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      • GLI ANNI TRENTA PROSSIMI VENTURI
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PALERMOGRAD

MA UN GIORNO, CARA STELLA- Idoli della demagogia contro utopia populista nel Mago di Oz 

7/4/2017
di Marcello Benfante

​
“Life is bad 
Gloom and misery everywhere 
Stormy weather, stormy weather” 
(Stormy Weather, Harold Arlen e Ted Koehler)


Pensare di poter dire qualcosa di nuovo e di originale su un libro così famoso e così attentamente analizzato da ogni punto di vista (sociologico, economico, politico, teologico… ) come Il mago di Oz di Lyman Frank Baum è probabilmente un atto di presunzione o quanto meno un azzardo. 
Nel mio caso è soltanto un gesto doveroso di riconoscenza e d’amore nei confronti di un libro che appartiene alla mia infanzia e che poi ho periodicamente ripreso con sempre maggiore interesse. 
Forse tutto è stato già detto, su questo classico a suo modo misterioso, ma sarà bene comunque ribadirlo, almeno come omaggio a un piccolo capolavoro di inestimabile grazia e importanza. O magari perseguire qualche filone interpretativo meno sfruttato, se è possibile, e confidare nell’inesauribilità di un’opera pressoché perfetta.

The Wonderful Wizard of Oz apre in modo dirompente il XX secolo con una ventata di freschezza e modernità che subito fu accolta con grande entusiasmo, ma anche con tenace ostilità per il suo utopismo populista. Nell’Introduzione al suo libro – datata Chicago, aprile 1900 – Baum dichiara il mero intento “di far piacere ai bambini” con una “fiaba modernizzata” in cui l’elemento meraviglioso e l’aspetto gioioso non siano turbati da “angosce e incubi”.
E in effetti, rispetto alla tradizione classica, per esempio alle fiabe dei Grimm o a quelle di Andersen, Il mago di Oz (1) risulta subito assai meno cupo e inquietante, anche se non manca di una sua linea sotterranea di malinconico struggimento.
Le premesse, comunque, sono tutt’altro che allegre: la protagonista, Dorothy, è un’orfanella che vive con gli zii, Emma ed Enrico, in una sperduta fattoria del Kansas, circondata da una brulla prateria che un sole implacabile ha ridotto a “una grande massa grigia”.
Lo scenario è dunque deprimente per l’assenza di colori e un senso di vasta solitudine, ma anche per i segni di una evidente povertà. Dorothy, che non ha fratelli ed è consolata soltanto dalla compagnia del suo piccolo cane Totò, vive in una casetta minuscola, costruita col solo legno che è stato possibile reperire in quel paesaggio arido che serra la sua famiglia in una specie di assedio.

“C’erano quattro muri, un pavimento e un tetto che costituivano un’unica stanza; e questa stanza conteneva un vecchio fornello dall’aria arrugginita, una credenza per i piatti, un tavolo, tre o quattro sedie e i letti”.

