PERICOLO GIALLO
29/11/2016
SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA
Marcello Benfante Una nuova rubrica che ambisce a una certa“inattualità”, muovendosi fra quanto nel panorama culturale si pone ai margini, fra i luoghi NON comuni, ai confini tra cultura massificata, crisi della cultura “alta” e sempre risorgente midcult. PERICOLO GIALLO “Che cosa si può dire come apologia del genere poliziesco? C’è una considerazione evidente da fare: la nostra letteratura tende al caotico. Si tende al verso libero perché è più facile del verso regolare; la verità è che quest’ultimo è molto difficile. Si tende a sopprimere personaggi, trama, tutto è molto vago. In questa nostra epoca, così caotica, c’è una cosa che, umilmente, ha conservato le virtù classiche: il racconto poliziesco” Jorge Luis Borges Requiem per il romanzo poliziesco Stiamo assistendo, da alcuni anni a questa parte, alla morte del romanzo “giallo”. È una lenta agonia, d’accordo, non priva talvolta di quei fatali e illusori miglioramenti che presagiscono l’esito funesto. Forse il moribondo, come la Violetta verdiana, ha ancora un’ultima aria da cantare, un estremo vibrante acuto da distendere, e tuttavia l’esito finale del suo male è ineluttabile. Né mi sorprenderei se un necrologio mi informasse che il decesso è già avvenuto da un pezzo, e che tutto il profluvio di romanzi in vario modo polizieschi che inonda le librerie sia soltanto una fenomenologia fantasmatica. Dell’inflazione, con implicita svalutazione e inevitabile bancarotta, si era già accorto, e in tempi non sospetti, Gilbert Keith Chesterton: “Ora, ci sono a Londra più di novecentonovantanove gialli e altrettanti investigatori immaginari, e quasi tutti sono cattiva letteratura o meglio non sono affatto letteratura” (1). E se qui Chesterton denigra la pletora paraletteraria per esaltare le virtù artistiche del prototipo Sherlock Holmes (che pur “alla sua maniera selvatica e frivola” resta comunque “buona letteratura”) non può sfuggire che il dato più allarmante per il lettore odierno, ormai rassegnato al trionfo della spazzatura, sia la proliferazione patologica di merci sempre più scadenti che tendono a saturare e adulterare il mercato. E ciò fin quasi dagli esordi del genere, ma in un crescendo vertiginoso di banalità e volgarità. Una crisi di sovrapproduzione, insomma. Ma non solo. Anche un’inarrestabile decadenza. Una degenerazione galoppante. Va da sé che, per definizione, la buona letteratura (come ogni altra forma di arte) non possa costituire che una piccola parte del volume complessivo di opere scritte o edite. Entro ragionevoli proporzioni, questo è un dato di fatto fisiologico. Né, d’altra parte, un’onesta mediocrità deve considerarsi priva di funzioni positive, sia in termini di produzione che di fruizione. Ma non è questo il punto. La questione che s’intende qui analizzare è invece la seguente: un genere, peraltro di grande importanza per la civiltà occidentale, è morto, nonostante il suo apparente rigoglio. Se infatti diamo una semplice occhiata agli scaffali delle librerie o alle rubriche di recensioni dei sempre più accondiscendenti critici letterari, abbiamo la sensazione di essere circondati e sopraffatti da un genere un tempo relegato in un ghetto paraletterario e oggi invece divenuto dominante in modo assoluto, di cui è impossibile non constatare l’ipertrofica riproduzione e l’ubiquitaria diramazione. Mentre un tempo (grosso modo fino agli anni Ottanta del secolo scorso) di ogni buon libro di “alta letteratura” che contenesse un delitto o un’indagine poliziesca o un qualche cruento mistero si usava specificare nei risvolti e nelle quarte di copertina che l’opera in questione si limitava ad utilizzare formalmente la forma del giallo, ma era tutt’altro per qualità e intenti, oggi avviene l’esatto contrario: l’apparato pubblicitario editoriale tende a camuffare qualsiasi libro in un giallo, appigliandosi a qualsiasi pretesto, anche il più labile, per suggerire una chiave di lettura che generalmente viene ricondotta alla banda larga e vaga del noir. Questo termine francese, attribuito anche a un grande filone del cinema hollywoodiano, in origine non era che una metonimia in tutto simile al “giallo” nostrano, giacché denominava una particolare collana in base al colore predominante