di Marcello Benfante
“Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo” Anna Maria Ortese, Corpo celeste “Le piccole Persone” (Adelphi, 2016) di Anna Maria Ortese è un libro prezioso, sebbene per lo più costituito da testi occasionali oppure non definitivi, perché consente di mettere a fuoco uno degli elementi basilari del pensiero e della poetica dell’autrice dell’Iguana e del Cardillo, ovvero ciò che potremmo definire, forse riduttivamente, il suo animalismo. Si tratta di trentasei scritti, quasi sempre brevi, di cui solo tredici editi, benché mai finora apparsi in volume. Gli altri ventitré sono stati invece trascelti dalla curatrice, Angela Borghesi, che firma anche l’interessante postfazione, dai documenti del Fondo Anna Maria Ortese dell’Archivio di Stato di Napoli. Il risultato di questa apprezzabile operazione di recupero e di selezione tematica è una silloge, per quanto eterogenea, densissima di spunti e materiali indispensabili per un approfondimento della filosofia ecologista (ma anche qui s’avverte subito che la definizione è approssimativa) della Ortese, della sua tormentata dimensione spirituale, nonché della sua attività sul fronte giornalistico ed etico-politico. Il volumetto, ideale complemento minore dell’imprescindibile “Corpo celeste” (Adelphi, 1997), si compone di due parti: una raccoglie scritti di taglio più teorico e caratterizzati da una maggiore ricerca di approfondimento; l’altra è invece costituita da testi più militanti, concepiti a caldo con un’urgenza polemica che spesso si traduce in vere e proprie invettive. Invettive, soprattutto, contro l’ignavia degli intellettuali, contro i pregiudizi del cattolicesimo (con rare eccezioni francescane), contro l’Italia, “inferno degli animali”, e la Spagna con le sue infami tauromachie, contro l’ostentazione dei corpi squartati nelle macellerie e l’orgia carnivora delle festività consacrate, contro la “ferocia e mollezza” dello spirito consumista o l’incapacità di provare ammirazione per la natura. Non per questo, tuttavia, ne risulta una sostanziale discontinuità tra le due sezioni, sebbene vi si possano riscontrare talune incongruenze, peraltro poco significative, che la stessa curatrice individua nel suo commento e che d’altronde sono ovviamente attribuibili al carattere appassionato e veemente di certi interventi scaturiti da fatti di cronaca esecrabili contro cui l’autrice si scaglia, per così dire, a testa bassa. D’altronde, quello di Anna Maria Ortese non è un pensiero sistematico, ma piuttosto un ribollente crogiuolo di sensazioni e intuizioni, esperienze e visioni, percezioni misteriose e immediate. Un insieme di idee e posizioni morali che tuttavia non può ricondursi a una semplice emotività, ma ha invece una fondamentale coerenza. Forse il solo punto su cui l’orientamento della Ortese sembra realmente oscillare (tra ripudio e redenzione) è quello relativo all’uomo, alla sua essenza e al suo ruolo. Negli scritti più ponderati (e quindi in un certo senso più attendibili) la Ortese si pone, rispetto a questa centrale problematica, nei termini di quello che si potrebbe definire un umanesimo integrale e segnatamente animalista (1). Il suo è un paesaggio animista e insieme indecifrabilmente antropomorfico dove con folgorante epifania “un albero ci si mostra improvvisamente umano, stanco”. Ma, in certi attacchi più indignati e come sopraffatti dal dolore, il j’accuse assume toni e modi di una misantropia implacabile. Almeno, a una prima lettura e a un’immediata percezione. D’altra parte, lapalissianamente, ogni discorso umano è rivolto agli uomini. Li considera e coinvolge necessariamente. Ma non è questo il punto, soprattutto laddove il grido della Ortese in soccorso degli animali (o delle stelle) è più disperato e sconsolato. Il nodo cruciale è invece il discorso sulla fratellanza (che peraltro è un discorso tipicamente italiano, essendo il nostro paese storicamente refrattario a questo tema, al punto che perfino Pinocchio, “che è il più famoso italiano