In quest’unico ambiente, angusto e arredato in modo elementare, privo di solaio e di una vera cantina, ma provvisto di una nicchia scavata nel suolo dove rifugiarsi nelle emergenze dovute ai frequenti cicloni, vive l’intera famigliola, certamente in modo poco confortevole. Gli zii, la cui unica gioia è proprio la piccola Dorothy, sembrano consunti dalle diuturne fatiche e preoccupazioni.
Emma è ormai una donna sfiorita che ha perduto la sua grazia giovanile, corrosa dal sole e dal vento impietosi. Enrico è un lavoratore instancabile dall’aspetto austero che non ride mai e rimane sempre in silenzio a contemplare, forse, l’indecifrabile enigma dell’universo.
Molti lettori e studiosi del capolavoro di Baum hanno espresso stupore per il fatto che Dorothy, nel corso della sua avventura nel meraviglioso mondo di Oz, esprima ripetutamente il desiderio di tornare in questo ambiente triste e desolato. È uno stupore un po’ sciocco, a mio parere. Dorothy ovviamente vuole ricongiungersi agli amati zii, alla sua famiglia. E poi, quale emigrante non prova nostalgia per i luoghi natii che ha dovuto lasciare, ancorché poverissimi?
Sotto questo aspetto, la fiaba di Dorothy è assolutamente realistica. Essere sradicati dal proprio ambiente, per quanto esso possa essere squallido e misero, è sempre un trauma molto doloroso.
Per la verità, Dorothy viene sradicata con una certa dolcezza. Il ciclone solleva la casetta e la trasporta in un lungo volo, lasciandola integra come i suoi due occupanti: il piccolo Totò, che all’inizio si agita e rischia di cadere nel vuoto, e l’imperturbabile Dorothy, che arriva perfino ad assopirsi sul suo lettino (vedremo in seguito che Dorothy, sebbene operosa, gode sempre di un sonno facile e placido, anche in situazioni difficili).
L’atterraggio della casetta volante dovrebbe supporsi distruttivo, Invece la casa resta intatta, tanto che poi Dorothy, allontanandosi, può addirittura chiudere la porta a chiave, dopo aver fatto merenda col pane e il burro ordinatamente conservati nella dispensa.
Ma l’impatto è stato fatale per la Perfida Strega dell’Est, che è rimasta schiacciata sotto il pavimento. È il primo streghicidio involontario di Dorothy, la quale, a dispetto del suo candore, è davvero una piccola femme fatale.
Come un meteorite, la casetta è piombata con esiti politici destabilizzanti nell’ameno paese dei Succhialimoni, un popolo pacifico, di bassa satura, che predilige in ogni cosa, dal vestiario alle abitazioni, il colore azzurro. Ora i Succhialimoni sono liberi dall’oppressivo dominio della Perfida Strega dell’Est e dunque vedono in Dorothy una provvidenziale salvatrice. 
Ad accogliere la redentrice piovuta dal cielo accorre un’altra Strega, stavolta buona, il cui regno è a Nord, la quale baciandola in fronte le imprime un luminoso contrassegno magico che nel prosieguo della storia salverà la nostra eroina da alcune situazioni pericolose. 
È lecito dedurre che il ciclone stesso che ha prelevato e trasportato Dorothy nel ridente paese dei Succhialimoni sia stato un mezzo magico, anche se interpretazioni più secolarizzate lo propongono come simbolo dei rivolgimenti storici o della crisi economica di fine Ottocento:

“L’uragano aveva deposto la casetta – che pensiero gentile per un uragano! – in mezzo a un paese di straordinaria bellezza”.

Si tratta di una cortesia oculata e misurata, ma al tempo stesso inesplicabile, che induce  a pensare a una finalità soprannaturale. 
La situazione, per analogia, si potrebbe accostare forse a La Tempesta di Shakespeare: una tempesta immaginaria, creata con arti magiche dal sapiente Prospero, ha trasportato un intero equipaggio in modo indolore, senza nemmeno bagnarne gli abiti, su un’isola misteriosa. Ma ancora più calzante appare un riferimento a La Nuova Atlantide di Francesco Bacone: una nave salpata dal Perù viene trascinata da un fortissimo vento presso un’isola sconosciuta e ricca di boschi dove un popolo ignoto al resto dell’umanità, le cui insegne sono azzurre, l’accoglie con grande ospitalità, ma non senza alcune prudenti precauzioni (2).
I Succhialimoni abitano una terra incantevole. Tutt’intorno si scorgono grandi alberi carichi di frutti, fiori rigogliosi, uccelli dalle splendide penne variopinte. Siamo, da un punto di vista paesaggistico, agli antipodi del Kansas (3). Qui la natura è lussureggiante e ricca di acque che subito allietano l’udito di Dorothy. Un paradiso, dunque. Un Eden ritrovato. Dal quale però Dorothy intende subito fuggire. 
Lo spiegherà in seguito al perplesso Spaventapasseri:

“Noi gente di carne ed ossa preferiamo vivere nelle nostre case, anche se grige e malinconiche, piuttosto che in qualunque altro paese, fosse anche il più bello del mondo. Non c’è nulla di così bello come la propria casa”.

