Considerazioni inattuali su centralità operaia e nuovi movimenti *
(prima parte) di Riccardo Bellofiore Pubblichiamo questo intervento di Riccardo Bellofiore del 1988 come base di discussione per l'incontro che si terrà, con lo stesso autore, il prossimo 6 luglio a Palermo. Qui maggiori informazioni . Il rapporto dell’uomo alla donna è il più naturale rapporto dell’uomo all’uomo. In esso si mostra, dunque, fino a che punto il comportamento naturale dell’uomo è divenuto umano, ossia fino a che punto la sua umana essenza gli è diventata esistenza naturale, fino a che punto la sua umana naturagli è diventata naturale. In questo rapporto si mostra anche fino a che punto il bisogno dell’uomo è divenuto umano bisogno; fino a che punto, dunque, l’altro uomo come uomo è divenuto un bisogno per l’uomo, e fino a che punto l’uomo, nella sua esistenza la più individuale, è ad un tempo comunità. (Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 225. Corsivi nel testo) Don’t you know They’re talkin’ about a revolution It sounds like a whisper (Tracy Chapman,Talkin’ bout a revolution) Introduzione Nell’ultimo decennio vi è stata una sostanziale disattenzione, quando non inimicizia, tra quel che rimaneva del marxismo critico e le culture femminista ed ambientalista. Nelle pagine che seguono vorrei provare, dal mio punto di vista, ad interrompere questa sorta di reciproco disinteresse, nel modo forse più scomodo: entrando nel merito del pensiero rosa e del pensiero verde, presentandone un inizio di critica, e ciononostante accettando la sfida lanciata dal femminismo e dai verdi: convinto, come sono, che gli attacchi portati in questi anni dai cosiddetti nuovi movimenti alla cultura della sinistra, vecchia e nuova, siano spesso tutt’altro che infondati. I lettori (e le lettrici) giudicheranno se il tentativo sia troppo coraggioso o troppo ingenuo. Anticipo subito, per chiarezza, il punto di vista da cui parto ed il filo del ragionamento. Il mio discorso si regge su due convinzioni: che non siano esaurite tutte le potenzialità della rilettura ‘operaista’ del marxismo che ha permeato parte della nuova sinistra italiana (e dunque anche chi, come me, ha mosso i primi passi politici nel “manifesto”); e che non vi sia contraddizione ma rapporto fecondo tra ‘questo’ marxismo e la rottura operata dal sessantotto. Sono però anche convinto che ciò che c’è di positivo in questa recente tradizione possa vivere solo se essa esercita su se stessa una pesante riflessione autocritica. Nella mia riflessione tenterò di impiegare le nozioni di uguaglianza, di democrazia e di libertà come una cartina di tornasole, o se volete come una sorta di controllo di qualità, del potenziale emancipativo tanto dei movimenti che si rifanno alla classe operaia quanto dei cosiddetti nuovi movimenti, e dunque anche di quelle riflessioni che vogliono far capo alle cosiddette nuove soggettività. La tesi centrale del mio ragionamento è che tanto dentro il pensiero femminista quanto dentro il pensiero verde sono presenti non poche, e preoccupanti, ambiguità: si incontrano spesso argomentazioni che recuperano il valore delle differenze fuori o contro l’eguaglianza; ed è possibile individuare dentro l’uno e l’altro tendenze antiegualitarie e, forse, persino antidemocratiche. Non può essere nascosto, in altri termini, un potenziale esito conservatore e reazionario delle cultura della differenza sessuale e dell’emergenza ambientale. D’altro canto, femminismo e ambientalismo pongono problemi reali, su cui è grave il sottosviluppo della riflessione della sinistra: mi riferisco, in particolare, alla questione della articolazione di eguaglianza e differenze, ai pericoli della rottura dell’equilibrio ambientale, alla messa in discussione della centralità della produzione. Se dunque non è possibile limitarsi a cercare altrove, fuori dalla produzione, altre identità antagoniste, irrelate alla questione operaia – come è ormai di moda fare – va anche detto che il ritardo del marxismo critico (non solo, dunque, quello