che un governo occidentale abbia mai messo in piedi”. Evitando consapevolmente la questione dell’effettiva prelibatezza del greco e del latino (e dunque quella più grande del “come” dovrebbe/potrebbe essere, questa scuola di/per tutti), mi limito a osservare come ancora oggi meno di un diplomato al liceo classico su 10 sia figlio di operai e impiegati[3], per tacere del percorso a ostacoli che si para davanti agli altri figli di operai e impiegati che incautamente pensassero di seguire l’esempio di quel 10% scarso. Certo però che in quel 1967 in cui la Libreria Editrice Fiorentina pubblica Lettera a una Professoressa la percentuale di cui sopra era di molto inferiore, sicuramente più vicina al’1% che al 10. Da allora qualcosa è, incontestabilmente, cambiato. In questo processo di cambiamento il libro collettivo – scritto dai ragazzi del borgo montanaro toscano, con la “regia” di Lorenzo Milani – è stato senz’altro uno degli arieti che sono serviti a sfondare la porta d’accesso alla cittadella della cultura, abitata fino allora da una piccola minoranza. Di questo libro Vanessa Roghi ha scritto adesso la “storia culturale”: dalle sue premesse storiche, alle accese discussioni suscitate “in tempo reale”, passando per l’influenza sul De Mauro delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica (1975), fino alle odierne polemiche sul “donmilanismo” che avrebbe rovinato la Scuola Italiana. Questo approccio di rezeptionsgeschichte, oltre a mettere capo a un volume di una ricchezza straordinaria – io vi ho appreso qualcosa di nuovo ogni 2-3 pagine –, risolve in partenza il problema principale di chi, nel 2017, intenda nuotare un’altra volta nel fiume della Lettera: quello della citatologia di Barbiana. Frasi indimenticabili e sovente di un’attualità in potenza bruciante, ma che per esser state ripetute milioni di volte al di fuori di ogni contesto vuoi storico vuoi di precisa e circostanziata polemica, suonano oggi un po’ smussate. E di bellissime frasi “di Don Milani” – lo sappiamo – sono lastricate le pagine dei libri di Matteo Renzi. Per Roghi tuttavia il problema non si pone, dato che le celeberrime evergreen (scomodo soltanto la più bella di tutte: “Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.”) sono qui solo alcune delle pallottole che volano in uno spettacolare conflitto a fuoco ideologico lungo 50 anni: pro e contro Barbiana, pro e contro la scuola di massa, pro e contro il summenzionato “donmilanismo”. La logica secondo la quale Roghi seleziona e monta quanto è stato scritto da, intorno a, dopo e contro Barbiana è stringente, efficacissima: e quando l’autrice si decide infine a dire “io” l’effetto è simile a quelle scene dei film western in cui un personaggio rimasto fino a quel momento ai margini dell’azione, nei recessi di una casa, imbraccia d’improvviso il fucile e contribuisce alla sparatoria dalla parte dei “buoni”. Qualcosa è cambiato, si diceva. L’Italia di 100 anni fa, come lapidariamente scrisse Salvatore Di Benedetto, era un posto dove “niente era gratuito”[4]. L’Italia di 50 anni fa – quella della Lettera – era un posto dove, sulla scorta del famoso Articolo 3 della Costituzione, una serie di cose erano diventate gratuite: ma il viaggio necessario a raggiungere la bancarella dove si distribuiva la roba gratis non era a sua volta gratuito: c’era un biglietto da pagare, e la tariffa era salata. La Lettera parla sì della qualità (ora buona ora cattiva) di quanto distribuito dalla bancarella in questione; e di com’è fatta e di come potrebbe essere fatta, organizzata, questa bancarella; ma parla moltissimo anche del viaggio, del biglietto da pagare, della tariffa. Alla base e al centro del libro c’è, fuor di metafora, la lotta di classe[5], sul piano anche “strettamente” economico oltre che ovviamente su quello politico e su quello ideologico. La lotta di classe viene prima della pedagogia e comanda su di essa. Se così non fosse, ho il sospetto che della Lettera si seguiterebbe sì a parlare, ma molto meno. E proprio in questo senso ha ragione Edoarda Masi (citata a p. 151) nel dire che Lettera a una professoressa è fondamentalmente “un fatto”, è “libro come azione pratica, che produce e induce comportamenti nuovi”: è insommaprendere