delle copertine. In seguito, venne a individuare un certo tipo di opere caratterizzate da un’angosciosa cupezza e durezza, da un tono malinconico e pessimista, di denuncia sociale e d’impietoso disincanto. Ma la gran parte di ciò che oggi è definito noir non possiede alcuna di queste connotazioni, né l’asprezza iperrealista né lo spleen umbratile. Si ricorre all’etichetta noir in un patetico e provinciale tentativo di nobilitazione di un repertorio dozzinale che non è né carne né pesce, né lusco né brusco. Tale operazione di marketing rivela peraltro la curiosa persistenza di antichi pregiudizi sul giallo, benché in tempi in cui si celebra il suo incondizionato trionfo commerciale. Trionfo, beninteso, che coincide con il suo fatale tramonto. Qual è il motivo e qual è il senso di questa sua eclissi, nonché di questa sua insana fertilità post mortem? Per rispondere a questa inquietante domanda torniamo a Chesterton, alla sua profetica lungimiranza. L’autore del sublime Padre Brown interviene ai primi del secolo scorso sulla querelle tra i detrattori del giallo, per i quali esso non ha possibilità di sviluppo artistico e quindi si esaurirà ben presto, e i suoi estimatori, che ne immaginano invece sempre più prosperi accrescimenti tematici e stilistici. “Altri sostengono che di fatto il giallo progredirà e si trasformerà, ma si trasformerà in qualcosa d’altro; e io penso sempre che questo genere di trasformazione è una forma di estinzione” (2) Dilatandosi a dismisura, fino a fagocitare praticamente ogni forma di narrativa, il giallo è infine esploso, proprio come la rana di Esopo. I mille brandelli del suo corpo dilaniato ci piovono addosso incessantemente. Ma non sono che lacerti e frattaglie. Divenuto altro da sé, gonfiato dagli estrogeni di una domanda finora inappagabile, il giallo (o comunque si voglia chiamarlo) ha del tutto smarrito il suo ruolo nel panorama letterario. Anzi, ha del tutto colonizzato tale arrendevole panorama trascinandolo per intero nel gorgo della sua stessa declassazione. Oggi tutto si è ingiallito, come se fosse ammorbato da un’epidemica febbre malarica. Ma l’aspetto è impallidito. Ha assunto un colorito malsano. Per cui tutto ormai è giallo, ma niente in realtà lo è. Tutta colpa del postmoderno? Forse in questa requisitoria, come certi magniloquenti avvocati dei legal thriller, stiamo abusando di immagini retoriche. Invece vorremmo parlare di una metamorfosi vera e di una concretissima perdita di valore estetico (e insieme etico-politico). Siamo peraltro consapevoli che, come in ogni discussione, è possibile menzionare un certo numero di eccezioni, ossia di buoni e perfino ottimi romanzi polizieschi, i quali tuttavia non possono confutare l’evidenza di una realtà macroscopica. Si potrebbe anche addurre una contestazione più generale. Si tratta in sostanza di quella che usiamo definire la condizione del cosiddetto postmoderno. Ovvero la scomparsa dei generi come essi si erano storicamente determinati e configurati. Non solo il giallo è stato sommerso dal magma indifferenziato della letteratura e della cultura postmoderne. Tutti i generi sono venuti meno per se stessi e si sono contaminati. Osservazione in linea di massima innegabile, che però non spiega il monocromatismo essenziale della produzione letteraria odierna. Invece spiega – forse – perché quasi sempre prevalga un taglio parodico, spesso anche autoironico o addirittura caricaturale. Consapevolmente o meno, la gran parte dei gialli d’oggi è il risultato di un approccio meta-letterario. Il marchio del postmoderno, si dirà. Sì, ma non solo. Si tratta anche di un fatto tecnico: elemento tutt’altro che secondario in questo tipo di narrativa. In realtà a scomparire è soprattutto il mystery, cioè quella forma ingegnosa di rappresentazione di un enigma a cui il detective (sulla scia di Edipo) troverà infine una soluzione razionale grazie al proprio impareggiabile genio intuitivo. Stiamo parlando di un filone, per così dire, problematico di cui sono stati maestri scrittori, per esempio, come John Dickson Carr o come Ellery Queen. Si tratta di un esercizio assai difficile che richiede, non solo una padronanza tecnica notevole, ma anche spiccate doti logiche, in qualche modo simili a quelle del protagonista del romanzo, e di fantasia, ancorché nella