PIÙ CHE UN ROMANZO LA VITA MIA
22/9/2017
di Giovanni Di Benedetto
È notizia di questi giorni l’accordo fra due grandi gruppi della siderurgia mondiale, la Tata Steel e la ThyssenKrupp, per unire in un unico soggetto produttivo le loro attività in Europa. Si tratta di un imponente processo di concentrazione che dovrebbe fare del nuovo gruppo il secondo produttore di acciaio del mercato europeo. Un grande gruppo industriale con 48.000 dipendenti, che dovrebbe però prevedere anche la cancellazione di 4.000 di lavoro. In Italia la ThyssenKrupp è proprietaria dell’Acciai Speciali Terni, dove sono impiegati oltre 2000 dipendenti. Qui di seguito pubblichiamo una recensione dell’ultimo libro di Alessandro Portelli sulla storia industriale delle acciaierie di Terni. Di Alessandro Portelli avevo letto, parecchio tempo fa, L’ordine è già stato eseguito (Donzelli 2001), un libro monumentale di testimonianza civile e resistenziale, oltreché di riaffermazione della verità storica, sull’attentato di Via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine. Nelle scorse settimane estive sono incappato, scartabellando tra le novità editoriali degli scaffali in libreria, ne La città dell’acciaio. Due secoli di storia operaia (Donzelli 2017, pp. XII-449). Al centro dell’indagine è la città di Terni, il suo indissolubile legame con lo sviluppo prima, e il lento declino dopo, dell’economia industriale in Italia. Il libro si propone come la continuazione di altri due testi scritti nell’arco di trent’anni, Biografia di una città (Einaudi 1985) e Acciai speciali (Donzelli 2008). Con essi, scrive l’autore, condivide un’unità di luogo (la città di Terni, per l’appunto) e di metodo (la storia orale). L’autore tratteggia le vicende della classe operaia di Terni e dei suoi altiforni come un tutto storico che racchiude, in un toccante affresco sociale e politico, opposizione e proposta, protesta e progetto di una società nuova, più uguale e democratica. L’uso delle fonti orali in storiografia mette in gioco, attraverso il dialogo, la dimensione relazionale tra soggetti in carne e ossa, con i loro differenti vissuti e i loro diversi punti di vista. Ne scaturisce la possibilità di scardinare canoni e paradigmi disciplinari, per fare esplodere, in tutta la sua composita globalità, il simbolico racchiuso nell’esperienza dell’altro. Perché la narrazione orale, nell’ambivalenza che risiede nel condensare per iscritto il fluire dinamico del discorso, ha questo di bello, quello di essere non solo l’asettico resoconto dell’evento sollecitato dal campo di indagine dell’intervistatore ma anche l’improvviso baluginare del non detto, di ciò che, celato come non rilevante, non pertinente, o addirittura straniante, getta una nuova luce sull’insieme della storia. D’altra parte questa, anche quando presume di assumere i caratteri dell’ufficialità, rimane sempre il condensato della storicità delle vicende personali: “più che un romanzo, la vita mia” (12) ebbe a dire Giuseppina Migliosi, operaia nella fabbrica di iuta Centurini e nel lanificio Grüber di Terni. Sono stato subito attratto dal riferimento alle vicende secolari della comunità operaia di Terni, della città fabbrica del fordismo, come si sarebbe detto un tempo neanche troppo lontano, perché il racconto che viene elaborato dallo storico mi ha riconnesso alle travagliate vicende legate alle lotte che attorno al 2001-2002 non riuscirono a impedire la chiusura della Fiat di Termini Imerese. Per me, che sono stato in anni passati, per ragioni di lavoro, testimone privilegiato di quelle lotte e di quella sconfitta, è stato come ripiombare dentro una vicenda che, pur con le dovute differenze, avevo già vissuto. Come se non bastasse, pur nell’insignificanza del riferimento, mi piace ricordare, per di più, come la cittadina umbra sia legata ai miei ricordi adolescenziali, teatro di una fortunata partecipazione sportiva ad un campionato italiano di