di Vito Bianco
Uno sguardo al laboratorio dello scrittore Vito Bianco (tra i suoi ultimi libri Il posto del pittore e Versi del non riposo, entrambi del 2015), che sta progettando uno studio sulle ‘Distanze’ in letteratura. Stabilire tra noi e gli altri (un amore, un amico) la ‘giusta distanza’ è difficile e complicato; talvolta anche doloroso. Siamo quasi sempre o troppo vicini o troppo lontani. Nel primo caso mettiamo a fuoco singoli dettagli; nel secondo abbiamo una visone prospettica d’insieme ma non i dettagli. Solo la distanza adeguata, adatta a quella particolare visione è in grado di darci l’immagine più vicina al vero della persona che amiamo o dell’amico che vogliamo conoscere meglio. Potremmo chiamarla la questione dell’ortometria, della distanza corretta, dei metri giusti per dare vita alla relazione più soddisfacente. Stabilirla – questa distanza – è il compito del soggetto che vuol conoscere, sia esso l’innamorato (Swann e Marcel nella Ricerca del tempo perduto di Proust) o il narratore di Fitzgerald e Mario Soldati. L’impresa richiede intelligenza e coraggio, e non si è mai sicuri della sua riuscita. E poi: vogliamo davvero conoscerla, la verità? Non sarebbe meglio, diciamo più salutare, accontentarsi delle sue mutevoli immagini (versioni)? Charles Bovary, per esempio, sembra uno di quei mariti che non vogliono sapere; potrebbe interpretare meglio i segnali e i turbamenti dell’adorata consorte, ma non lo fa. È ‘troppo vicino’, o ha deciso di negare l’evidenza? Sul confine sottile tra queste due possibilità si gioca tutto il romanzo. Charles infatti è una specie di doppio maschile della moglie: questa non sa leggere i segni della finzione come segni della finzione; il marito non sa o non vuole leggere correttamente i segni del disamore della donna che ha sposato con tanta convinzione e scarsa conoscenza. Segni, segnali, indizi muti, parole che forse involontariamente hanno qualcosa da rivelare: tutti i personaggi (tranne uno) che abbiamo citato li aspettano, li cercano, si sforzano di decifrarli per comporre un ritratto veritiero della persona che sta loro a cuore. Il narratore della Mite non ha voluto vedere la donna che gli viveva accanto e ora si dispera e rilegge tutto il passato alla luce terribile della morte volontaria della fanciulla troppo ‘mite’ per trovare un altro modo per farsi vedere. Swann cerca i segni del tradimento di Odette; Marcel, prima i segni dell’amore e poi quelli del tradimento; i narratori di Fitzgerald e Soldati (Il vero Silvestri, La giacca verde) cercano con pazienza i tasselli del puzzle che serviranno a comporre le figure complete dei loro protagonisti; Emma Bovary cerca e trova i segni dell’amore romantico che cocciutamente vuole trovare, anche a costo di inventarseli, così come si inventa un romanzo. Suo marito, Charles, è anche lui accecato dall’amore, quindi non vede i segni del volto e dei gesti che gli svelerebbero le tracce dell’adulterio: e quando, per così dire, ci sbatte gli occhi, li nega, o li travisa. Come fa il console di Lowry, ma nel senso opposto: vede cioè l’adulterio dove avrebbe dovuto vedere l’amore; ancora un dramma dell’incomprensione che la vicinanza anziché impedire scatena. Parlo di ‘distanza’ e lo faccio in un duplice senso, fisico e psicologico. Le due ‘distanze’ possono opporsi, come sappiamo: la vicinanza fisica non sempre è anche vicinanza psicologica o sentimentale, mentre una momentanea o duratura lontananza fisica può accoppiarsi con una vicinanza sentimentale o psicologica. Ciò vuol dire che la regola della ‘giusta distanza’ è indipendente dalla vicinanza spaziale, e può quindi succedere che a far brillare una verità contribuisca proprio la lontananza nello spazio, oltre che la lontananza nel tempo. Si potrebbe dire che ci sono cose uomini donne accadimenti che si vedono meglio da lontano, che rivelano aspetti essenziali solo se distanziate, solo se oculatamente tenute a distanza. Come certi quadri, vogliono essere guardate da una certa distanza, ci chiedono di fare due tre passi indietro… Forse qualcuno dei protagonisti delle finzioni che abbiamo scelto sarà capace di allontanarsi. Di fare quei tre passi per trovare la giusta distanza. Nella