giovane di tutti i tempi, non ha fratelli”). È opportuno però giungervi attraverso la definizione del concetto di Persona, che campeggia su tutto, a partire dal titolo stesso della raccolta. Come spesso usa fare in questi e altri scritti, Anna Maria Ortese prende le mosse da un aneddoto personale che le offre lo spunto per una trattazione più distesa. Leggendo un racconto di Natalia Ginzburg, “Borghesia” del 1977, la Ortese rimane colpita dall’uso insolito della parola “faccia” riferito al musetto di un gatto. Il particolare le pare indicativo di un atteggiamento di rispetto che riconosce nel gatto un essere equiparabile all’uomo, cioè una persona. Anzi, un fratello. “L’uomo, infatti, riconoscendo che anche gli animali hanno una faccia (due occhi, spesso supremamente belli e buoni, naso, bocca, fronte), ammette implicitamente che gli animali sono suoi fratelli”. Sono creature che “quanto lui partecipano del mistero e il dolore e il cammino della vita”. Compagni di strada e di sofferenza che tuttavia non possono rivendicare alcun diritto. Sono un “immenso popolo muto” costituito da una moltitudine di “piccole persone”. Piccole, non in un senso gerarchico, in un’accezione che si riferisce a una qualche minorità o inferiorità, bensì nel senso di un’oppressione subita da un tempo immemore, di una straziante negazione operata dall’uomo. Il concetto di persona implica l’io, l’individuo. Ma l’io implica l’altro, gli altri. L’io, per Ortese, è “tutt’uno con la diversità e lacompassione”. È quindi un concetto plurale di solidarietà tra i viventi. Che cosa interviene dunque a infirmare e inficiare questa fraternité ontologica? Il concetto di utile, soprattutto monetario, ovvero “l’inumano Denaro” assurto a divinità che annulla oggi legge naturale in nome di una logica di sfruttamento e di prevaricazione. A cui corrisponde la reificazione di tutte le anime viventi (i subumani) che non dispongono di denaro e che pertanto sono relegate in un “inferno” che l’uomo “ha realizzato per i più deboli”. Ma così facendo l’uomo si è disumanizzato, è divenuta una nullità. Perché l’uomo, o è pietà e speranza – e raramente lo è – superando i suoi limiti, o è condannato alla negazione di se stesso, al pari di quella natura che ha ridotto ad “Allevamento”, a vita artificiale e meccanica. Se l’uomo pertanto è il distruttore per antonomasia, è però anche il soggetto principale di una residua speranza. “Nessuno degli animali che conosciamo ha affermato il principio della pietà, come l’animale-uomo. La natura conosce soltanto il principio dell’amore in quanto partecipazione di un godimento, e davanti al dolore ritorna indietro”. Solo l’uomo può superare i limiti dell’amore, insieme a quelli del dolore e della morte, per mezzo di una sua virtù, ancorché quasi sempre disattesa, di compassione. In ciò sta forse il cristianesimo non cristiano di Anna Maria Ortese (2). E il suo umanesimo misantropico (3). La storia dell’uomo è certamente una “storia di violenze, di sopraffazioni, di sangue”, ma è pure la storia di un “ente” che vive nella natura e di uno “sguardo” che penetra profondamente nella natura “per conoscerla, giudicarla, e, infine, compatirla e rifiutarla insieme”. Questa ambiguità umana spiega la ragione dell’apparente oscillare della Ortese tra posizioni opposte di inclusione e rigetto dell’uomo dall’armonia, ancorché “devastante”, della vita. Per l’uomo, d’altronde, non esiste altra via di salvezza se non quella della solidarietà e della compassione nei confronti di tutto ciò che palpita, di un atteggiamento di “rispetto e tenerezza” nei suoi confronti. E il fatto che egli non la percorra che in rarissimi casi, quest’erta difficile e impervia, non significa che non la possa e non la debba percorrere. “Non è possibile che un uomo il quale ami veramente l’altro uomo, cioè tutti gli uomini, e dica di lavorare per essi, svolga questo lavoro con tutta la delicatezza e la profondità necessaria, se il suo cervello non ha mai avvertito la vastità e vita delle cose che