di Marcello Benfante
– È vero che sta pensando di dar vita a un “romanzo-fumetto”? – Non è del tutto esatto. La sua domanda mi dà però il pretesto per ragionare insieme, elementarmente, dei fumetti; dei miei antichi rapporti e di quelli che potrebbero essere anche i rapporti futuri in questo settore. Per quanto riguarda il futuro, è vero che mi piacerebbe lanciare un personaggio a fumetti; cioè, invece di scriverlo, renderlo graficamente. Ma mi trovo di fronte a quello che è stato il problema chiave di tutta la mia vita cinematografica. Uno può fare oggi un romanzo a fumetti se sa anche disegnare. Sempre più io sono per un fatto unitario. (Piero Zanotto, “Zavattini contro la terra”, 1968) Sono di quelli, lo confesso subito, che si ostinano – e con fierezza – a chiamare i fumetti semplicemente fumetti. Vengo ora a spiegare l’apparente tautologia, che in realtà è una precisa opzione culturale. Ormai da parecchi anni è invalsa l’abitudine di denominare i fumetti o un certo tipo di fumetti (peraltro non ben precisato) con il termine magniloquente di Graphic Novel. Secondo la vulgata sarebbe stato il grande Will Eisner a coniare questa espressione per il suo struggente e imponente Contratto con Dio del 1978. In realtà il termine ‘graphic novel’ esisteva già da molto tempo, certamente fin dagli anni Sessanta o addirittura, secondo alcuni, dai Quaranta. E stava a indicare, evidentemente, opere molto diverse. A fomentare dubbi sulla validità categoriale del graphic novel è proprio la sua slittante retrodatazione: da Bloodstar (1975) di Richard Corben a (secondo Luca Raffaelli) La rivolta dei Racchi (1966) di Guido Buzzelli. Si tratta di quel tipo di marce indietro che un po’ alla volta riportano il discorso alla linea di partenza. Tutt’oggi non è del tutto chiaro cosa debba intendersi per graphic novel. Secondo Wikipedia si tratterebbe di “un genere narrativo del fumetto in cui le storie hanno la struttura del romanzo”. Sono cioè storie “autoconclusive” che possiedono un “intreccio sviluppato e di solito rivolto a un pubblico adulto”. Fermiamoci qui, per ora. Delimitata in questi termini, la questione appare subito infondata. Il fumetto racconta storie autoconclusive con un intreccio complesso, chiaramente rivolte anche a un pubblico adulto e maturo, fin dalla sua età d’oro, ovvero dai suoi classici. Mi limito a tre esempi dei fantastici anni Trenta che mi sembra possano chiudere la pretestuosa querelle fin sul nascere: Dick Tracy (1931) di Chester Gould, esempio di duro realismo narrativo che ha fatto scuola e non solo nel fumetto; Flash Gordon (1934) di Alex Raymond, epopea di rara eleganza artistica in cui serpeggia una sensualità raffinatissima; Terry e i pirati (1934) di Milton Caniff, saga bellico-avventurosa di notevolissimo livello grafico alla quale si sono ispirati molto cinema e una quantità di cartoonist anche di grande prestigio (come per esempio il nostro inarrivabile Pratt). Il to be continued non inganni: si tratta di opere che presentano o contengono una loro compiutezza in termini narrativi e formali. Già più di ottanta anni fa, quindi, esisteva la graphic novel, solo che nessuno la chiamava così, per fortuna! Era l’età dell’innocenza, è stato detto. Cioè di un’ineffabile grazia. Ma di questo si tratterà più avanti. Per ora resta da completare la nostra pars destruens. Esiste infatti un’altra specificazione riguardo al cosiddetto graphic novel, e ci corre l’obbligo di esaminarla. Esso, in modo generico, sarebbe sinonimo di “fumetto d’autore”, in contrapposizione al “fumetto popolare”, e quindi delimiterebbe il campo di quei fumetti che assurgono, per il loro straordinario valore, a fatto d’arte, equiparabile pertanto a opere eccelse di altro genere. Anche posta così, la faccenda suona falsa, oltre che irritante. I fumetti sono arte fin dalle loro origini, sia ben chiaro. Non tutti ovviamente, come d’altronde in ogni altro campo, dalla letteratura alla pittura, non tutte le opere sono capolavori. Come definire, infatti, se non artistici e autorali, fumetti meravigliosi come Little Nemo (1905) di Winsor McCay o Krazy Kat (1910) di George Herriman? Si tratta di fumetti che risalgono a un’aurora di autentica poesia e/o di incantevole splendore