del marxismo e del movimento operaio tradizionali) non può essere semplicisticamente superato inglobando i problemi della liberazione della donna e dell’equilibrio uomo-natura dentro la classica contraddizione capitale-lavoro vista come esaustiva, riaffermando la centralità della produzione – come per esempio ha fatto nel numero scorso di questi “Quaderni” Mimmo Porcaro, ed in varie sedi Costanzo Preve. Così, Porcaro scrive che il movimento delle donne “difficilmente trae tutte le conseguenze dal semplice fatto che le mansioni lavorative maggiormente subordinate siano spesso assegnate alla forza-lavoro femminile: un vero processo di liberazione ha come componente decisiva la critica teorica e pratica di un modo di produzione che, dovendo inserire gli individui in funzioni lavorative gerarchizzate, si appoggia su altre gerarchie presenti nella società, ne impedisce il superamento, ed anzi le riproduce e le rende funzionali al proprio movimento” (Una gelida utopia, in “Quaderni del Cric”, n.2, p.30): il che è probabilmente vero (anche se personalmente sostituirei quel ‘decisiva’ con ‘necessaria anche se non sufficiente’), ma, come chiarirò nei prossimi paragrafi, dà una rappresentazione, ed anche una critica, riduttiva del femminismo, e dunque non ne coglie la possibile ed autonoma convergenza con la critica dell’economia politica per un superamento del paradigma della produzione. Ed ancora, sempre nel numero scorso, Preve lamenta come una sciagura la prevalenza nella cultura della nuova sinistra del femminismo differenzialistico e della critica della politica, “che hanno fatto ‘saltare’ il valore portante della idea di eguaglianza” (Soffia ancora il vento dell’Est?, ivi, p. 51): idea che però deve essere ben povera se i suoi sostenitori si rivelano capaci solo di anatemi e non anche di trasformazione – se cioè l’eguaglianza è ‘saltata’ come valore portante, ciò è avvenuto anche perché è apparsa obiettivo contrapposto allo, e non arricchita dallo, sviluppo delle differenze. Una nuova eguaglianza Comincerò proprio dalla questione della relazione tra eguaglianza e differenze, prendendola un po’ alla lontana: partendo cioè dal sessantotto. La ragione è in parte occasionale, e me ne scuso: l’eco del ventennale è probabilmente troppo forte per sfuggirne. Ma vi è anche una ragione di contenuto, ed è che sono convinto che allora si propose, sia pure in embrione ma con estrema chiarezza, una nuova nozione di eguaglianza, e che solo a partire da essa è possibile capire gli avvenimenti seguenti, e gli avanzamenti e le impasse successivi. Questa tesi è stata già sostenuta, con argomentazioni che condivido in larga parte, da Marco Revelli in un recente articolo su “Rinascita”. Nel sessantotto, scrive Revelli, si afferma una nozione di eguaglianza che è diversa tanto dalla eguaglianza formale, l’eguaglianza dei diritti, e dunque dei punti di partenza e delle opportunità, tipica del pensiero liberaldemocratico, quanto dalla eguaglianza sostanziale, livellatrice, uniformante del modello vetero-comunista, e dunque dei punti di arrivo e del trattamento (Il discorso sull’eguaglianza, in Per capire il’68, “Il Contemporaneo”, supplemento a “Rinascita”, n.9, 12/3/1988). Aggiungerei, come corollario a questo discorso di Revelli, la considerazione che la nozione di eguaglianza che si afferma come valore cardine del ’68 è anche diversa dall’idea che l’eguaglianza sia il portato di processi di massificazione o, per usare un concetto meno connotato con echi di destra, di omogeneizzazione reale (materiale) dei soggetti. Una tesi, questa, che ha avuto versioni secondo e terzo-internazionaliste (lo sviluppo delle forze produttive e il generalizzarsi della figura operaia), ma ha anche possibili, e certo più interessanti, versioni nel marxismo critico di questi anni: come in quegli autori che si pongono il compito teorico-pratico di individuare come perno della composizione di classe un settore la cui attività sia ‘materialmente’ omogenea (a questo portati da una interpretazione