la parola (da parte di quelli che fino a quel momento erano gli “scafazzati” dalla vita e dunque, ça va sans dire, dalla scuola) e parimenti “agire sulla parola per cambiare i rapporti di forza” (scrive Roghi a p.76). Proprio perché il gioco di ruolo squadernato sul tavolo si chiama Lotta di Classe (ed è un destino, non una scelta) ogni indicazione pedagogica specifica non potrà che dipendere in ultimo dalla congiuntura determinata del conflitto sociale. Di questo Milani era pienamente convinto, e protestava contro la pretesa di fare della Lettera “un trattato di pedagogia pastorale con valore di legge per tutte le latitudini e circostanze (…) Se ognuno avesse letto il libro con attenzione si sarebbe accorto che tutto questo vi è già chiaro perché accanto ad ogni affermazione m’ero dato cura di aggiungere: in questo dato popolo, in questo dato momento” (cit. a p.193; corsivi miei). Ciò non significa che l’esperienza di Barbiana non sia anche una pietra miliare nella storia concreta della Pedagogia, o che da essa non sia possibile o utile tirar fuori e sistematizzare parecchio a livello teorico (in un senso analogo a quello della frase ripetuta dai giocatori di scacchi: “la teoria è la pratica dei maestri”): cosa che è stata puntualmente e giustamente fatta. Incasellare però rigidamente la Lettera nel campo disciplinare delle Scienze dell’Educazione è in tutta evidenza un’assurdità, che vieta oltretutto di riconoscere come la vera grandezza – e dunque il valore di esempio – della figura di don Lorenzo sia stata quella di farsi in primo luogo leader politico (nel senso più alto che si possa attribuire a queste due parole, e contro quanto ebbe ad affermare Fortini, cfr. Roghi alle pp.135-36) e in secondo luogo – durante la gestazione del libro vero e proprio – maestro maieutico di scrittura, come puntualmente mostrato e argomentato da Roghi. E, “in un tempo in cui ogni esperienza collettiva è guardata con sospetto e supponenza” (Franco Lorenzoni, citato a p. 196) va anche detto esplicitamente che la Lettera di Barbiana è uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento, il cui caustico nitore ha avuto a conti fatti un impatto pari a quello – per fare un solo esempio – dei romanzi e racconti di Alan Sillitoe nella letteratura inglese degli stessi anni. Scrittura di gruppo e non di finzione sul Mugello; e invece l’irrompere di una, individuale, “voce” proletaria nella narrativa “alta” a Nottingham, si osserverà: ma il paragone resta calzante e viene naturale, non solo per la rispettiva sapida epigrammaticità (“La scuola sarà sempre meglio della merda”; “Don’t let the bastards grind you down”) ma anche per la cosmico-storica capacità, in entrambi i casi, di sconvolgere l’orizzonte d’attesa dei lettori/spettatori: come tanti non riuscivano ad accettare che a scrivere la Lettera fossero stati effettivamente i ragazzi (cfr. pp. 193-96; e passim), così, all’opposto, Goffredo Fofi non immaginava che il Tom Courtenay protagonisti di Gioventù, amore e rabbia non venisse “dalla strada” bensì dal RADA[6]. Proprio perché si tratta fondamentalmente di un libro di politica nuova e di letteratura nuova – e non di un trattato scientifico – i vari ragazzi vi affermano anche cose contraddittorie (del tutto vano sarebbe cercare di ricostruire una puntuale “dottrina di Barbiana”); e raccontano di esperienze culturali extracurricolari, come l’apprendimento del famoso, “orribile cockney… che non serve negli uffici”[7] ma serve a solidarizzare con i fratelli inglesi e a “fare classe”. Donmilanisti immaginari “…non rivedendo e criticando la pura scoperta della lotta tra le classi come motore della storia… la riduzione della storia stessa… ad un teatro di pupi, in cui il povero affronta il ricco, il servo affronta il padrone, il Gulag opprime l’individuo, sempre uguali a se stessi…” Lucio Magri, 1977[8] Nel 1975 (ben 42 anni fa; ma gli 8 anni trascorsi dal libro di Barbiana “parevano” – nel mondo tutto nuovo della scuola di massa – come minimo 80!), con un movimento operaio e democratico ancora fortissimo (e tanti sogni ancora “dietro l’angolo”), la controffensiva ideologica rivolta alla scuola inclusiva, alla scuola (orrore!) “politicizzata”, veniva condotta con raziocinio, non