rotellismo; ero ragazzino, i primi anni ’80, ma tornai con il vivido ricordo di una città efficiente e pulita, ordinata e organizzatissima, come erano allora molte città del centro e del nord Italia amministrate da giunte guidate dal Partito Comunista. Il libro racconta, sulla base di una ricchissima raccolta di interviste orali che va dai nati di prima del 1890 a quelli del 1980, l’origine, lo sviluppo e il declino delle acciaierie di Terni, dal 1830 fino ai giorni nostri. La sagacia con la quale Portelli compone le testimonianze è unica, il senso del ritmo col quale viene montata la trama storica di vicende, insieme personalissime e collettive, sembra essere espressione di un sapere consumato e di una tecnica registica dalle cadenze cinematografiche. La storia della fabbrica si interseca, nel racconto di Portelli, con la storia della città, facendo emergere la componente operaia come componente sociale protagonista di lotte e conflitti. Dal tempo della stagione risorgimentale, passando per il rifiuto della prima guerra mondiale, l’occupazione delle fabbriche del biennio rosso, la marcia su Roma e la lotta partigiana di liberazione contro il nazifascismo. Dagli anni della ricostruzione a quelli della protesta che sfociarono nella contestazione del ’68, dalla stagione del riflusso e del grande freddo ai giorni nostri. Sullo sfondo, la transizione dalla società contadina, con il suo retaggio del latifondo feudale, le sue tradizioni e il suo ethos, alla società industriale con le sue conquiste in termini di benessere ma anche di egoistico consumismo e svuotamento emozionale delle coscienze. Ma dicevo dell’associazione, quasi automatica e inconscia, con la trama causale di eventi che sfociarono nella dismissione della fabbrica di Termini Imerese. L’accostamento, a circa quindici anni di distanza, è stato, per me, implacabile e rivelatorio. Una linea di produzione ferma assomiglia a qualcosa che muore, mi aveva allora raccontato, in una lunga intervista, un delegato sindacale metalmeccanico. Mettere all’angolo la centralità del lavoro operaio significava perdere competenze, saperi pratici e teorici insieme, tecnologia, orgoglio professionale. Tutto un patrimonio condiviso che non si edifica dall’oggi al domani. Dalle testimonianze raccolte da Portelli sembra emergere l’identica sensazione che il mondo del lavoro sia stato abbandonato a se stesso. E tuttavia, quasi inaspettatamente, l’autore riporta in più d’una occasione l’orgoglio di attori sociali che continuano a essere consapevoli del valore del lavoro come elemento che, oltre a essere zavorra di incarichi noiosi e ripetitivi, permette il riscatto sociale, si fa veicolo di cittadinanza e tramite di libertà. Ricordo ancora adesso come anche davanti i cancelli dello stabilimento di Termini Imerese si respirava lo stesso senso di appartenenza, lo stesso riconoscimento di quell’identità operaia che, pur tra mille differenze, a tutt’oggi si palesa, nel racconto di Portelli, come possibile e concreta. Come è ovvio, il resoconto di Portelli è, dunque, e del resto non poteva essere altrimenti considerata la travolgente offensiva del capitalismo neoliberista dell’ultimo trentennio, anche una storia di sconfitte. Ancora negli anni ’80 la Terni, con i suoi altiforni sciorina risultati che ne fanno uno dei fiori all’occhiello dell’economia italiana, con più di 10.000 addetti e fra i primi 5 produttori mondiali di acciaio inossidabile. Ma nel 1994 è venduta a una cordata di imprese private con a capo la multinazionale ThyssenKrupp. Per inciso, la stessa multinazionale i cui manager sono stati condannati perché ritenuti responsabili della morte di sette operai per il rogo divampato tra il 6 e il 7 dicembre 2007 nell’acciaieria di Torino appartenente allo stesso gruppo. La privatizzazione porta con sé immissione di nuova forza lavoro con contratti precari e con mansioni appaltate a ditte esterne, riduzione dei volumi produttivi, trasferimento