Non è questa tuttavia, come s’è detto, la vera incongruenza. La quale invece consiste nella misteriosa reticenza della buona fata settentrionale, la quale non rivela a Dorothy il potere delle pantofoline d’argento della Strega perita nell’incidente. Possiamo solo immaginare che tale riserbo si spieghi con la missione salvifica che Dorothy è chiamata, per destino ed elezione, a svolgere e che la fata non vuole o non può ostacolare.
Dorothy dunque viene indirizzata piuttosto laconicamente alla volta della Città di Smeraldo, circondata da un grande deserto, proprio come la fattoria dei suoi zii nel Kansas. Qui potrà chiedere udienza e consiglio al grande Mago di Oz.
Diciamolo pure: la bambina sembrerebbe mandata allo sbaraglio. Se i Succhialimoni appaiono degli ingrati, la fata è mendace o quanto meno fuorviante: possibile che ignori che le scarpette d’argento, di cui Dorothy si è impossessata come spoglie del nemico sconfitto e che ha indossato in sostituzione delle sue calzature logore, siano dotate della virtù prodigiosa di condurre in qualsiasi luogo? È lecito dubitarne, anche se si tratta di una fata anziana e debole, che non poteva opporsi alla prepotenza della sua malvagia collega orientale.
E così Dorothy intraprende con flemmatica diligenza, recando con sé un panierino con poche vivande, il suo viaggio iniziatico e catartico sulla base di indicazioni vaghissime. Dovrà seguire una strada pavimentata da mattoni gialli. Saranno d’oro questi mattoni? Siamo quindi in una specie di Eldorado? 
Forse. Di sicuro le genti che Dorothy incontra sembrano godere di un florido e probo benessere, nonostante la schiavitù a cui erano sottomesse, e si dimostrano generose con la piccola viandante e la sua strana combriccola.
Dorothy infatti verrà subito affiancata da alcuni simpatici adiuvanti che, se dapprima si contraddistinguono per le loro specifiche lacune, ben presto si rivelano utilissimi alleati.
Il primo è lo Spaventapasseri, che Dorothy libera dal palo in cui era infilzato (o crocefisso).
Lo Spaventapasseri è un precocissimo neonato. Ha appena due giorni di vita, ma già ha una personalità sviluppata e una sua visione del mondo. In lui risiede il mistero della vita. Per quanto smembrato, con la paglia che lo costituisce pesta e dispersa, egli continua a esistere, sicché basta ricomporne il corpo, ridando forma al suo corpo disfatto, riempiendo di stoppie i suoi cenci, ed ecco che egli torna ad essere un soggetto animato che ha idee e percezioni (4). Tuttavia, forse a causa della sua scarsa efficacia come guardiano dei campi, lo Spaventapasseri si ritiene sprovvisto di cervello. Ambisce quindi ad ottenerlo per intercessione del Mago di Oz, associandosi al pellegrinaggio di Dorothy.
Lo Spaventapasseri è un piccolo Golem, ancorché scaturito da un’inconsapevole alchimia. Il contadino che lo costruisce crede di imitare soltanto una forma umana, assemblando un mero fantoccio. Ma ogni qual volta provvede il pupazzo di un senso simulando con rudimentali accorgimenti l’organo corrispondente, nello Spaventapasseri si accende una sensazione che, come nella statua di Condorcet, si aggiunge alle altre, dando vita a una sempre più vasta consapevolezza. L’atto finale di questa creazione artigianale (che viene istintivo paragonare a quella di Pinocchio) è la saldatura della testa al resto del corpo. Ora lo Spaventapasseri ha una “testa sulle spalle”. È quindi un individuo in piena regola e del tutto conscio delle proprie responsabilità. A lavoro finito, il contadino, soddisfatto della sua opera, commenta: “sembra proprio un uomo!”. E un altro contadino, che ha assistito a questa arcana genesi, ribatte: “Ma è un uomo!”. 
Lo Spaventapasseri è d’accordo. Ha già la piena coscienza della propria umanità. Suo unico cruccio sarà d’ora in poi la mancanza di un cervello. Sua unica paura l’essere divorato dalle fiamme. Come se il pensare con la propria testa fosse tutt’uno con il pericolo di finire sul rogo.
Con il suo aspetto da giullare, lo Spaventapasseri suggerisce l’insidia di una qualche inespressa follia o eresia. 
In realtà, lo Spaventapasseri è già perfettamente provvisto di un cervello e nel corso del viaggio a fianco di Dorothy darà prova a più riprese della sua intelligenza, trovando ingegnosi escamotage per risolvere le situazioni più problematiche.
Analogamente, il Boscaiolo di Stagno che teme di aver perduto la propria umanità man mano che le membra del suo corpo venivano sostituite da protesi di metallo, e che pertanto vorrebbe recuperare il suo cuore che si era dimostrato capace di un amore appassionato, è tutt’altro che una creatura priva di sentimenti. Se lo Spaventapasseri ha un cervello sopraffino, il Boscaiolo ha un cuore generosissimo. 
Non appena sbloccato con un po’ d’olio versato sulle sue giunture arrugginite, si dimostra subito “una persona molto educata e capace di gratitudine”. L’uccisione accidentale di uno scarabeo, che ha involontariamente calpestato, lo getta in un tale sconforto che le sue lacrime, copiosamente sgorgate per il dispiacere e il rimorso, gli arrugginiscono e bloccano le mascelle.
Tra l’avere un cuore e il disporre di un cervello, il Boscaiolo non ha dubbi, “perché il cervello non basta a render felice una persona e la felicità è quello che conta di più al mondo”.
Parafrasando Pascal, il cuore ha ragioni che la ragione non conosce. Sennonché, è proprio il cuore, ovvero la pietas, a causare al Boscaiolo un travaglio morale angoscioso che scaturisce dalla possibilità ipotetica di compiere il male senza volerlo e di arrecare sofferenza in un modo meccanico e casuale, come nell’incidente che ha provocato la morte dello scarabeo. 