grafico. Fumetti di assoluta profondità e complessità che hanno influenzato radicalmente la cultura del loro tempo. La storia del fumetto d’autore coincide praticamente con quella del fumetto tout court, giacché non basta il criterio della serialità e della popolarità a escludere il valore intrinseco del prodotto e il talento dei suoi artefici. Ho selezionato due esempi illuminanti (in tutti i sensi), appositamente tratti dai primi del Novecento, ma l’elenco potrebbe proseguire lungamente. Per restare nell’ambito dei tempi eroici, dirò soltanto dell’immenso Bonaventura (1917) del nostro Sergio Tofano (Sto) attore, scrittore e illustratore (non necessariamente in quest’ordine) di formidabile e poliedrico genio. Sono risalito ai tempi più remoti dell’arte che si dice nona (sorvolando peraltro su un maestro di umorismo e di nitore come George McManus) solo per dimostrare come l’espressione graphic novel si fondi, ab origine, su un equivoco. All’occorrenza però si potrebbe aggiungere un elenco pressoché sterminato di autori. Apro una breve parentesi, non priva di pertinenza con il discorso finora affrontato in questo articolo. Che s’intende per autori di fumetti? Certamente sono molte le figure professionali che solitamente intervengono, a vario titolo e in varia misura, nel processo creativo di un fumetto. Fondamentalmente: coloro che scrivono i testi, i soggetti, le sceneggiature; e coloro che disegnano, inchiostrano, colorano. Tra le figure di secondo piano (ancorché preziose) ricordiamo i letteristi. In questa divisione di compiti, in linea di massima e con alcune importanti eccezioni (per esempio il mitico Lee Falk), la parte del leone spetta per ovvie ragioni al disegnatore. La mia predilezione (e devozione) va tuttavia agli autori completi che realizzano tutte le fasi principali della loro opera, controllando l’intero processo creativo (anche laddove ricorrono talvolta all’ausilio di collaboratori specialistici). Questi artisti completi a me paiono i veri Autori (con la maiuscola), per eccellenza, senza nulla togliere beninteso a felicissime collaborazioni da cui sono scaturiti fumetti assai validi che spesso sono tra quelli che più amo. È innegabile che perfino da alcune vere e proprie catene di montaggio, ovvero da un lavoro estremamente parcellizzato, siano nate epopee straordinarie (si pensi alla Marvel capitanata da Stan Lee). Tuttavia, mi pare di poter dire che raramente il fumetto consegue capolavori quando è frutto di una molteplicità di contributi creativi, ossia quando non è (a dirla con Zavattini) un “fatto unitario”. E mi pare anzi, per esempio, che l’ottimo Magnus (Roberto Raviola) se la sia cavata meglio senza il pur bravo Bunker (Luciano Secchi), pur riconoscendo tutti i notevoli meriti di inventiva e innovazione di quest’ultimo. Tirando le somme di quanto fin qui asserito, possiamo tentare una prima provvisoria conclusione. A chi abbia dato anche solo una sbirciatina a un qualunque saggio di divulgazione storica sulla comic art sarà subito apparso chiaro che ben presto il fumetto è pervenuto alla narrazione di storie autoconclusive di solida e ben impostata trama, cioè a uno status che giustificherebbe (ante litteram) la denominazione di graphic novel, se la si volesse usare (opportunità di cui faccio volentieri a meno). Quanto poi al suo valore artistico, non v’è dubbio che il fumetto praticamente fin dagli esordi raggiunge livelli qualitativi di estremo pregio. E non stiamo parlando di calligrafi del disegno, ma di artisti veri e propri che esprimono compiutamente un loro mondo e un loro stile. Artisti sopraffini come per esempio il nostro Dino Battaglia, che hanno anche fatto ricerca e sperimentazione, come l’argentino Alberto Breccia, o che si sono distinti per una acrobatica poligrafia come l’inimitabile Moebius-Gir-Jean Giraud. Tra i più figurativi o, se vogliamo, pittorici, citerei almeno Harold Foster e Burne Hogarth, per restare in un ambito classico. Tra i più totali, una menzione spetta al sommo Hergé, perfetto capocomico della sua Commedia Umana. Ma non si può nominare tutti, e in simili ardue cernite fanno da discrimine (più o meno arbitrariamente) il gusto personale e le strettoie dell’argomentazione. Resta un ultimo aspetto da