prima parte si passano al setaccio casi di – possiamo dire – sguardi che da lontano cercano di mettere a fuoco una figura sfuggente o seminascosta da una nebbia di testimonianze incerte o contraddittorie; o che l’abituale intimità o vicinanza impediva di vedere in tutta chiarezza. Passo dopo passo, frammento dopo frammento, voce dopo voce, il racconto si avvicina alla meta, lambisce il personaggio, quasi lo tocca. Jean, in un romanzo breve di Patrick Modiano, dopo avere per anni esplorato le regioni meno battute del mondo, fa il suo viaggio più lontano restando nascosto in una delle molte periferie della sua città, che mostra di conoscere con la precisione di un cartografo sentimentale. Stanco della propria vita, deluso dalla compagna che lo tradisce con il suo migliore amico, il narratore di Viaggio di nozze sente il bisogno di prendere le distanze prima di tutto da se stesso, prima che da una professione che, scelta a vent’anni per l’avventura che prometteva (le terre lontane sulle tracce dei viaggiatori del passato) è diventata per lui una mera ripetizione priva di stimoli. Si parte da lontano. Ma la lontananza misurata nelle prime pagine del denso e articolato romanzo breve di Modiano è solo una delle distanze messe in scena e calcolate nel corso della stratificata vicenda memoriale dipanata con meditativa lentezza dal documentarista Jean, narratore e protagonista di una verticale ‘fuga da fermo’ alla ricerca più o meno consapevole di una possibile verità su una storia del tempo di guerra (la Francia di Vichy) e, quel che davvero conta, su di sé. Jean arriva in un albergo di Milano in un afoso 16 agosto di un anno imprecisato. Qui viene a sapere che il giorno prima di ferragosto in una delle stanze è morta suicida una donna. Sfogliando il Corriere della sera sul treno che deve riportarlo a Parigi, il narratore legge il nome della donna e scopre l’identità della morta: è Ingrid Teyrsen, da lui conosciuta molti anni prima sulla Costa Azzurra insieme al marito: “Avevo comprato il Corriere della Sera. Volevo leggere il trafiletto che parlava di quella donna. Probabilmente era arrivata da Parigi sullo stesso binario dove mi trovavo ora e avrei fatto il suo stesso percorso in senso inverso, con cinque giorni di intervallo. Che strana idea venire a suicidarsi qui, mentre gli amici l’aspettavano a Capri… Forse per quel gesto c’era un motivo che avrei sempre ignorato”. Kurtz, alla fine della ricerca, della navigazione africana verso il ‘cuore di tenebra’, è un volto in piano ravvicinato dai tratti ben visibili, ma l’aura quasi tangibile della follia lo risprofonda nell’oscurità: chi è il vero Kurtz, il saggio, il responsabile agente di commercio, o il semidio invasato a cui gli indigeni offrono, per timore o superstizione, una cieca obbedienza? Vedere ‘da vicino’ come funziona la strategia del narratore ‘orale’ che dalla distanza temporale e fisica dispone i vari pezzi del quadro, può forse aiutare a capire in che modo la lontananza sia certe volte più lucida e potente del suo contrario: perché si concede tutte le meditazioni necessarie sui punti di vista alle quali sembra naturalmente portata e non ha fretta di arrivare alle conclusioni. Il racconto orale è poi per sua natura sempre pronto a mettersi in discussione e a tornare sui suoi passi; senza dimenticare che è vagliato e sorvegliato dal trascrittore, dal doppio letterario dell’autore Conrad, anche lui pronto a intervenire per correggere, sfumare o rendere problematico un dato che pareva certo e incontrovertibile. L’inconoscibile può rimanere tale, ma cambia col mutare della distanza da cui si osserva o si scruta. A ben vedere, succede anche nel racconto di Calvino, dove un uomo che per lavoro viaggia molto (lo si immagina sempre in movimento) riesce a parlare con sincerità di sé e della donna che ha da poco lasciato solo mentre tenta di contattarla telefonicamente dalla solitudine ritrovata di una camera d’albergo. I tentativi non avranno l’esito sperato, ma fanno accadere l’essenziale: il monologo dell’uomo avvia la virtuale presa di contatto con la donna; fa nascere nell’assenza dell’altro polo l’intimità che l’abitudine aveva spento. Dobbiamo alle linee troppo cariche il