del lavoro astratto come eguagliamento materiale dei lavori che ne annulla la dimensione concreta, interpretazione che reputo scorretta per ragioni che ho esposto altrove). Un esempio di questa posizione è nei lavori recenti di Roberto Finelli. Quale è allora questa nuova nozione di eguaglianza che si impone nel sessantotto, e ne diviene il valore cardine? Si tratta del riconoscimento di una pari dignità dei soggetti, pari dignità che è invece negata realmente da un processo sociale che è profondamente disegualitario: “questo nuovo concetto di eguaglianza, come pari diritto di ognuno alla propria autonomia e indipendenza personale – come libertà, quindi – è incompatibile, contrariamente al concetto formale di eguaglianza, con ogni gerarchia, ma non – contrariamente al concetto sostantivo, veterocomunista – con la differenza” (ivi). L’eguaglianza è perciò pari dignità dei diversi: essa però, possiamo aggiungere, non viene vista dal sessantotto come data nel processo sociale, ma è una eguaglianza tutta da produrre, rompendo le diseguaglianze di potere e di sapere che realmente instaurano e riproducono gerarchie ed eteronomia. Se dunque, per un verso, questa nozione di eguaglianza, lungi dall’essere negatrice delle differenze, dà loro spazio affinché si manifestino, e nel loro proliferare e riconoscersi pari dignità trova la sua realizzazione, per l’altro verso essa si propone come critica e negazione tanto dell’eguaglianza intesa come massificazione e conformismo quanto della differenza intesa come gerarchia e come destino imposto e non scelto. A conferma di quanto appena detto si può rilevare che lo stesso intersecarsi di diversi movimenti (studenti, donne, neri, per non citare che i più ovvi) dentro il ’68, questa pratica sincronia dell’asincronico – per usare l’immagine blochiana – è una delle caratteristiche più ‘visibili’ del sessantotto, come ci ricorda anche Peppino Ortoleva nel suo bel libro pubblicato dagli Editori Riuniti (Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Roma 1988): “si trattò di una di quelle grandi, e rare, crisi sociali il cui elemento caratterizzante è il coincidere, il simultaneo venire ad un punto di svolta, di processi di trasformazione sociale differenti” (p. 15). Ad accomunare i diversi movimenti è una visione del meccanismo sociale come sistema astratto che generalizza l’oppressione – se si vuole, dalla fabbrica alla società. La lotta è insubordinazione di ognuno, ‘a partire da sé’, nei confronti di una società che tratta le particolarità come indifferenti (senza per questo tornare ad una visione da antico regime in cui il riconoscimento delle differenze è la giustificazione di un ordinamento gerarchico). In ciò, dunque, il sessantotto si costituisce come critica dall’interno della modernità: dentro e contro. Ad essere comune alle diverse insubordinazioni è, cioè, il mettere in questione ovunque l’eteronomia. Quello che però mi pare vada sottolineato – e che sfugge invece a Revelli nell’articolo citato, in cui descrive il sessantotto come “un’uscita in massa (dalla città dei diritti formali. NdR). Una grande secessione attraverso cui costituire una nuova città: la città degli ultimi, degli sfavoriti, dei sofferenti e degli oppressi” (ivi) – è che nei momenti più alti dell’autocoscienza teorica del sessantotto (si pensi, per fare un nome, ad Hans Jurgen Krahl) la lotta all’eteronomia, il partire da sé, l’essere dentro e contro, sono inseriti in una analisi della ‘totalità’ capitalistica. Contro cui si lotta, ma cui non si può non riconoscere sul piano conoscitivo e reale (di una realtà che si vuole rovesciare) un primato. Affermare la propria autonomia è mettere in crisi il sistema presente, non separarsene. La possibilità sperata dell’uscita in massa dalla comunità sociale per costituire un’altra comunità, di cui parla Revelli, non è una possibilità concreta: semmai, quando i movimenti prenderanno questa via, negando l’universalismo del momento iniziale – quando cioè ognuno andrà per conto proprio – ciò