“Voi che avete il cuore, – diceva – avete qualcosa che vi guida e quindi non è necessario che vi affanniate tanto a far il bene: ma io non l’ho, ed è necessario che vada molto cauto”.

È un ragionamento etico che non manca di una sua sottigliezza, ma che è inficiato da una fondamentale contraddizione, ossia dal suo essere una considerazione che presuppone proprio l’esistenza di un cuore sensibile e tenero che si affligge per la malasorte, perfino potenziale, del prossimo, tanto da costringersi a una condotta morale prudente e rispettosa delle altrui condizioni.
Il trittico dei sodali di Dorothy è completato dal Leone, il quale ambisce a un coraggio degno del suo rango, di cui si sente privo per un difetto congenito e che cerca vanamente di simulare con atteggiamenti feroci. Inutile dire che anche il Leone possiede già quanto cerca e vorrebbe implorare al Mago di Oz. 
Già nell’avventura contro i terribili Tamaruc – “enormi bestioni dal corpo di orso e dalla testa di tigre” – il Leone, che si suppone codardo, dimostra una generosa temerarietà per difendere i suoi amici.
Ciascuno, insomma, si ritiene privo di una particolare virtù di cui invece dispone abbondantemente. E la stessa Dorothy è inconsapevole del fatto che le scarpette magiche che indossa potrebbero condurla in un attimo nel suo agognato Kansas.
Se lo Spaventapasseri si sforza di aguzzare l’ingegno che pensa di non avere e il Boscaiolo si impone un rigore morale al quale in teoria non dovrebbe essere abilitato per insufficienza cardiaca, il Leone si fa coraggio con uno sforzo autarchico di volontà, smentendo il pusillanime aforisma del Don Abbondio manzoniano.
Ad esaltare le doti nascoste di questi tre personaggi sembra essere il potere taumaturgico della piccola Dorothy. Ciascuno detiene virtù complementari che unite a quelle dei compagni formano una solidissima società. Se Dorothy ha svolto un ruolo liberatorio – alla San Girolamo – nei confronti dell’inibito Leone, ed emancipatorio nei confronti dell’impacciato Spaventapasseri, è ai suoi comandi che il Boscaiolo si dimostra un pioniere e un soldato inarrestabile e talora micidiale. La sua scure abbatte enormi tronchi, spianando la strada attraverso la foresta, e mozza teste di belve e nemici, rivelandosi una mannaia implacabile.
Corazzato e impavido, il Boscaiolo – più che un operaio, come a qualche esegeta è sembrato – sembra un guerriero, un paladino, che brandisce una specie di invincibile Durlindana.
Il gruppo dorothiano, infatti, a prima vista si configura come una sinergia di debolezze: una bambina con un minuscolo cagnolino, un leggerissimo uomo di paglia, un falegname anchilosato e rabberciato, un leone vile e piagnucoloso. Ma a conti fatti questo gruppo si rivela uno straordinario manipolo di conquistadores capace di espugnare un regno dopo l’altro.
Pur ottenendo il consenso dei popoli con cui entrano in contatto, Dorothy e i suoi amici non innescano processi rivoluzionari o di ribellione. Né d’altra parte aspirano al potere. Le loro ambizioni sono di mera autorealizzazione e, nel caso di Dorothy, di restaurazione di uno stato quo ante di armonia familiare, sconvolto dall’intervento devastante del ciclone.
Tuttavia questo eteroclito gruppo di amici impara strada facendo – e a sua volta insegna – una vincente lezione strategica: l’unione solidale dei piccoli può dar vita a una compagine vincente, più forte perfino della natura ostile e della magia nera. La dimostrazione di questa tesi è affidata in modo esemplare al popolo dei topi, i quali per ripagare l’aiuto prestato dal Boscaiolo alla loro regina, salvano il Leone dal sonno mortifero causato dal campo di papaveri. Minuscoli ma numerosi, topini e ratti campagnoli riescono a trascinare la pesante belva assopita lontano dagli effluvi soporiferi con l’ausilio di tante piccoli funi e di un carretto prontamente realizzato dall’alacre Boscaiolo.
Queste manifestazioni di riconoscenza e di mutuo soccorso sono tipiche degli animali o comunque dei personaggi non umani. Anche le Scimmie alate, dapprima obbligate a servire la Perfida Strega dell’Ovest, si dimostrano in seguito delle creature leali e grate. 
Non a caso nella città degli Smeraldi, ove ha sede la reggia di Oz, non vi sono animali.