testo che leggiamo, questo testo, poiché il resoconto della reale conversazione telefonica ci avrebbe messo sotto gli occhi un racconto di sicuro diverso da quello che troviamo sulla pagina. Possiamo quindi dire che la distanza e il mancato contatto telefonico producono un nuovo e imprevedibile contatto, un’imprevedibile vicinanza, tanto virtuale quanto vera. Nel finale la donna dell’inizio diventa molte donne possibili; diventa tutte le donne che l’instancabile giramondo conosce e saluta nelle cento città del suo perpetuo pellegrinaggio; e l’apologo sulla vicinanza possibile solo nella irrealizzata potenzialità della separazione (più aumentano i chilometri e più siamo vicini, e ‘se fossi qui ti direi…’) assume via via i tratti del racconto semifantastico che ci parla di paura della realtà e notturno desiderio di solitudine, che altro in fondo non è che la realizzazione – volontaria o involontaria – della massima distanza dal mondo restando a casa. Sull’isola ‘più lontana’ lo scrittore Jonatan Franzen fa finalmente i conti con il dolore per la morte dell’amico David Foster Wallace, scrittore dal talento formidabile e uomo tormentato dal male oscuro della depressione. Dopo un lungo tour di presentazioni del suo ultimo romanzo (Libertà) Franzen decide che è venuto il momento di affrontare il lutto ‘accantonato’ di quella perdita, e di partire per un luogo molto lontano scoperto casualmente: un’isola vulcanica quasi inaccessibile al largo delle coste cilene, Masafuera. Fuori dal mondo, correndo il rischio di perdersi o di scoprire un se stesso che non corrisponde all’immagine cullata sino a quel momento, l’altro io del Franzen famoso uomo di lettere accetta la prova della solitudine e del silenzio (dopo mesi di parole pubbliche) e cerca di mettere a fuoco la personalità sfaccettata e contraddittoria dell’amico e collega, che la semplificante apologia mediatica sta trasformando in una piatta figura di santo laico. Nelle pagine del lungo resoconto entrano anche le riflessioni sull’arte del narrare, sull’origine del romanzo e le note di rilettura del Robinson Crusoe, e si svolgono come una meditazione ibrida (saggio e racconto) sulla distanza, anzi, sulle distanze, come spesso succede, la prima lungo l’asse spaziale, l’altra su quello temporale; con la prima che invera e conclude la seconda, nel senso che allontana, elaborandolo, il lutto, che si può leggere come una sofferta vicinanza che si sforza di ritrovare ‘la giusta distanza’. Sparse le ceneri al vento si può tornare a casa. Che è quello che sempre facciamo, direbbe Novalis, anche quando stiamo camminando per allontanarcene. Ma si può partire restando, ci ricorda in versi Giorgio Caproni, non lasciando il posto dove non si è mai davvero stati. Nella terza parte ho pensato di convocare i casi letterari che presentavano ai miei occhi una ‘fenomenologia variabile’ di vicinanza lontananza e aggiustamenti progressivi, con ritorni avvicinamenti e complicazioni legati ai malintesi dell’eccesso di intimità o del suo opposto. Dicevamo di Swann, che passa dalla gaudente libertà del conquistatore disinteressato ai tormenti dell’innamorato che ogni dettaglio mette in sospetto; e del compito di rendere giustizia alla vita di un amico da parte del narratore nel sempre seducente romanzo di Fitzgerald (Il grande Gatsby). Accenniamo, per concludere questo rapido preambolo, alla strana vicenda del protagonista della Panchina della desolazione di Henry James, che ha il non facile compito di decifrare per decidere che fare l’ambivalenza anche fisica della donna tornata dopo tanti anni, che aveva odiato e che è ora per lui un mistero perturbante. E alla ricchezza della dialettica sentimentale nei due romanzi di Stendhal (Il rosso e il nero e La certosa di Parma), qui rivista attraverso la lente della distanza, o meglio, delle distanze, un modo, un pretesto, un’occasione per tornare a visitare i luoghi indimenticati di uno scrittore felice che conosceva l’arte di saper stabilire la giusta distanza e quella, altrettanto preziosa, di godere i piaceri di una ben calcolata lontananza.
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Gennaio 2021
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