sarà effetto (e in parte causa) della fine del sessantotto, della sconfitta dei movimenti, a duro rammento dell’illusorietà di quella prospettiva: e così come la musica rock aveva anticipato e accompagnato i movimenti del 1968, così ne fotografa tempestivamente la crisi – per citare solo uno dei molti possibili esempi, passa solo un anno tra il militante Volunteers of America (1969) dei Jefferson Airplane, che si apre con un battagliero “We can be together”, e il successivo Blows against the Empire (1970) dei Jefferson Starship, che della fuga nello spazio fa il proprio tema (Earth getting too thick. Move on out to the cool & the dark). Operai al centro La fine del ‘sessantotto’ in realtà è databile in anni diversi da luogo a luogo: in Italia, per esempio, l’onda del sessantotto durò poco meno di un decennio. Sostenere che in Italia il sessantotto va molto al di là di quanto indichi l’anno solare è ovviamente posizione controversa, ed in una certa misura minoritaria, almeno da qualche tempo in qua. È difatti diffusa l’opinione secondo cui il sessantotto, antiautoritario e movimentista, sarebbe poi stato sopraffatto e soffocato da un sessantanove operaista e dallo sciagurato politicismo degli anni Settanta, dei gruppi prima e del terrorismo poi. Non è dunque scontato che esista un legame tra il sessantotto e ciò che viene dopo. Questo legame c’è, comunque, a mio parere, e sta proprio nel fatto che nelle lotte operaie del ciclo ’69-’73 al centro è ancora il tema dell’eguaglianza, e nel fatto che è comune al movimento degli studenti ed all’autunno caldo la rivendicazione dell’autonomia e dell’autodeterminazione. Lungo tutti gli anni Sessanta si era andata preparando la svolta nei rapporti di forza tra capitale e lavoro che si realizza a fine decennio: svolta che ha il suo elemento principale nell’autonomia del valore di scambio e del valore d’uso della forza-lavoro dalle esigenze cicliche del capitale. Il conflitto operaio non si limita alle classiche lotte distributive ma diviene in primo luogo lotta allo sfruttamento: le lotte sul salario vengono affiancate da lotte sulla produttività, le lotte sull’orario dalle lotte sulla gerarchia nel processo di lavoro. All’interno di una base tecnico-organizzativa taylorista-fordista ormai matura – con la sua riduzione della prestazione lavorativa a erogazione continua, di cui è trasparente il nesso con il prodotto e con le relazioni di potere dentro la fabbrica – le lotte dell’operaio massa si concentrano sull’organizzazione e sul tempo di lavoro: lotte, dunque, che mettono immediatamente in questione l’ottenimento da parte del capitale di un pluslavoro, e più in generale minano la base del potere padronale, il controllo stesso della prestazione lavorativa. Se le lotte di quegli anni non possono essere semplicisticamente viste come lotte per l’ottenimento di più valori d’uso, di più merci, di maggiore consumo reale (che sarà comunque una conseguenza del maggior peso politico, nella fabbrica e nella società, degli operai), ciò non significa che in esse la dimensione del valore d’uso sia irrilevante. Le lotte di quegli anni sono, anzi, proprio lotte sul valore d’uso della forza-lavoro. Si riscopre allora, praticamente, quello che è il cuore della teoria marxiana del valore-lavoro (ed è questa scoperta a consentire di rileggere in modo nuovo Marx): la valorizzazione del capitale è un processo la cui riuscita richiede come condizione necessaria, anche se non sufficiente, che il capitale riesca a mantenere la forza-lavoro nel suo ruolo di parte del capitale, di variabile dipendente dell’accumulazione, impedendole il movimento inverso, di farsi tutto da semplice parte, variabile autonoma da variabile dipendente, classe operaia da forza-lavoro. È questo capovolgimento che ha luogo dopo il sessantotto, e si esprime, appunto, nell’indipendenza dei movimenti della composizione di classe dalle esigenze cicliche dell’accumulazione, nel veto operaio all’estrazione di pluslavoro, nella messa in discussione dell’ordine