sono intorno all’uomo, e che, siano alberi o animali, si chiamano però Natura; se della Natura ha spavento, e quasi odio, e certo disprezzo, come sento da moltissimi uomini della nuova generazione”. Ne consegue che non è possibile amare l’uomo che non ama la natura, che ha cioè accettato la propria disumanizzazione. E purtroppo l’uomo si è arroccato nel suo gelido orgoglio intellettuale, meccanizzando il proprio rapporto con la natura fin quasi a essere del tutto rigettato dal suo ambito. Per redimersi da questo degrado, all’uomo non restano che tre principi riguardo alla vita, sia quella di un fiore o dell’umanità stessa: “attenzione, cura, venerazione”. Un compito improbo, forse talmente al di sopra dell’indole umana da giustificare gli sfoghi pessimisti della Ortese, il suo sconfortato sdegno. Non di meno un compito improrogabile che l’uomo non può delegare ad altri: “senza uomini non c’è vita possibile”. Si pone dunque una centralità vitale dell’uomo, anche se ciò si traduce in una desolata constatazione di costante sconfitta e umiliazione per le “piccole persone”. L’esperienza della Ortese, fin dall’infanzia, è in tal senso straziante. “Vidi sangue animale dappertutto, prima della guerra, sempre sangue e silenziose agonie. Mi misi presto, e per sempre, dalla parte di questi – uso la parola senza esitazione – martiri della vita. Gli animali perivano uccisi nelle case, di nascosto ma non troppo per i bambini attenti, le festività teologiche (la Nascita, la Resurrezione) erano precedute da lamenti e massacri”. Questa strage degli innocenti quotidiana, che non ha mai tregue, al contrario delle guerre tra gli uomini, insieme al disprezzo e alla mortificazione per la bestia schiavizzata, impone una scelta di campo. L’episodio, raccontato anche altrove, del carrettiere che sputa negli occhi del cavallo schiantato dalla fatica è per la giovanissima Ortese la soglia del non più tollerabile: “Non ho amato più gli uomini, da quel momento”. All’uomo che tradisce la sua missione non può essere accordato nessun rispetto, nessuna benevolenza: “No, non ho nessun reverenza per l’uomo incapace di ammirazione, di riguardo e di pietà per la terra e tutti i suoi figli”. Tuttavia anche questo terribile anatema non è totale né definitivo. Occorre intanto chiedere perdono per i delitti della propria razza, come fa la stessa scrittrice, al capezzale di un gattino ferito a morte dalla ferocia umana. Inoltre, schierarsi con chi sceglie la pace fra tutte le specie (“Avanti i paesi che non uccidono più, ma ammirano e amano. Essi soli possono non meritare la guerra, ed ergersi contro la guerra”). Infine, progettare una scuola “che formi le generazioni alla conoscenza della terra, e ai doveri dell’uomo verso tutta la terra”. Il che costituisce un preciso programma politico, fatto di pochi punti essenziali: pacifismo, non violenza, ecologismo, educazione al rispetto ambientale, non intesi come fattori riconducibili esclusivamente agli interessi umani, bensì come compito attraverso il quale si forgia ed eleva l’umanità stessa nell’ambito di una Natura salvata. “L’umanità si fa qui: e risiede nella giustizia e nell’amorosa cura e conservazione – da parte dell’uomo – di tutto il Pianeta e dei suoi umili figli”. Da un lato quindi l’uomo com’è, spregiato e sfigurato in tutta la sua empietà, e dall’altro l’uomo come dovrebbe essere. La frattura, lungi dal mostrare un atteggiamento schizofrenico, è in questi termini riassumibile e ricomponibile, benché in una prospettiva utopica, come un dualismo intrinseco all’uomo. “Dal giorno che ho cominciato a comprendere certe cose (ed è un giorno remoto, appartenente alla prima giovinezza), non ho più amato sinceramente l’uomo, o l’ho amato con tristezza”, confessa la Ortese. Il destinatario di questa disamorata commiserazione è in realtà l’uomo disumanizzato, privato di ogni valore. “Ma ho compreso che più l’uomo (e la donna) ignora le Piccole Persone, più indegno è di chiamarsi uomo, e micidiale è la sua autorità quando l’ha