LO STRANO CASO DI MR BREXIT E DR REMAIN
22/10/2019
di Vincenzo Scalia
L’ennesimo stallo sulla Brexit del 19 ottobre è l’emblema di una situazione sempre più confusa e contraddittoria: il Parlamento britannico vota la richiesta di estensione dell’uscita del Regno Unito. Il primo ministro, privo di una maggioranza anche risicata, è costretto a prenderne atto, ma, contemporaneamente, non può tradire i suoi proclami di fronte all’opinione pubblica, per cui invia a Bruxelles due lettere: una in cui chiede un’estensione a nome della House of Commons, l’altra a nome suo, in cui chiedere di respingere la richiesta del Parlamento. Non credevamo possibile che la Gran Bretagna scendesse al livello degli azzeccagarbugli nostrani, eppure i colpi di scena si susseguono ogni giorno, disorientando anche gli osservatori più navigati. Le ragioni di questo stallo sono molteplici, e promettono di aggravare la situazione. In primo luogo, il problema principale è la Brexit in sé. Sin da quando Cameron indisse il referendum alla fine del 2015, era chiaro che nessuno la considerava una prospettiva possibile, tanto che i remainers fecero campagna solo l’ultima settimana e i leavers, quando i risultati del 23 giugno del 2016 decretarono la loro vittoria, non avevano preparato nemmeno un discorso per celebrare l’esito della consultazione, meno che meno una strategia. Alla fine perfino Nigel Farage, leader dello UK Independence Party (UKIP), che aveva fatto campagna elettorale con maggiore convinzione di tutti, dovette ammettere di aver mentito sui costi della sanità che – solo a parole !- la Brexit avrebbe risparmiato e si dimise da segretario del suo partito. Era stato tutto un assalto alla diligenza di David Cameron, allo scopo di indebolirlo per raccoglierne le spoglie. La tattica si è rivelata scriteriata, perché al suo altare sono stati immolati due premier e rischia di essere delegittimato un altro. Inoltre, dietro la tattica, non esisteva alcuna strategia. Ad esempio, nessuno aveva previsto che la questione irlandese si sarebbe riaperta in modo così drammatico, per quanto in termini diversi. Oggi la Repubblica d’Irlanda rappresenta l’hub delle multinazionali informatiche americane in Europa, e si propone come meta turistica internazionale. Queste trasformazioni economiche si sono ripercosse sul tessuto sociale e culturale di un paese a forte tradizione cattolica, che oggi vanta un primo ministro con un cognome indiano, dichiaratamente omosessuale, e ha legalizzato l’aborto. Nelle sei contee dell’Irlanda del Nord, viceversa, troviamo una realtà che ancora si dibatte tra le macerie di un passato industriale, con alti indici di disoccupazione e l’equilibrio statico tra repubblicani e unionisti, con i primi che hanno raggiunto numericamente i secondi. La comunità protestante si sente sempre più assediata e marginalizzata, e non riesce ad accettare la conseguenza di questi cambiamenti, cioè una riunificazione dell’isola. Così da un lato si assiste a una ripresa, seppur blanda, della conflittualità interreligiosa, dall’altro lato l’opinione pubblica britannica, per la prima volta in due secoli, comincia a considerare come un fardello l’unione con le sei contee. Si manifesta, attraverso sondaggi e prese di posizione anche degli intellettuali più conservatori la volontà di abbandonare un territorio che provoca costi eccessivi, relativi all’elargizione dei sussidi per gli strati marginali (la Thatcher aumentò la spesa pubblica solo nelle sei contee) e al dispiegamento dell’esercito. In secondo luogo, la questione irlandese si rivela cruciale per mantenere gli equilibri politici sempre più precari, con un governo che è uscito senza maggioranza dalle ultime elezioni del 2017 e che ha dovuto richiedere il sostegno del Democratici Unionist Party, ovvero il partito espressione degli unionisti nordirlandesi. In un contesto in cui alcuni deputati Tory hanno abbandonato il partito, e la maggioranza, proprio in seguito alla Brexit, per Boris Johnson, i voti del DUP, diventano cruciali, rimettendo sulla scena politica una questione che sembrava risolta dopo il Good Friday Agreement del 1998, che pose termine conflitto tra le comunità delle sei contee. La compattezza degli schieramenti, tuttavia, non riguarda soltanto i Tories, bensì anche le altre formazioni politiche. I laburisti, soprattutto, hanno subito la scissione di sei blairiani che stanno cercando di costruire uno schieramento europeista insieme ai fuoriusciti dai Tories. Ne consegue uno scollamento ulteriore tra il paese legale e il paese reale, che le recenti elezioni europee hanno mostrato nella sua gravità. I Tories sono diventati il secondo partito, i Labour addirittura il quarto, di fronte all’avanzata del pro-Brexit party e ai Libdem, tornati sulla breccia per via della loro posizione chiaramente europeista, che li fa ritenere più credibili dei due maggiori partiti agli occhi dei remainers. Nessuna delle forze politiche, tuttavia, sembra avere recepito il messaggio degli elettori. La soluzione più ovvia sarebbe quella di tornare alle urne, ma Johnson vorrebbe tornarci forte di un accordo o di un no deal che lo renderebbe più credibile davanti agli elettori. Gli altri partiti giocano all’ottenimento di rinvii che, se da un lato delegittimerebbero Johnson, dall’altro sortirebbero il risentimento ulteriore di un’opinione pubblica frastornata da 3 anni e mezzo di stallo. La sterlina si è svalutata del 20%, il destino dei 4 milioni di lavoratori UE è ancora incerto, e parti importanti di un’economia oggi incentrata sui servizi rischiano di rimanere impantanate o di risentire negativamente della Brexit in generale, ma soprattutto di un’uscita senza accordo. In terzo luogo, in questo scenario, manca del tutto una proposta politica chiara da parte della sinistra. Corbyn non è riuscito a capitalizzare il risultato del 2017. Avrebbe potuto chiedere le elezioni dopo le sconfitte in parlamento di Theresa May, ma non lo ha fatto, convinto che lo stallo dei Tories avrebbe favorito i laburisti, mentre così ha rimesso in gioco Boris Johnson e delegittimato il suo partito come una forza priva di una strategia e di una prospettiva. Se è vero che Corbyn teme anche la spaccatura del suo elettorato, dal momento che la Brexit è popolare anche presso settori della working class (e anche presso di lui…), dall’altro lato la mancanza di iniziativa politica non soltanto ha comportato una perdita di consensi, ma ha anche ridato fiato alla destra blairiana, in particolare presso i settori europeisti dell’elettorato labour. Inoltre, le accuse di antisemitismo che gli vengono mosse per via del suo sostegno alla causa palestinese, stanno ulteriormente delegittimando un leader che avrebbe potuto rappresentare una svolta per la Gran Bretagna e - paradossalmente in tempi di Brexit - per l’Europa. Ma il cerino in mano non lo vuole nessuno. Anche se la casa rischia di bruciare lo stesso.
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