“Non si vedevano né cavalli né altri animali: la gente trasportava la merce su piccoli carretti verdi che spingeva da sola”.

Non si tratta di un’assenza dovuta a povertà (“Tutti avevano l’aspetto prospero e felice”), ma di una sorta di interdizione. È come se Oz, “il Terribile” e occulto Signore che fonda il proprio potere sulla paura e sul mistero riguardo alla sua persona, temesse di poter essere smascherato dagli animali in quanto creature non suggestionabili dai suoi trucchi plateali. E infatti, a svelare la sua messinscena sarà proprio Totò, l’unico sprovvisto di parola, ma pur sempre eloquente nei suoi comportamenti.
Il Mago di Oz non è altro che un ciarlatano che ha creato intorno a sé un alone esoterico azionando e rappresentando una complessa macchina teatrale che lo fa apparire di volta in volta nelle più diverse sembianze. Nascosto dietro un paravento, egli è soltanto il regista di un fantasmagorico spettacolo il cui fine è suscitare stupore e soggezione.
Anche queste metamorfosi di Oz suggeriscono un accostamento al pensiero di Francesco Bacone e in particolare ai suoi “idoli” (idola tribus, idola specus, idola fori, idola theatri), cioè quelle false nozioni che sono profondamente radicate nell’animo umano e che alimentano gli equivoci, i pregiudizi, le finzioni, tutto ciò che è fittizio.
Baum si dimostra un acutissimo critico dei meccanismi politici di creazione del consenso e di autorappresentazione simbolica del Potere. Attraverso un uso ipnotico del colore verde, che si stende in modo pervasivo su tutto il panorama urbano, Oz imprime ed esprime il proprio suggello e controllo su ogni aspetto della vita sociale. Sottraendosi alla vista del popolo, si rende inoltre incontrollabile e incontestabile. Ignoto e irraggiungibile, Oz assume aspetti allegorici che lo mostrano ora come un emblema macrocefalo, ora come un’apparizione leggiadra e danzante, ora come un terrificante Leviatano. Niente è come sembra. E in particolare, la natura del dominio politico è proprio la mistificazione delle sue forme. 
In realtà Oz è un ometto insignificante, “calvo e rugoso”. Un ventriloquo e un imitatore, specializzato nella riproduzione dei versi degli animali. Nato ad Omaha (“non tanto lontano dal Kansas!”) ha lavorato in un circo equestre. Un giorno, mentre svolgeva un numero a bordo di un pallone aerostatico, fu trascinato via da una corrente d’aria e volò per un giorno e per una notte, giungendo infine in “un paese strano e meraviglioso” i cui abitanti lo scambiarono per un mago. Il qui pro quo è il risultato di un classico effetto scenico. 
La stessa Città di Smeraldo appare interamente verde solo perché una legge impone a tutti gli abitanti di inforcare lenti colorate di verde (“se tu metti un paio di occhiali verdi, si capisce che tutto quel che guardi ti sembra di questo colore”). Probabilmente qui Baum sta citando in modo parodistico un noto passo della Critica della ragion pura di Kant.
Oz è dunque un illusionista. Millanta facoltà che non possiede e finge di essere ubiquitario. In verità non è in nessun luogo, poiché Oz non esiste, è un equivoco, un’allucinazione ottica e acustica. La sua è una voce falsa. Come lo sono le sue proiezioni caleidoscopiche.