delle produzioni. E, soprattutto, risulta essere l’esito consequenziale del disimpegno programmatico e consapevole dello Stato e delle sue classi dirigenti che, a differenza di quello che ancora oggi accade in Francia (si pensi alla vicenda che riguarda il controllo da parte di Fincantieri di Stx e dei cantieri navali di Saint-Nazaire per adesso nazionalizzati dal governo Macron) e in Germania (Lufthansa ha ottenuto il sostegno del governo tedesco per rilevare buona parte degli asset di Air Berlin), dimostrano, con una miopia suicida e scellerata, di non volere farsi carico di salvaguardare i settori strategici più importanti dell’industria italiana, magari investendo in ricerca e innovazione. Oggi la ThyssenKrupp-Acciai Speciali Terni ha poco più di duemila addetti e, sottoposta dai vertici dirigenziali da almeno quindici anni a un costante dissanguamento, sembra destinata, in assenza di prospettive certe sul proprio futuro, a una lenta agonia. L’assenza di prospettive, per l’appunto, perché il problema della memoria si congiunge, nello sguardo di Portelli, col problema dell’identità, con la questione relativa al tipo di società che vogliamo. È un problema che riguarda il futuro, le aspettative, la volontà di non arrendersi. E allora si capisce di più dallo scorcio di una testimonianza dai toni pittoreschi e gergali, ma non per questo meno drammatici, che non dall’ispezione di mille trattati sociologici. Il punto della questione, a detta di Marco Bartoli, è proprio questo: “Basterebbe guarda’ agli interessi non tanto tui, ma a quelli di tuo figlio un domani: che cazzo gli lasci? Mi’ padre a me m’ha lasciato i diritti del lavoro, una villa co’ lu campo de patate, la vigna e i piantoni. Mo’ io me so’ giocato li piantoni, la vigna e lu campo de patate, a mi’ figlio che cazzo gli lascio? Gli lascio un mondo di precarietà, gli lascio un mondo altamente inquinato dove esiste lo sfruttamento eccessivo della natura, delle persone, de li diritti, ecco quello che cazzo gli lascio io a mi’ figlio” (419-420). Oltre al dominio e allo sfruttamento nel luogo di lavoro, dentro le acciaierie c’era dell’altro, un soggetto che si faceva protagonista attivo e consapevole di un processo organizzato e, in fin dei conti, finalisticamente orientato alla riproduzione e allo sviluppo sociale. Con tutte le contraddizioni implicite, come quelle devastanti derivanti dall’inquinamento e dal disastro ambientale. E tuttavia, si trattava di un soggetto, la classe operaia, che nel corso del Novecento ha saputo costruirsi un lessico politico fondato sull’emancipazione e l’avanzamento sociale. Al contrario, i nuovi operai sembra che non abbiamo più una visione, esprimono, anche nei momenti più alti della lotta, un assenza di futuro e di aspettative. Certo, non è soltanto lo spirito del tempo, è un problema di rapporti di forza. Il fatto è che la fabbrica non è un’entità metafisica che si staglia con la sua densa e ostinata oggettività di fronte a un osservatore neutro e disincarnato. “La fabbrica è fatta di macchine, di persone, e di parole: esiste nello sguardo, nelle parole, nell’esperienza di chi la racconta” (437). Essa è tutt’uno con l’immaginario e la lingua dei soggetti che la rendono viva e che la esprimono. I due secoli di storia operaia, raccolti nelle testimonianze orali degli interlocutori di Portelli, diventano allora quel patrimonio di identità e di memoria che può rendere possibile un futuro diverso e dotato di senso. La memoria infatti, come del resto il sapere, non è un involucro vuoto, da colmare con dati e nozioni astratte, ma la matrice prima, lo stampo originario e sempre mutevole in grado di generare nuovi significati. Peccato che troppo spesso ci si dimentichi del fatto che è solo ripartendo dalle proprie radici che una comunità, senza restare incagliata al proprio passato, può inventare il proprio futuro.
0 Commenti
Lascia una risposta. |
Archivio
Gennaio 2021
|