forma della variazione del topos(per esempio, il cadavere nella camera chiusa dall’interno). Cimentarsi in un mystery esige una disciplina e un’inventiva che già potrebbero a monte operare una drastica selezione tra gli autori. Ecco perché nessuno (o quasi) osa più praticarlo. Per inciso, sono diverse le ragioni della crisi del mystery. In primo luogo il filone (come tutti i filoni) tende necessariamente a esaurirsi dopo le inimitabili lezioni di alcuni grandi innovatori (ripercorrendo i “casi” di Agatha Christie si ha come l’impressione che abbia contemplato tutte le possibili varianti enigmistiche). Per di più, oggi la logica dei sopraffini pensatori è stata ridimensionata e fin quasi esautorata dalla tecnologia, con un processo che potremmo definire di alienazione e disumanizzazione. Se ciò non bastasse, va aggiunto che lo stesso ragionamento logico viene ormai interpretato come una sorta di offesa al pluralismo delle opinioni, cioè a quella falsa democrazia telematica e massmediatica in cui ciascuno si sente autorizzato a sostenere le posizioni più assurde e aberranti in nome di un’opinione personale applicata agli oggetti più disparati. Che il mystery implichi una disciplina mentale è dunque una costrizione che il consumismo culturale reputa ormai inaccettabile e insopportabile. Meglio affidarsi ai responsi (assai discutibili, in verità) di una scienza forense interamente meccanizzata (3). Impegnativo e disorientante, almeno nei suoi esempi migliori, il mystery è dunque un’arte difficile (rovesciando un celebre aforisma di Chandler) che richiede allo scrittore e un po’ anche al lettore delle doti complesse, un’attenzione ai dettagli, un’accurata costruzione del plot. Accantonata o estremamente banalizzata la detective story, ha preso sempre più campo il crime novel, basato sull’enfatizzazione della violenza. Questa tendenza potrebbe facilmente spiegarsi in termini sociologici e psicologici, se ne valesse la pena. La grande popolarità del giallo contemporaneo deriva dalla sua caratteristica riflessiva, ovvero dal suo essere specchio passivo della violenza e del senso di morte della nostra società. Discorso non nuovo, si potrebbe obiettare. Nella sua forma paradigmatica e ormai tumulata il giallo è fondamentalmente consolatorio e conservatore in quanto ristabilisce un ordine sociale turbato dal delitto, restituendo sicurezza alla comunità impaurita e destabilizzata. Oggi invece si limita a una rappresentazione della brutalità come fascinazione orrorosa. C’è una necrofilia dominante in queste storie, che sfrutta gli elementi del terrore e del macabro con una dialettica di attrazione e perturbazione desunta solo in parte dal romanzo gotico. Nelle versioni cinematografiche e soprattutto televisive questo fattore è ancora più evidente e si rivela nell’esibizione dei cadaveri dissezionati sul tavolo anatomico del medico legale. Non c’è un intento conoscitivo in questa ostentazione (come per esempio nella secentesca “Lezione di anatomia del dottor Tulp” di Rembrandt) e nemmeno una funzione compensativa. Non esiste alcuna pax da ripristinare. La vita è un’incessante sequela di violenze e distruzione che non può essere in alcun modo lenita dalla scoperta della verità e dal deus ex machina dell’investigatore onnisciente. L’aggressività e la sopraffazione sono quindi esposte in modo neutro come espressione di un’energia in ultima analisi erotica. Il corpo stesso delle vittime, ridotto a cosa mercificata, è divenuto un rifiuto da smaltire (dopo, beninteso, apotropaici rituali di ricomposizione, più affini alla chirurgia estetica che alla pietas). Il delitto insomma ha assunto uno status di gran lunga più importante dell’investigazione e della soluzione del caso (ma al tempo stesso risulta svilito e, per usare una boutade, mortificato). Da mero punto di scaturigine e ipotesi primaria, si è spostato nel cuore del racconto, assumendo una centralità irradiante intorno a cui ruota tutta la narrazione. Sicché la lotta ha cessato di essere quella tra crimine e ratio riparatrice, risolvendosi nella speculare contrapposizione tra due forze simmetriche, la violenza illegale e quella legittimata dallo Stato, che spesso ricorrono a mezzi simili, talora per fini analoghi. In questo allontanarsi dalle sue radici liberali (almeno nella forma