La venuta di Dorothy ha spazzato via, proprio come un ciclone, questo suo castello di carte false. Qual è dunque lo sconvolgente potere di Dorothy? Sembrerebbe infatti una bambina sprovvista di particolari doti. Certo, il coraggio non le manca, ma il suo autocontrollo sembra soprattutto il risultato delle buone maniere impartitele dagli zii. Dorothy è una piccola maniaca dell’ordine e della pulizia. Giunta avventurosamente nel meraviglioso mondo di Oz, non si scompone più di tanto. Accingendosi a partire alla volta della Città di Smeraldo, non dimentica di fare toletta e di assumere l’aspetto più lindo e dignitoso che il suo povero guardaroba le consente: “La bimba si lavò con cura, mise il vestitino pulito e si legò intorno al capo la cuffietta rosa da sole”. Lungo il cammino, si preoccupa di mantenersi il più possibile impeccabile, “rassettandosi con cura le pieghe” che fatalmente si sono prodotte nell’abitino di mussola lavato e stirato con dedizione amorevole dalla zia Emma. Da “bimba beneducata”, non si lascia distogliere dalle peripezie del viaggio nella cura della propria igiene. Benché sia costretta talora a dormire per terra e a ricoprirsi di foglie, provvede comunque a mondarsi da ogni impurità, ricorrendo a quanto le offre la natura stessa (“Allo spuntar del giorno, Dorothy si lavò in un ruscello d’acqua limpida”).
Questa sua indole candida, non solo esteriore, certo, ma sempre attenta alla forma, all’etichetta, sarà l’arma che le consentirà di sconfiggere e uccidere la Perfida Strega dell’Ovest.
Laida e ributtante, la strega è una specie di Moira guercia che col suo unico occhio, “potente come un telescopio”, vede e controlla ogni cosa. Forse è per questa menomazione che teme il buio: avere un solo occhio espone ai rischi del Polifemo omerico. Ovvero a quella cecità che vanifica ogni forza. E il non riuscire a vedere è quanto più si approssima a una condizione di impotenza. Ancora di più però teme l’acqua, di cui ha un vero orrore poiché potrebbe liquefarla (come infatti avverrà ad opera della tremenda Dorothy).
Presa prigioniera dalla strega (che come certi pirati porta una benda nera sull’occhio mancante nelle splendide illustrazioni originali di W. W. Denslow), Dorothy viene relegata in cucina, dove, per una sorta di contrappasso, le viene imposto “di pulire le pentole e lucidar le padelle, di scopare il pavimento e di tenere viva la fiamma del camino”.
Trasformata, dunque, in una Cenerentola, la piccola Dorothy sembrerebbe avere poche speranze di affrancarsi da questo umiliante servaggio. Ma la sua stessa inclinazione alla pulizia costituisce la migliore garanzia della sua salvezza e della sua riscossa. La strega si tiene infatti a distanza di sicurezza da Dorothy, che è sempre intenta in attività che prevedono l’uso dell’acqua, sia per detergere le stoviglie, sia per la cura scrupolosa dell’igiene personale (“non si avvicinava mai mentre la bambina faceva il bagno”).
Tale prudenza non la salverà tuttavia da un esiziale secchio d’acqua scaraventatole addosso da Dorothy con una reazione istintiva nel tentativo di difendere le sue scarpette argentate.
Ridotta a “una massa liquida, informe e bruniccia”, quel che resta del corpo della strega imbratta il “pavimento ben spazzato della cucina”. Sicché a Dorothy non resta da fare, come esequie e rituale esorcistico, che gettare “su quella poltiglia un altro secchio pieno d’acqua” e ramazzare via gli ultimi luridi resti della sua nemica. Infine, recuperata la scarpetta che la strega voleva sottrarle, “la pulì e la lucidò con un cencio, poi se la rimise al piede”.
Con le armi di una massaia, Dorothy si è sbarazzata della potente rivale. Come i suoi inseparabili amici, anche lei potrebbe esclamare: “Questa è la mia battaglia”. 
Come una tempesta, è caduta dal cielo sul meraviglioso mondo di Oz per nettarlo dalle sue scorie più nocive e nauseanti. In fondo tutta questa diavoleria è solo sporcizia! 
E ogni cosa ora vacilla sotto l’impeto delle secchiate d’acqua della innocente ma risoluta bambina. Il primo a essere travolto è proprio il Mago di Oz, costretto a rivelare la “commedia” truffaldina che ormai replica da lungo tempo e a pianificare la sua fuga.