raggiunta, per gli uomini”. Chi, dunque, può chiamarsi uomo e riacquistare o conquistare la propria dignità, è colui che si oppone a questa autodistruzione ristabilendo un rapporto di fraternità con le Piccole Persone, con il mondo animale di cui è parte e cuore (a condizione che non rivendichi alcun primato). Se abbiamo eretto i macelli a “nostri altari” è perché “siamo iniqui, non umani realmente”. E tutto si spiega col fatto “che tante persone non umane governano il mondo”. Il “Non-Uomo, l’atroce Inumano che da gran tempo ci tormenta” risiede nella ricusazione del “primo dovere” della nostra specie: il riconoscimento delle “Piccole Meravigliose Persone”, del loro diritto a non essere asservite, perseguitate, insultate e divorate. Giacché l’uomo ha il suo fondamento esistenziale proprio in questo rispecchiamento nell’altro: “L’uomo è fatto di fraternità, quando si dice uomo si dice solo fraternità”. Disconoscere ciò significa consegnarsi non solo alla morte spirituale, ma addirittura a un totale annichilimento: “l’uomo senza compassione è nulla, è un fenomeno fisico che potrebbe cessare di essere, e non cesserebbe nulla”. Quella che la Ortese auspica è dunque una nuova umanità, che forse è il ritorno, vagamente platonico, a una coscienza che è “memoria” dei primordi, a “un’idea dell’uomo preesistente l’inizio dell’universo”. Il concetto di umanità, nel travagliato e sofferto discorso della Ortese, è sempre esposto al rischio dell’equivoco, del malinteso, dello sconcerto e del disagio (“non comprendo che cosa significhi la parola uomo, quando essa non esprima quella capacità di sentire anche il dolore e il diritto di qualsiasi altro vivente, o anima vivente”). E certamente, quando l’uomo è cieco davanti a questo dolore (anche psicologico) che infligge agli animali, allora “ha figura umana soltanto, ma uomo non è”. Allora, chi è l’uomo? Il “vero uomo”, s’intende. Cos’è? In cosa consiste il dilemma della sua doppiezza? Del suo consueto essere ciò che non è. In una retro-prospettiva temporale, “la storia dell’uomo si definirà, da sola, come una storia del male”, in cui l’uomo non pone limiti, etici o normativi, alla forza con cui sconvolge e opprime la natura. Oggettivamente, quindi, la vicenda umana, la sua evoluzione (o involuzione), la sua affermazione, vanno poste sotto il segno di una violenza e di una iniquità sistematiche ed essenziali. Come una “caduta”, da un “dove” arcano che solo la poesia può ipotizzare, un “lutto” nella Creazione, che si è convertita in distruzione e disperazione, inarrestabile morire. “Stupirò i miei lettori, e forse li scandalizzerò, affermando che, a mio parere, il nazismo non è affatto un momento storico, ma una dimensione immortale dell’uomo, e lo prova il fatto che, mancando le occasioni di esercitare il proprio potere su uomini inermi, lo si esercita a freddo sui figli inermi della natura”. Più volte la Ortese insiste sul parallelo tra la sorte degli ebrei nei campi di concentramento e sterminio e la sorte che quotidianamente degrada, detiene, sevizia e distrugge gli animali, li trasforma in prodotti industriali, li riduce a cose che hanno unicamente un valore commerciale. Il sadismo (e il nazismo) è quindi una costante imperitura nella storia umana. È la sua vertigine interiore. Il gorgo da cui si sente attratto e da cui viene inghiottito. “Prudenza, dunque, nel parlare di colpa. Essa è dentro, una tentazione eterna, è vertigine prima ancora che caduta”. La scaturigine d’ogni male è il “disprezzo per l’altro”. In ciò consiste il “terribile” e quel sadismo manifesto e osceno in cui si esprime “la sublimazione (mascherata) dell’indecenza umana”, come in certi riti sanguinari, quale per esempio l’uccisione del maiale. Pur macchiandosi del delitto “immondo” di provare ebbrezza e godimento nell’infliggere dolore ad altri esseri viventi (a partire dalla caccia, in polemica con Goffredo Parise) l’uomo, soprattutto il povero e l’indifeso, non è oggetto di un ostracismo totale. Anna Maria Ortese contesta radicalmente