classica) il giallo è divenuto sempre più reazionario e autoritario (anche laddove lo scrittore o la sua creatura manifestano idee o atteggiamenti democratici e progressisti). Non vi è più consolazione possibile, nemmeno a livello mitopoietico, nella società iperconflittuale dell’uomo lupo dell’uomo. L’unica dinamica ammissibile è la risposta repressiva al delitto, senza alcuna pretesa di restaurare un’armonia momentaneamente sconvolta, bensì nella consapevolezza che ogni riscatto è illusorio. Realismo, questo appena descritto, che può dare luogo a grandi romanzi o a becera paccottiglia, ma che col giallo ha ormai poco a che vedere. Quel che resta del giallo Questo passaggio ha richiesto una lunga elaborazione. Il giallo nasce come genere nel contempo popolare e colto con il formidabile trittico di Auguste Dupin di Edgar Allan Poe. A partire da questo evento e per un tempo lungo e intenso, l’eroe del giallo è un loico, un maître à penser, il cui pioniere paradigmatico è Sherlock Holmes, intellettuale anomalo e a suo modo eslege che darà la stura a una serie di modelli e variazioni, come Poirot o Nero Wolfe, tutti fortemente caratterizzati da eccezionali doti induttive e deduttive. Non a caso il mystery è sempre stato amato da una folta schiera di intellettuali. Come il gioco degli scacchi, a cui viene spesso accostato, anche il giallo è stato ed è prediletto per le sue caratteristiche cerebrali. È innegabile tuttavia che è il personaggio (l’eroe che pensa, parafrasando Berardinelli) ad esercitare l’attrattiva maggiore, e ciò spiega come mai il giallo scientifico alla Austin Freeman, benché inventivo e innovativo, non sia riuscito a reggere l’usura del tempo. Oltre alle “macchine pensanti” alla Thorndyke, non mancano personaggi più volitivi e ardimentosi, fin da un archetipo come Vidocq, passando per le gesta avventurose di un Nick Carter. Sono però ancora personaggi riconducibili al romanzo d’appendice o al dime novel, cioè a un pubblico più popolare e meno istruito a cui non piace lambiccarsi con vicende astruse. Il giallo invece è rimasto a lungo appannaggio di una classe media scolarizzata che aspirava a un intrattenimento facile ma non banale. Sostanzialmente per tutto il periodo aureo del mystery la riflessione immobile prevarrà sull’azione eroica. Anche quando, a parti invertite, l’attenzione si sposta sul carisma del bandito (come nel caso di Lupin di Maurice Leblanc), l’attrattiva principale consiste ancora nell’esercizio della sua intelligenza, nella raffinatezza razionale del suo modus operandi. La vera svolta si ha con l’avvento dell’hard boiled. Ed è una svolta ancora vitale che esprime la grande lezione di Dashiell Hammett. Ma già si cominciano a intravedere i segni di uno snaturamento che porterà agli accessi di Mickey Spillane – il vero punto di rottura irreversibile con la tradizione del mystery – e via via a truculenze sempre più rudi. Siamo ormai nell’ambito di un avventuroso metropolitano (la giungla d’asfalto) che chiude i conti con quel filone post-illuminista e positivista costruito sul mito della ragione chiarificatrice. I muscoli hanno la meglio. Il corpo – che patisce o che agisce – si sbarazza dell’ingombrante supremazia della “cellule grigie”, per dirla con Poirot, reclama e ottiene il suo primato. Più che la verità e il labirinto che la cela, è lo scontro fisico tra un bene e un male sempre più confusi e mescolati a divenire il vero nucleo della fabula, con derive giustizialiste e illiberali che segnano il passaggio dalla presunzione di innocenza alla postulazione di colpevolezza, dalla struttura incentrata sullo scagionamento a quella incriminatoria (4). Ovviamente, lo smarrimento delle certezze sulla possibilità di conseguire una verità assoluta produce anche romanzi non banali e addirittura alcuni capolavori (si pensi a Dürrenmatt, per esempio, o a Leonardo Sciascia, che tuttavia ha operato soprattutto nel senso di un ribaltamento dei canoni del giallo, come subito capì Alberto Moravia). Ma il più delle volte si ferma a un livello di rozzezza inaccettabile in cui si è perduta tutta la grazia e l’arguzia del giallo classico, che era basato su un patto ludico con il lettore, su un ammicco culturale, un’intesa civile che era una condivisione di valori e convenzioni. Il romanzo poliziesco è un