capitalistico, dalla fabbrica alla società. Vale la pena di insistere su quanto appena detto, perché proprio in ciò che è il punto più essenziale, e che dovrebbe anche essere (ma non è) il più scontato, del pensiero di Marx, proprio lì è forse possibile incontrare, insieme al noto, l’ignoto: individuare cioè intersezioni con i temi del sessantotto, e perciò anche possibili nuove letture di ciò che altrimenti potrebbe apparire tradizionale. Come sempre nel capitalismo, il capitale ha bisogno di trovare dentro all’immane raccolta di merci una merce particolare, dal cui acquisto possa venire un di più di valore. Questa merce è la forza-lavoro, il cui valore d’uso è il lavoro vivo, la sostanza del valore, che dunque può eccedere il lavoro contenuto nel suo valore di scambio, nelle merci che vanno a costituire i beni salario. La particolarità di questa merce sta però anche nel fatto che il valore d’uso della forza-lavoro non è separabile dall’operaio come individuo concreto. Il capitale, perciò, per ottenere lavoro e pluslavoro deve incidere sulla vita reale dell’operaio in quanto persona, deve sfruttarlo in quanto corpo, in quanto essere naturale. Nelle lotte dell’operaio massa il fatto che il conflitto si svolga immediatamente sul potere capitalistico di disposizione del tempo rende questo carattere generale del capitalismo cruciale nel definire le forme stesse dell’antagonismo: la lotta tra operai e capitale si manifesta come lotta dell’uomo concreto (nelle diverse stratificazioni di culture interne alla composizione politica di classe) contro il meccanismo impersonale della valorizzazione capitalistica. Riemerge qui un tema che abbiamo visto essere tipico del sessantotto ‘studentesco’, e si anticipa in un certo senso una tematica ecologista (ci tornerò più avanti): basti pensare alle lotte per la salute, e dentro la fabbrica alla parola d’ordine – tutt’altro che scontata, come mostra la storia prima e dopo di allora – ‘la salute non si vende’. È presente anche, del sessantotto, la tensione tra eguaglianza e differenze: l’egualitarismo di quegli anni si accompagna difatti non alla negazione delle diverse culture presenti con diverso peso nella composizione della classe operaia di allora – dall’operaio di mestiere all’operaio massa, dall’etica del lavoro al rifiuto del lavoro – ma al loro comunicare e riconoscersi pari dignità ed efficacia, nel rifiuto di un meccanismo omologante. Il limite, semmai, sta nel fatto che la valorizzazione delle differenze interne alla classe ed il superamento di una nozione di eguaglianza come portato materiale e ineluttabile della tecnica e del ‘progresso’ è possibile solo nella comune negazione del comando capitalistico: continua a dipendere, in questo senso, da ciò che si nega; non è, in altri termini, un valore autonomo. È questa, come vedremo, una delle ragioni dell’instabilità e della debolezza del compromesso tra eguaglianza e differenze nella cultura operaia di allora. Se questi sono alcuni dei caratteri di quel ciclo di lotte, si può dire a ragione che esse erano anche lotte contro il primato della produzione. Vi è, da un lato, la scoperta del potere di veto che gli operai possono esprimere come classe interrompendo la valorizzazione e mettendo temporaneamente in crisi l’accumulazione: per questa via, certamente, si riafferma la base materialistica e rivoluzionaria del cambiamento. La centralità operaia, in questa accezione, è dovuta alla centralità della valorizzazione nella società capitalistica, ed alla centralità del lavoro nell’accumulazione. La centralità che gli operai rivendicano è, in altri termini, nient’altro che la centralità delle lotte operaie nella messa in crisi di una data forma dell’accumulazione e, dunque, della società capitalistica. Ma, dall’altro lato, le forme che assumono tali lotte (nesso eguaglianza-differenze, autonomia dei movimenti della composizione di classe, primato dei bisogni concreti degli operai contro il meccanismo astratto della valorizzazione) costituiscono una critica pratica