affrontare. Forse graphic novel è un modo (in verità piuttosto equivoco) di sottolineare una crescita del genere fumetto, per cui quest’ultimo, a un certo punto della sua evoluzione, si sarebbe liberato del suo bozzolo infantile, divenendo un’espressione culturale più significativa in termini di critica sociale, di satira politica e di costume, di analisi psicologica, di rappresentazione del mondo. Non ci siamo neanche stavolta. Il fumetto è stato sempre anche questo, e forse lo è stato anche più quando il suo linguaggio era a misura di strip. Basti pensare a Blondie (1930) di Chic Young, dalle cui gag ha razziato a man bassa la commedia hollywoodiana; a Alley Oop (1933) di Vincent T. Hamlin, che ha reso popolare lo schema letterario (da Washington Irving a Mark Twain) e poi cinematografico del viaggio temporale come strumento di relativistica comparazione sociale; Li’L Abner (1934) di Al Capp, che ha creato buona parte dei prototipi dell’America rurale e “cafona”. O ancora prima al nostro Marmittone (1928) di Bruno Angoletta, irriducibile modello di antimilitarismo. E poi, a volo d’uccello, Pogo (1946) di Walt Kelly, Archie (1947) di Bob Montana, Beetle Bailey (1950) di Mort Walker, i Peanuts (1950) di Charles M. Schulz, Andy Capp (1957) di Johnny Hart, Bristow (1960) di Frank Dickens, Mafalda (1964) di Quino, Fritz The Cat (1968) di Robert Crumb, Sturmtruppen (1968) di Bonvi, Up il Sovversivo (1970) di Alfredo Chiappori, Lupo Alberto (1973) di Silver. Qui mi fermo, con molte dolorose omissioni (tra cui l’intero universo Disney, che meriterebbe una trattazione a sé), essendo giunto quasi alle soglie della contemporaneità e avendo messo in fila sufficienti esempi a dichiarare dimostrata la fondatezza della mia obiezione. Basterebbe seguire queste (e tante altre) strip per ricostruire un’intera storia della modernità. A ben vedere, anche il graphic journalism, che resta comunque la prospettiva più aperta del fumetto contemporaneo, non è affatto un’invenzione recente, bensì la molla stessa che ha dato origine ai comics fin dai tempi di Yellow Kid (1895) di Richard Felton Outcault: raccontare la realtà quotidiana partendo dalla strada e dalla folla amorfa che vi si riversa incessantemente. E allora? Quand’è che il fumetto sarebbe diventato finalmente adulto? A riesplorarne a ritroso il percorso, ci si accorge piuttosto che il fumetto è sempre stato una forma d’arte piena d’incantevoli sorprese a cui hanno attinto – in un dialettico rapporto di scambi e commistioni – tutte le altre discipline. E il discorso non pertiene soltanto alle arti, ma anche alla scienza, alla saggistica. In questo senso si consideri, per esempio, lo psico-erotismo (e onirismo) di Guido Crepax, grande artista di sublimi inquietudini. O, in campo storico, l’opera icastica e maestosa di Anna Brandoli e Renato Quierolo. Certo, davanti a un’opera monumentale come Maus (1986) di Art Spiegelman, che dà al lettore una sorta di vertigine della coscienza storico-civile, bisogna ammettere che non tutti i fumetti hanno il medesimo spessore. E ciò sembrerebbe avvalorare l’esigenza da cui probabilmente è sorto l’appellativo di graphic novel. Esistono – è vero – fumetti più letterari di altri. Fumetti che non si prestano a un consumo veloce e superficiale. Un esempio per tutti, Una ballata del mare salato (1967) di Hugo Pratt (che però, non a caso, perde molto nella versione integralmente letteraria che ne fece successivamente il suo autore). Ma anche questa più evidente letterarietà non è un fatto del tutto nuovo. Mi piace ricordare a questo proposito il mio amato professor Philip Mortimer di Edgar Pierre Jacobs, a cui ho dedicato vari sperticati omaggi: che magistrale architettura romanzesca è il suo Marchio giallo (1953), per scegliere, quasi a caso, un titolo del suo ciclo! Romanzesca in tutto e per tutto: per il vasto respiro del racconto, per le implicazioni drammatiche del testo, per la fitta tessitura dei dialoghi e la puntualità delle didascalie, per lo scrupoloso lavoro di documentazione e preparazione che sorregge ogni aspetto dell’opera, ogni tratto di matita, ogni parola. E si badi che stiamo parlando di una storia concepita in un tempo (come appunto la prima metà degli anni Cinquanta) in