l’ideologia della supremazia umana, “il vecchio concetto mostruoso della sovranità dell’uomo su tutti i viventi di questo pianeta”. Arriva anche ad affermare (in un passo di terribile sconforto personale) l’inferiorità dell’uomo che, per sua “natura malata”, infligge sofferenze agli animali. Ma “un torturatore di cani non può avere nessun diritto a chiamarsi uomo”. Uomo è dunque tutt’altro, che esiste, mentre il non-uomo è l’inesistente. E ha una possibilità di salvezza, dalla vertigine e dalla caduta, dalla colpa e dal degrado, se realizzerà una concordia con tutti gli altri esseri viventi (“È risalire che occorre. E, se appena possibile, tutti”). Né d’altra parte alla Ortese pare che il dolore umano abbia meno valore di quello animale: “davanti al dolore fisico tutti gli animali sono uguali. Anche l’uomo è un animale, e il suo dolore e la sua paura valgono quelli di altri animali”. Bisogna però che smetta di bastonare la vita, di mettere al primo posto le esigenze del suo ventre, che ricorra a un’intelligenza “priva di orgoglio” sprigionata da una calma “sensibilità morale”. L’appello della Ortese è tutt’altro che vago, è un programma di attivismo per salvare il pianeta: “L’uomo si alzi in piedi, veda quanto ha rubato, infierito sulla natura, depredato e straziato – e come questa vita di vandalo lo abbia stremato. Si alzi a ricostruire la terra che non era sua, era dono di tutti, e solo allora – se avrà fatto qualcosa di buono per questa terra e per i suoi abitanti tutti – osi parlare dei suoi strazi”. È questa la responsabilità dell’uomo nei confronti dei suoi “fratelli minori” (come li definì Paolo VI “con tenerezza lombarda”) che altrove diventano “maggiori”, come a ribadire l’infondatezza di ogni gerarchia. Una responsabilità e un impegno morali, cioè di “solidarietà di tutta la vita con tutta la vita”. Un compito di rifondazione di una nuova cultura del soccorso e della fratellanza, dello stupore e dell’amore, della meraviglia e della pietà. Giacché “l’uomo senza conoscenza non è che un bruto”, seppure in cravatta. Cultura che può svilupparsi solo in un contesto di comprensione del territorio, che vive insieme alla vita che ospita, come un tutt’uno a cui dobbiamo rivolgere un indivisibile amore. In questa rinascita culturale e morale un ruolo importante dovrebbe essere svolto, ovviamente, dagli intellettuali, i quali però finora si sono mostrati latitanti e indifferenti, quando non addirittura conniventi con il male e del tutto indisposti ad assumersi colpe e responsabilità. “Molti nostri piccoli e grandi intellettuali sono, a questo problema (dolore e vergogna per il dolore inflitto), quasi naturalmente sordi”. Gli accorati appelli della Ortese sembrano loro un eccesso di sentimentalismo, di ipersensibilità, o comunque uno smarrire il senso delle proporzioni, la priorità di “ben altri problemi”. Quasi nessuno si sottrae a questi alibi ipocriti, soprattutto in Italia (dove spicca, per contrasto, l’anomalia di Guido Ceronetti). Nella visione della Ortese, invece, ogni problema, riguardo alla vita e al dolore, si tiene con gli altri e dovrebbe essere affrontato in questa sostanziale unità. A costo d’incorrere nell’accusa di fare retorica, lo scrittore ha il dovere di denunciare la “ferocia vandalica” dell’uomo e la purezza delle Piccole Persone. “E morire, oppure semplicemente lasciar cadere la penna senza averne mai parlato, sarà vergogna suprema per uno scrittore”. Ecco quindi la motivazione fondamentale di questo libro, degli scritti che lo compongono. Testimoniare un’istanza per la vita, per ciò che è piccolo e soffre a causa della protervia dell’uomo (ed è, questo, un discrimine così importante che la Ortese stessa si interroga sul senso della propria opera sulla base di esso). E all’uomo rivolge un monito terribile, tra Ovidio e Kafka, Pitagora e il Buddismo, affinché si ravveda e comprenda la coesione inseparabile della vita, il suo continuo divenire metamorfico. “Perché vostro figlio può diventare un cane, forse non ci