di straordinaria violenza alla tesi del primato delle ragioni dell’economia su quella delle altre sfere della connessione sociale – primato che in effetti Marx riconosceva reale, ma come carattere che si afferma solo con il capitalismo, e di cui appunto la sua teoria vuole dare una critica teorica. Per quanto paradossale ciò possa apparire, le lotte operaie di quegli anni, proprio per la loro (diciamo pure quella che oggi viene quasi universalmente considerata una brutta parola) ‘oggettiva’ radicalità anticapitalistica, sono lotte contro un meccanismo produttivo e sociale che in un certo senso è la loro condizione di vita. Anche qui Marx si rivela più moderno di quanto sia d’uso ritenere, quando scrive “Se vince, il proletariato non diventa il lato assoluto della società; infatti esso vince solo togliendo se stesso e il suo opposto”(La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1972, p.37). Altri tempi La centralità operaia è stata oggetto, soprattutto dalla metà degli anni Settanta, di attacchi da più parti. L’attacco più efficace è stato, senza dubbio, quello del capitale: riaffermando la centralità della produzione contro la centralità operaia, riducendo nuovamente gli operai da classe operaia antagonista a forza-lavoro frammentata e dispersa, ha rimosso l’ostacolo principale alla sua valorizzazione, e alla sua egemonia. Riprendendo subito dopo a dividersi, come sempre, in frazioni antagoniste, per spartirsi il bottino dello sfruttamento. Ma la centralità operaia è stata anche oggetto di attacco da parte di molte delle riflessioni emerse dai ‘nuovi movimenti’, in particolare quella femminista e quella verde. L’imputazione, schematicamente, è quella secondo cui la centralità operaia comporterebbe una ideologia dell’‘uomo produttore’. In quanto predicata su una generica, non sessuata, nozione di ‘uomo’, tale ideologia altro non sarebbe che una falsa universalizzazione, che attribuisce un indebito primato nell’agire umano alla dimensione del lavoro e della produzione di beni, cioè ad una dimensione che storicamente è stata solo o prevalentemente maschile. Di conseguenza, si sostiene, si finisce con l’attribuire ad entrambi i sessi ciò che è proprio solo di uno di essi, e con il negare valore ad altre sfere dell’attività umana come quella della riproduzione, storicamente delegata al genere femminile. Inoltre, in quanto ideologia dell’uomo ‘produttore’, tale posizione sarebbe solidale rispetto ad un atteggiamento di dominio illimitato dell’uomo sulla natura, con tutte le conseguenze distruttive dell’equilibrio ambientale che abbiamo tragicamente sotto gli occhi. Di fronte a chi, a partire da una prospettiva marxista, replica sostenendo che è il capitale oggi la leva principale della discriminazione sessuale e della distruzione della natura, la risposta è quella secondo cui è semmai il capitale ad essere un momento di una vicenda, tutta maschile, di dominio sul diverso da sé; la lotta anticapitalistica non ha dunque ragione di pretendere una qualsiasi centralità, dal momento che l’abolizione dello sfruttamento di classe non comporterebbe né la fine del conflitto di genere né l’uscita dal produttivismo e dall’industrialismo. Per mio conto, ho in parte anticipato di non condividere una visione che imputa ai movimenti nati nel sessantotto, alle lotte dell’operaio massa, o al marxismo (ad un certo marxismo, e ad un certo operaismo) una negazione delle differenze o una affermazione di un primato della produzione in quanto tale. E ho anche fatto capire in che senso, limitato ma potente, mi pare che una centralità operaia vada ristabilita (centralità di un’altra composizione di classe, in un diverso modo dell’accumulazione): allo scopo, precisamente, di far marciare su gambe reali la lotta alla centralità della produzione. Mi pare però che un nodo vero venga colto dalle critiche femministe e verdi alla nozione di centralità operaia come era pensata all’interno della sinistra classista: si tratta della metamorfosi, che effettivamente ha avuto luogo