cui il fumetto era ancora oggetto di ottusi pregiudizi, perfino in Belgio e in Francia, sue patrie elettive, e nessuno (o quasi) osava ancora considerarlo alla stregua della cultura di alto profilo. Ciò non vuol dire però che nel fumetto sia tutto déjà vu. Tutta la sua storia è al contrario innovazione continua. Un gran laboratorio di idee, formule, tecniche, stilemi. E già molto prima dell’avanguardismo di riviste e movimenti come Metal Hurlant, Frigidaire, Valvoline, del futurismo-picassismo di Pablo Echaurren, di autori rivoluzionari ed eclettici come Andrea Pazienza o del frankzappismo coatto di Tanino Liberatore. Che dire infatti dell’umorismo anarco-demenziale di un Benito Jacovitti? Del suo ossessivo e inimitabile horror vacui? Non è forse una potente anticipazione del mondo tutto-pieno e tutto-a perdere in cui oggi viviamo? Ma non vorrei passare per un nostalgico laudator temporis acti. È chiaro che personaggi come il Ken Parker (1974) di Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo hanno profondamente rinnovato e arricchito il filone western nonché la comic art in generale, introducendo temi storici, etici, politici inusuali e affrontando con coraggio il tabù della morte stessa dell’eroe. Ma Ken Parker non è per questo diventato altra cosa rispetto a prodotti più ingenui, ma a loro modo deliziosi, come il Capitan Miki (1951) dell’onorato trio SGS (Sartoris, Guzzon e Sinchetto) o addirittura a un mito popolare come Tex (1948) di Bonelli e Galleppini. Pur nella sua complessità e profondità, Ken Parker resta (vivaddio) un fumetto. Uno splendido fumetto! Né l’arte geniale di un Gipi si colloca su un piano di alterità o superiorità rispetto alla tradizione alta del fumetto. Ci si stupì di Elio Vittorini quando nel progetto del suo Politecnico (1945) inserì i fumetti, dando inizio al loro sdoganamento nell’attardata e ancora provinciale cultura italiana del secondo dopoguerra. E fece scalpore, nel 1963, che Umberto Eco definisse tout court poesia le strisce di Charlie Brown. Ma è poesia pure Popeye. Pure Mandrake. Pure (eccome!) “Il Piccolo Re” di Otto Soglow. Questo è il punto che bisogna capire e rivendicare. Molto più facile è accettare che sia poesia (e perfino in qualche modo “romanzo”, alla Salinger) Calvin and Hobbes (1985) di Bill Watterson, che ha tutte le caratteristiche dell’opera intellettuale e irripetibile. Che sia arte l’espressionismo sulfureo di Lorenzo Mattotti o magari il notturno gotico di Frank Miller. Ma c’è un incanto nella semplicità del fumetto popolare che sarebbe davvero uno scempio buttare alle ortiche. Occorre che il fumetto, come tutta la cultura cosiddetta di massa (ma ormai tutto è di massa), non perda questa sua leggerezza originaria, non rinunci alla sua fragranza, al suo candore e non si precluda spocchiosamente alla fruizione e alla passione dei ragazzi. Altrimenti faremmo tutti, in termini di civiltà, un disastroso passo indietro. E allora, in conclusione, da dove sbuca fuori questa esigenza snob di etichettare il fumetto come graphic novel? A me pare si tratti di un’operazione di surrettizia nobilitazione del genere. Pensata e compiuta ovviamente da gente che non ama il fumetto e lo considera davvero qualcosa di minore e di sconveniente. Quando scatta il subdolo meccanismo eufemistico è segno inconfutabile che è avvenuta un’indicibile rimozione classista. Ciò che viene rinominato in termini asettici e neutri che sostituiscono le vecchie e scandalose definizioni è il vero marchio dell’infamia e del ripudio. Fumetto, a un certo punto, è stato ritenuto un termine sub-culturale. E proprio perché tale era ritenuto il fumetto in sé. Si è cercato quindi di dargli dignità con un appellativo più altisonante. Ma nello scambio furtivo, ovvero nel disguido, il fumetto, come pratica “bassa”, è stato ancora una volta maledetto e ghettizzato dai saccenti del midcult. Da vecchio amatore, mi tengo quindi stretta la definizione antica di fumetto, che è la più leggiadra e appropriata tra quelle tradizionali (comics, bande dessinée, historieta), quella che con felice metafora esprime l’anima, l’intimo mistero e la magia di un’arte semplice e nobile, piccola e immensa.
0 Commenti
Lascia una risposta. |
Archivio
Novembre 2019
|