Dovrà prima esaudire le richieste che gli sono state rivolte e per le quali ha vanamente tentato di temporeggiare e mercanteggiare.
Ricorrendo a suggestive procedure retoriche, il mago fornisce lo Spaventapasseri di un cervello composto da spilli ed aghi, che esprimono metaforicamente la sua “acutezza”. Analogamente trapianta nel petto metallico del Boscaiolo un cuoricino d’argento, operando una rituale saldatura. Infine somministra al Leone un placebo contenuto in una bottiglietta verde allo scopo di infondergli il coraggio.
Sono prodigi da burla che non producono altro effetto in coloro che ne beneficiano che dare fiducia in loro stessi e fugare ogni residua incertezza. Miracolo, se vogliamo, di valore non trascurabile, considerando che le vittoriose gesta del trio, benché clamorose ed entusiasmanti, non lo avevano liberato da un profondo senso di inadeguatezza. E se Dorothy si dimostra indulgente con il patetico impostore (“era un buon uomo, anche se un cattivo mago”), forse il Boscaiolo di Stagno si avvicina di più a una paradossale verità quando esclama con riconoscenza “Oz non era un mago da poco, dopo tutto”.
È infatti proprio grazie alla terapia di Oz che lo Spaventapasseri ha superato la sua intima convinzione di essere un povero stolto e può accettare la proposta unanime di assumere l’incarico di Governatore (come Sancho Panza) della Città degli Smeraldi, rivelandosi un ottimo leader (ancorché di paglia, ci rammenta Baum con un pizzico di satira politica).
Analoghi incarichi onorifici e gerarchici spettano al Boscaiolo e al Leone: il primo presso i Martufi, l’altro come re degli animali della foresta che ha liberato dal pericolo di un mostro immondo. Al seguito di Dorothy, tutti hanno fatto carriera e si è costituito un nuovo assetto politico basato sulla libertà dai sortilegi e dalla paura. Come per i poteri magici di Oz, anche il carisma di questi nuovi capi è frutto di una mitopoiesi popolare. Su questo punto Oz è molto chiaro e sincero: “Ma come faccio a non comportarmi da ciarlatano, – disse parlando tra sé, – quando tutta questa gente mi costringe a far cose che tutti sanno benissimo che non si possono fare?”.
Come dire che non tutta la demagogia è attribuibile alle colpe del demagogo, e che una parte non piccola di responsabilità va ricercata anche in una sorta di vocazione delle masse a lasciarsi ingannare.
Dalla risistemazione geopolitica scatenata dal ciclone Dorothy (il suo cognome, tenuto in verità un po’ nascosto, è Gale, cioè burrasca) resta escluso il Regno della Porcellana, di ascendenza anderseniana ma anche autobiografica (5), troppo fragile per sopportare un qualsiasi intervento riformatore e raggelato nel suo terrore di essere spezzato e infranto da un semplice tocco.
Come pure l’inaccessibile bosco sacro, protetto dai proto-ecologici “guardiani della foresta”, i grandi alberi che sbarrano il passo a chiunque intenda violare il sacro perimetro verde (ma che dovranno vedersela con l’affilata scure del Boscaiolo di Stagno).
Benché feriti e mutilati, a causa del passaggio di Dorothy e dei suoi amici, questi due mondi rimangono inalterati e chiusi nel loro autoisolamento. 
Il meraviglioso mondo di Oz è invece mutato radicalmente. Va via il suo Principe-Mago, proprio com’era venuto, mediante una mongolfiera. Il male è stato estirpato. Nessuna servitù feudale vi è più applicata (le stesse Scimmie Volanti sono tornate in possesso del berretto d’oro che le costringeva a ubbidire a tre comandi).
Dorothy, che ha scatenato questa ventata di rinnovamento, torna a casa con inaspettata facilità. Occorre soltanto che batta tre volte i tacchi delle sue scarpette fatate e che faccia appena tre passi. 