nella seconda metà degli anni Settanta, della centralità che potremmo chiamare ‘sociale’ degli operai in una nozione di centralità ‘politica’ nel movimento anticapitalistico; questa metamorfosi, dal mio punto di vista non ineluttabile ma di cui è il caso di chiedersi perché sia avvenuta, ha implicato un offuscamento prima ed una subordinazione dopo del ruolo degli altri soggetti. Il conflitto operaio, che dalla fabbrica si era esteso alla società, si concentrò nuovamente nella fabbrica, e da lì non fu più in grado di uscire. La storia della divaricazione tra operai e nuovi movimenti, nella seconda metà degli anni Settanta, può essere sintetizzata in un doppio processo. Un versante ne è ampiamente noto: quello di cui, appunto, è paradigmatico il femminismo post ’75, con le differenze che si affermano fuori e contro l’eguaglianza, rivendicando l’autonomia dei propri tempi da quelli degli operai, ed in genere dagli altri soggetti sociali: una autonomia che diviene presto totale separazione. Abbiamo qui un’altra versione del tentativo – comprensibile, ma a mio parere profondamente contraddittorio – di fondare un’altra, diversa, comunità. Il versante meno noto, almeno all’interno della cultura di cui faccio parte, è quello che rivela la faccia negativa, in qualche misura dispotica e fragile al tempo stesso, della centralità politica degli operai così testardamente proclamata, e altrettanto vivacemente contestata, in quegli anni. Una classe operaia forte era riuscita a bloccare la valorizzazione tra il ’69 e il ’73. Vi aveva fatto seguito uno stallo nei rapporti di forza tra le classi, che il Partito e il Sindacato utilizzavano sul mercato politico per ottenere potere in cambio della loro compartecipazione alla destrutturazione dei luoghi di forza operai. Nella seconda metà degli anni Settanta abbiamo così una classe operaia che si ritiene illusoriamente forte dentro la fabbrica, ma si sa in trincea e misura il proprio isolamento nei confronti della società. Non vede che il ‘progresso’ tecnologico, la rivoluzione del capitale fisso, svuota i presupposti della rigidità nell’uso della forza-lavoro degli anni precedenti, e prepara la flessibilizzazione del capitale negli anni Ottanta. Quella classe operaia legge anzi l’innovazione nei processi produttivi come una propria conquista: o vaneggiando un controllo degli investimenti, o credendo irreversibile l’aumento del tempo libero in fabbrica. Esemplare a questo proposito la vicenda della Fiat. Nella seconda metà degli anni Settanta quasi nessuno si rese conto di ciò che avveniva nella grande fabbrica torinese. Si era di fronte ad una circostanza del tutto peculiare ed eccezionale, al fatto cioè che la riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario frutto dei mutamenti tecnologici aveva luogo in una situazione sociale in cui la classe operaia era ancora in grado di impedire che aumenti della forza produttiva del lavoro o riduzioni della domanda si traducessero in disoccupazione. Si trattava cioè della conseguenza del permanere di una rigidità nel mercato e nel processo di lavoro: ma era proprio quella rigidità ad essere erosa dalla rivoluzione dall’alto del capitale, che prima aggirava e poi attaccava i punti di forza del controllo operaio sul ciclo produttivo. Quando ciò si verificò – quando cioè la flessibilità del nuovo sistema di macchine consentì al capitale di rendere nuovamente flessibile il mercato del lavoro e la prestazione lavorativa, espellendo gli operai dalla grande fabbrica e aumentando vertiginosamente la produttività per addetto – quel ‘tempo libero’ in fabbrica diverrà tempo vuoto fuori dalla fabbrica. Realtà dei fatti, questa, su cui l’unico che negli ultimi anni ha avuto parole chiare, e del tutto condivisibili, è stato Cesare Romiti. Una classe operaia che sente fragile la propria forza e che sperimenta un isolamento crescente è lo sfondo che vede molte avanguardie proporsi come centro del soggetto collettivo più ampio rivendicando un primato sugli altri soggetti sociali. In