vis sed saepe cadendo: e la voce narrante del fortunato “diario-pamphlet”[9] scritto da Vittoria Ronchey, Figlioli miei, marxisti immaginari, come interlocutore privilegiato non si sceglie il proprio cane bensì Maria Paola, la collega “gruppettara” (serissima sperimentatrice e protettrice degli studenti tardo-contestatori) legittimandone pertanto il punto di vista che pure non condivide. Altri tempi: eppure anche allora, al di là delle formulazioni letterali di un testo ricco di acume e di ironia che non si riesce a immaginare prodotto dall’“anti-donmilanismo” odierno, non meno importanti e rivelatrici furono le reazioni suscitate dal libro-evento: da Berlinguer (Enrico) che lo cita con approvazione alla Camera dei deputati (e qui bisognerebbe pur domandarsi chi sta facendo “egemonia”, dato che – con tutti i meriti del libro – il problema di fondo di Ronchey è pur sempre di individuare “nuovi criteri” di selezione) al critico della Civiltà CattolicaFerdinando Castelli S.J., in preda ad un attacco di mastrocolite avanti lettera[10]. Eppure Barbiana e Don Milani in quel pamphlet non vengono mai citati, cosa in sé degna della creazione di una nuova categoria dell’Angoscia dell’Influenza di Harold Bloom; o, più semplicemente, il fatto è che l’inserimento definitivo di Don Milani tra le icone della contestazione dovrà attendere ancora un paio d’anni, con la pubblicazione dell’Agenda Rossa 1978 (Roghi, pp.150-1). Resta il fatto che di scuola si parla in maniera molto differente nel 1967, nel 1975 e al giorno d’oggi, soprattutto perché la lotta di classe fuoridalla scuola presenta nei tre suddetti periodi caratteristiche per l’appunto molto differenti (giusta l’avvertenza di Lucio Magri in epigrafe a questo seconda parte della recensione). Ad ogni buon conto, Vittoria Ronchey, en attendant i nuovi criteri, accettava senz’altro il fatto compiuto della scuola post-fanfaniana e si poneva il problema di istruire le “masse dell’obbligo”: è quello – ancora per un po’ – un periodo in cui i ragazzi di Barbiana e tutti quelli come loro possono fare un tratto di strada in compagnia della parte più moderna di una classe dirigente che sa benissimo che il “neocapitalismo italiano” – così veniva chiamato – ha bisogno di “aggiornare” la cultura di milioni di persone, in un paese che ancora 20 anni prima era prevalentemente contadino[11]. Oggi siamo davvero in un altro mondo: il neoliberismo all’italiana ha spostato le porte e modificato le regole del gioco: non intendendo accollarsi i costi della riproduzione culturale di milioni di portatori di forza-lavoro, sul menù della mensa vuol trovare soltanto piatti di basica alfabetizzazione (per la formazione specialistica necessaria “a competere” verrà aperto quanto prima – si dice – un “ristorante tematico”…). Dinamiche di fondo che hanno delegittimato la scuola ben più del “caos” sperimentatore paventato dai nemici della “massa”, di ieri e di oggi. E se dopo Barbiana “niente è più stato come prima”, non per questo tutte le conquiste di questi ultimi 55 anni sono definitivamente al riparo. Al contrario, la Buona Scuola è forse la prima riforma esplicitamente, dottrinariamente “anti-milaniana” (tante contro-riformine, in passato, lo sono state implicitamente e pragmaticamente): e non si accontenta nemmeno di fare “parti uguali fra diseguali”, ma le fa proprio diseguali, nel momento in cui dispone 200 ore di alternanza scuola-lavoro per i licei e 400 per tecnici e professionali. “Vediamo un po’ a chi giova che la scuola sia poca”: ed è un fatto che lo stesso quotidiano confindustriale, mentre dava vita e spazio sul supplemento culturale all’appassionata e appassionante discussione sul futuro del liceo classico di cui si diceva prima, sulle proprie pagine “normali” dava per scontato che proprio l’alternanza scuola-lavoro fosse il punto meno controverso e più meritorio della riforma renziana. Non che a sinistra o nella CGIL si siano levate chissà quali voci dissenzienti, del resto: o forse ero distratto io, dato che l’unica testata che ricordo sollevare la questione è stata nientepopodimeno che la statunitense Jacobin[12]! Intorno ad alcune delle questioni del presente debbo forse misurare una distanza da Roghi, che a p. 206 traccia una “linea don Milani-De Mauro-Berlinguer [Luigi]” all’insegna del riformismo: mi pare difficile crederci, al di là del dato che De Mauro certamente, in periodi assai differenti, si è interfacciato (scusate la parola) con il primo e con il terzo. Qui però occorrerebbero competenze specifiche che non posseggo e, nel domandare agli “addetti ai lavori” se non sia possibile individuare anche una “linea” Berlinguer-Moratti-Renzi, passo e chiudo non dopo aver caldamente raccomandato la lettura della Lettera sovversiva, dato che nei buoni libri sulla scuola si parla soltanto di scuola; negli ottimi libri sulla scuola – come questo qui – si parla anche d’altro. Vanessa Roghi, La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole. Laterza, 245 pp. , euro 16. [ringrazio Giovanni, Ida e Tommaso per le loro osservazioni su una prima versione del pezzo] Note [1] Scuola di Barbiana, Lettera a una Professoressa, p.105. [2] http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-08-26/scuola-modello-l-occidente- [3] Come spiega Cristina Da Rold, http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/03/16/news/la-scuola-superiore-e-ancora-un-fatto-di-classe-sociale-1.297281 [4] In Dalla Sicilia alla Sicilia, Enzo Sellerio editore, 2008. Di Benedetto (1911-2006) è stato un partigiano, poi deputato del PCI e a lungo sindaco di Raffadali. [5] La cosa è stata espressa nei suoi termini esatti da Antonio Vigilante: “c’è da aggiungere ancora qualcosa per non fraintendere don Milani. La praxis che realizza la fede non è un generico mettersi al servizio dei poveri, né un mettersi al servizio dei poveri educandoli. La Chiesa fa da tempo entrambe le cose. La novità di don Lorenzo consiste nel fatto che questa prassi è una prassi politica, non un’azione caritatevole. Non è il gesto benevolo con il quale il membro di una istituzione che da secoli giustifica e fonda l’oppressione dei ricchi sui poveri… ma è il gesto di rottura di un prete che insegna ai poveri che sono oppressi dai ricchi, e che devono liberarsi da questa oppressione combattendo i ricchi. Ecco le parole di don Lorenzo durante un incontro con alcuni direttori didattici: ‘io baso la scuola sulla lotta di classe. Io non faccio altro dalla mattina alla sera che parlare di lotta di classe. E la scuola funziona perché io faccio soltanto questo discorso’. E al direttore didattico che gli fa osservare scandalizzato che quelli sono ‘concetti marxisti’, risponde rivendicando il senso cristiano di quelle parole: ‘Vi parlo da sacerdote perché oltretutto io sono più prete di voi. Io sono prete, se ve lo dico io, si può dire’”. http://www.glistatigenerali.com/religione/don-milani-il-papa-e-la-lotta-di-classe/ [6] Come raccontato in Più stelle che in cielo (1985), p. 190 [7] Lettera a una professoressa, p.131. [8] In Potere e opposizione nelle società post-rivoluzionarie, p.190 [9] Così lo definisce F.Castelli, https://books.google.it/books?id=CIzNAAAAMAAJ&pg=PA579&lpg=PA579&dq=%22figlioli+miei+marxisti [10] Ibidem [11] Gino Martinoli, direttore generale della CGE, affermava nel 1961: “La scuola italiana non ha saputo reggere il passo coi tempi. Noi facciamo in Italia uno spreco d’intelligenze inaudito. Più dell’85 per cento della nostra popolazione non va oltre l’obbligo scolastico (…) La scelta delle intelligenze migliori resta limitata al rimanente 15 per cento di giovani i quali proseguono gli studi…ma anche questa scelta limitata non è affatto compiuta in base al merito, ma prevalentemente in base al censo (…) qualunque riforma della scuola fatta oggi non può dare risultati che tra 15-20 anni. Questo, secondo me, è un ostacolo serissimo al proseguimento degli attuali ritmi di sviluppo economico” (in Eugenio Scalfari, Rapporto sul neocapitalismo in Italia). Per Martinoli la selezione deve pur sempre avvenire, ma a partire da una base di partenza immensamente più ampia, e il suo discorso “meritocratico” contesta però la logica censitaria che era sottesa alle Scuole di Avviamento, abolite un anno dopo dal governo di CentroSinistra. [12] Sia pure per bocca dell’inglese, romano d’elezione, David Broder: https://www.jacobinmag.com/2015/06/italy-communist-party-tsipras-list-spinelli/
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