genere, per così dire, dimenticabile. Molti suoi studiosi hanno evidenziato il fatto che di un libro giallo, una volta che l’abbiamo letto, chiuso e riposto sullo scaffale, solitamente scordiamo gran parte della trama e perfino chi era il colpevole o in che modo è stato smascherato. Ogni appassionato del genere ha provato molte volte questa sensazione di amnesia o addirittura di vuoto. Tuttavia dei libri migliori, dei classici, non dimentichiamo mai il protagonista o alcuni azzeccatissimi comprimari. Possiamo dimenticare in tutto o in parte l’intreccio de La strana morte del signor Benson, forse, ma non certo l’affascinante figura dell’intellettuale-dandy Philo Vance. Questa centralità del personaggio aumenta insieme alla qualità complessiva del romanzo (si pensi alla monumentalità letteraria di un Maigret). Ma anche le formulazioni dell’enigma e le soluzioni più originali ci restano impresse nella memoria. Il colpo di scena de L’assassinio di Roger Ackroyd, per esempio, è una di quelle innovazioni irripetibili (proprio come l’avanguardia) che non possono mai essere obliate. Il giallo odierno, nelle sua varie declinazioni, non riesce quasi mai ad essere memorabile e a sottrarsi a una piattezza sconfortante. Se si esclude qualche investigatore ben caratterizzato o qualche raro ambiente reso con notevole realismo (da alcuni addetti ai lavori, soprattutto), non c’è un volto o una storia che il lettore riesca a conservare dopo il mero consumo del libro (e talora perfino durante). Si tratta di un difetto antico, per cui a lungo al romanzo poliziesco è stata perfino negata la dignità di autentico romanzo. E però questo limite è oggi fin troppo generalizzato in uno scenario deprimente di pervasivo squallore. Stiamo ovviamente generalizzando. È opportuno ripetere che neanche oggi mancano del tutto opere apprezzabili, quelle ad esempio che attingono alla cronaca e all’inchiesta con scrupolosa ricerca (penso a certi titoli di Carlo Lucarelli, per restare nei nostri confini). Per il resto, cioè per una marea straboccante di materiale editoriale, assistiamo all’applicazione indolente di una serie di luoghi comuni romanzeschi, talora ravvivati da un tocco umoristico o da tratti folclorici, da pastiche linguistici para-gaddiani, da inserti gastronomici o da impudenti mafiologie. Quella che era “la prima e unica forma di letteratura popolare in cui si esprime in qualche modo la poesia della vita moderna” (5), si è trasformata nella prosaica cronachetta del nostro andazzo quotidiano, un che di generico, di vagamente legato a un episodio feroce e criminoso, peraltro quasi sempre destituito del suo scandalo, della sua funzione di rottura dell’equilibrio morale e sociale. L’assuefazione al piombo e al sangue ha fatto sì, infine, che la morte non destasse più meraviglia. Ma senza lo stimolo dello stupore, cessa ogni interrogativo, ogni ricerca, ogni anelito di scoperta. Cessa insomma la molla che aziona il meccanismo virtuoso del giallo e la sua inesprimibile entropia. Si è trattato di una maturazione filosofica? Di un pervenire all’agnostica conclusione che non esistono più misteri da svelare? Di un arricchimento, in altri termini? O piuttosto di una perdita d’identità? Guardando la miseria culturale e la fragilità narrativa di moltissima parte del giallo odierno, propenderei mestamente per quest’ultima possibilità. Soprattutto perché alla decadenza letteraria di una forma di romanzo che ho molto amato e che ormai mi risulta fin troppo monotona e fastidiosa, corrisponde (cosa ben più grave) un imbarbarimento sociale e una crisi complessiva delle forme politiche democratiche. Note (1) Gilbert Keith Chesterton, Come si scrive un giallo, Palermo, Sellerio, 2002, traduzione di Sebastiano Vecchio, p. 64. (2) Ivi p. 46. (3) Al riguardo si veda il mio articolo “No alla criminologia, viva Perry Mason”, su “Lo Straniero” n. 173 novembre 2014. (4) “Nel romanzo poliziesco c’è senz’altro un gran rispetto della persona e dei suoi diritti. Nessuno dubita che l’assassino sia un mostro. Tuttavia egli non cessa di essere un uomo, protetto dalla legge dell’habeas corpus”, in Thomas Narcejac, Il romanzo poliziesco, Milano, Garzanti, 1976, traduzione di Luciano Nanni, p. 176. (5) G. K. Chesterton op. cit. p. 72.
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