avete mai pensato, e un cane forse sta già diventando un uomo – in qualche posto segreto – e voi siete – nei libri eterni della Natura – già sostituiti”. Il fascino di questa miscellanea, che unisce articoli più pragmatici a scritti suggestivi di più sottile trattazione, risiede proprio in certe enigmatiche considerazioni. Mai, comunque, nemmeno negli interventi più accesi e polemici, la Ortese si produce in discorsi di mera propaganda o proselitismo, non limitandosi a ribaltare quella “rete di insufficienze, di superficialità, di volgarità” tipiche di una pseudocultura fatta di slogan. Forse la fonte primaria d’ispirazione potrebbe individuarsi nel pensiero leopardiano (4). Ma si tratta di un Leopardi capovolto ed emendato. Il concetto leopardiano dell’indifferenza della Natura alla sorte umana viene ampliato a un livello cosmico: “Per l’Universo, l’uomo, e la terra, non esistono neppure”. Sicché l’uomo, nella sua cecità nei confronti di ogni altro essere vivente, che egli sfrutta e distrugge, travolge e strazia, non fa che agire in concordia con le terribili regole universali. “E vediamo a questo punto l’uomo – che non esiste per l’Universo inumano – allearsi con l’inumanità totale dell’universo in questo principio (o legge) che è proprio dell’universo: il più debole io – universo - non lo riconosco. ‘Il più debole, io, l’Uomo, non lo conosco!’ dice l’uomo, se non a proposito dell’universo, a proposito di altri uomini, animali, piante”. Oggettivamente convergenti e rassomiglianti, quindi, l’inumano dell’universo e l’inumano dell’uomo, quasi che il secondo fosse il rispecchiamento del primo. Ma nella sua violenza devastante, nella forza terribile con cui spazza ogni cosa, perfino le più orgogliose città e civiltà, l’Universo può improvvisamente schierarsi dalla parte dei più deboli, sconquassando o addirittura annientando le società basate sul potere economico e tecnologico. “Ed ecco l’Universo intero farsi alleato della Voce, dell’Anima Vivente – animale e uomo – che nel dolore infinito ha trovato di colpo la forza e la libertà di alzarsi contro il suo oppressore, e determinarne – con la sconfitta improvvisa del grado – la perdita di potere davanti alla Vita. Di colpo, il denaro non è più nulla davanti alla vita, né qualcosa è la legge dell’utile monetario”. Questo sovvertimento del determinismo economico ristabilisce, in linea di principio, un criterio di equità e giustizia il cui motto è “Non si tocca!” scritto sulla fronte di ogni creatura (sia essa animale o uomo) ossia un limite all’arbitrio e all’abuso dell’utile e del denaro. Tuttavia, ciò non è ancora un riscatto della terra, che necessita del concorso dell’opera umana. Non già nell’ottica della Ginestra leopardiana, ossia di una coesione sociale contro la bruta forza della Natura inclemente, seppure intrinsecamente donatrice di rigenerazione, bensì, come s’è visto, di solidarietà globale della vita con la vita, di federazione amorevole fra tutti gli esseri e lepersone. Cioè di una “religione della fraternità con la natura”, come quella testimoniata da un ragazzo inglese morto suicida perché non sopportava più il dolore inflitto agli animali, in cui la Ortese scorge “uno spirito celeste” capace di indicare “agli uomini le vie dell’umanità se vuole continuare a vivere”. In conclusione, l’apparato teorico della Ortese, evocativo e commovente, forse talora zoppica e s’inceppa, o magari talora appare fallace e contradittorio, ma una sua lettura più attenta e aperta restituisce al tutto un’ispirata organicità. E in ultima analisi ciò che davvero conta in questa sua arringa toto corde è che il pensiero animalista ortesiano (e torno a scusarmi dell’inadeguatezza di tale etichetta) sta alla base di un’opera senza pari, di splendida e struggente letteratura, che rimane una delle esperienze più alte della nostra narrativa, costituendo nel contempo la più appassionata perorazione dei diritti degli animali e di ogni essere vivente. Note
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