“Si trovò d’un tratto a roteare per aria a una velocità così straordinaria, che tutto quel che poteva vedere o sentire era il vento che le fischiava nelle orecchie.
Le scarpette d’argento non fecero più di tre passi e poi Dorothy si fermò così bruscamente che ruzzolò sull’erba diverse volte prima di capire dove si trovava”.

Tutto il percorso formativo di Dorothy, la sua odissea, culmina in questo nostos che chiude il cerchio della storia. Dov’era dunque il Regno di Oz? A un giorno e una notte di volo in pallone dal Nebraska? A soli tre passi, ancorché magici? In un altrove incommensurabile?
Da qualche parte oltre l’arcobaleno, è l’indicazione sognante e indefinita della celebre canzone interpretata da Judy Garland (6). Over the Rainbow è il manifesto tematico del film di Fleming. Per Salman Rushdie “è, o dovrebbe essere, l’inno di tutto gli emigranti del mondo, di tutti quelli che vanno alla ricerca del luogo in cui ‘i sogni che osi sognare realmente si avverano’. È una celebrazione della Fuga, un grande peana dell’Io Sradicato, un inno – anzi l’inno – all’Altrove” (7). Stupisce pertanto che Rushdie ritenga l’alterità onirica del mondo di Oz “il peggiore dei cambiamenti apportati all’idea originale di Baum”, dove “infatti, non c’è ombra di dubbio che il Regno di Oz sia reale, ossia un posto del medesimo ordine, se non della medesima specie, del Kansas” (8).
Con tutto il rispetto, mi permetto di dissentire. Dorothy non è Alice, anche se indubbiamente ne scaturisce.
“Da che parte del mondo vieni, si può sapere?”, chiede la zia Emma, abbracciando la nipotina appena tornata. Certamente da un altro mondo. 
Quando Baum mostra Dorothy e il suo seguito nell’atto di uscire dal bosco, che il Leone ha appena liberato da un ragno gigantesco che atterriva tutti gli animali, e scrive che “uscendo a riveder la luce, si trovarono davanti a una ripida collina”, sta forse offrendoci una chiave di lettura dantesca.
Il viaggio ultraterreno di Dorothy ha avuto ripercussioni sconvolgenti anche per il desolato Kansas: lo zio ha costruito una “nuova fattoria” che è facile immaginare un po’ più ricca. Il che certamente rende Dorothy ancora più “felice di essere tornata a casa”.

1. Lyman Frank Baum, Il Mago di Oz, Milano, Rizzoli, 1978, traduzione di Nini Agosti Castellani.
2. “Ma il vento improvvisamente cambiò spirando per molti giorni ostinatamente da Occidente, tanto che, costretti ad avanzare lentamente, già pensavamo di tornare indietro, quando di nuovo si levarono fortissimi venti australi leggermente inclinati verso oriente; e noi, pur cercando di resistere nei limiti delle nostre possibilità, fummo tuttavia spinti verso settentrione”, Francesco Bacone, La Nuova Atlantide, Milano, TEA, 1991, a cura di Paolo Rossi, p. 51.
3. Nel bellissimo film di Victor Fleming The Wizard of Oz (1939) con Judy Garland nella parte di Dorothy, tale dicotomia tra il piano della realtà e la dimensione, forse onirica, della meraviglia, è resa tramite il passaggio dal bianco/nero delle sequenze iniziali a un ipercromatismo surreale.
4. Analogamente il Boscaiolo di Stagno mantiene la propria individualità come organismo vivente anche dopo che ogni parte del suo corpo è stata sostituita con ricambi di latta. Come nel mito di Argo, il Boscaiolo è divenuto un po’ alla volta tutt’altro, rimanendo però se stesso. Anche sotto questo aspetto, che potremmo definire di vita artificiale, il personaggio di Baum è un prototipo (con largo anticipo su Karel Čapek) di quei robot che saranno nel corso del Novecento un elemento tipico delle narrazioni fantascientifiche.
5. Tra i molti lavori che Baum svolse nella sua vita (attore, impiegato, avicoltore, negoziante, giornalista, editore, produttore cinematografico…) vi fu anche quello di venditore porta a porta di porcellane.
6. Com’è noto Over the Rainbow, una delle più famose canzoni di tutti i tempi, ha rischiato di essere tagliata dal film di Victor Fleming, di cui peraltro è uno dei momenti di maggior lirismo e intensità. È altrettanto noto che la canzone di Harold Arlen (musica) e E. Y. Harburg (testo), considerata dai discografici statunitensi la “migliore canzone del XX secolo”, è un evidente plagio dell’Intermezzo del Guglielmo Ratcliff (1895) di Pietro Mascagni. Tuttavia è uno di quei casi in cui la reinvenzione dell’originale è legittimata a posteriori da una perfetta coerenza e organicità con l’opera complessiva in cui è incastonata. 
7. Salman Rushdie, Il Mago di Oz, Milano, Oscar Mondadori, 2000, traduzione di Giuseppe Strazzeri, p. 34.

8. Ivi p. 40.
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