questo modo, però, finisce con l’andare perso quello che mi pare uno degli elementi più originali del ciclo di lotte dell’operaio-massa: l’essere insieme lotte ‘dentro’ e lotte ‘contro’ il capitale; il realizzare una critica pratica dell’economia politica; l’affermare, insomma, la centralità operaia solo in quanto critica della centralità dell’economico tipica del capitalismo. La forza delle lotte dell’operaio massa si rivela al tempo stesso come il suo limite. Proprio in quanto vincente, quella classe operaia aveva finito con il mettere in questione anche la propria centralità nel soggetto anticapitalistico: lì, nel punto più alto del proprio percorso, si era rivelata priva di una capacità autonoma di prefigurare nuove forme di organizzazione sociale e nuovi valori, a partire dalla compresenza e dalla comunicazione di diversi linguaggi e di diverse ragioni: più per la novità e la radicalità della posta, dunque, che per l’essere il conflitto operaio conflitto di tipo tradizionale, come invece suggerisce la critica femminista e verde. Lotta (operaia) al capitale come dominio dell’astratto e (dentro e oltre quella lotta) sviluppo e arricchimento delle differenze concrete si separano: come conseguenza anche di questa frattura, gli operai saranno ridotti nuovamente a forza-lavoro, a parte del capitale, e si faranno a volte (e senza contropartita) solidali con le ragioni della produzione per la produzione, cui è legata la loro condizione. Critica del femminismo Il femminismo italiano della seconda metà degli anni Settanta è un femminismo caratterizzato dalla estraneità rispetto al conflitto di classe; è, più in generale, un femminismo che proclama di essere indifferente, quando non ostile, all’idea di eguaglianza. Si è appena detto che questo movimento di separazione e allontanamento dalla sinistra operaia ha cause reali, trova giustificazione in limiti precisi della cultura marxista e operaista anche più avvertita. Ciò non toglie che si tratti di un arretramento, e che sia opportuno sviluppare una critica di molte delle forme che questo femminismo, quello dell’ultimo decennio, ha preso. Vi sono, certamente, delle posizioni femministe che accentuano la fondazione biologica della differenza sessuale: il passo verso l’affermazione della differenza come diseguaglianza naturale ed originaria è qui breve, e pericoloso. Si tratta però di posizioni poco interessanti, anche perché poco rilevanti: sarebbe un errore ridurre il nuovo femminismo a ciò. Più interessanti sono le posizioni che riconducono il femminismo alla differenza di ‘genere’, cioè ad una differenza tra maschile e femminile che trova origine in un impasto di natura e cultura, in cui il secondo termine ha la prevalenza sul primo, gli dà forma. All’interno di questo modo di impostare la questione, tanto la ricerca quanto il movimento delle donne hanno avuto certamente il merito di dare peso, scientifico e politico, a temi non a caso a lungo disattesi dalla ricerca ‘maschile’: dalla maternità al lavoro domestico; dalla finta neutralità asessuata del linguaggio alla tutt’altro che ‘naturale’ formazione psicologica delle personalità maschile e femminile; dalla critica del prometeismo della scienza e della tecnica attuali alla accettazione della logica del rischio come costo del progresso tecnico. E si potrebbe continuare. La ricchezza delle scoperte è stata però ingabbiata in due atteggiamenti antitetici, ambedue inaccettabili. Il primo consiste nel dare veste postmoderna al pensiero della differenza: si accetta la dissoluzione dell’unità sociale in frammenti non solo diversi ma incomunicanti come un fatto positivo, e che anzi non può non riprodursi all’infinito nello stesso movimento delle donne, dando luogo ad un benefico proliferare delle differenze (plurali). Quanto meno esse si toccheranno, quanto più contraddittorie esse saranno, tanto più ricco si rivelerà il movimento delle donne. In questa posizione l’ambiguità iniziale del femminismo della differenza – che nel porre l’accento sull’identità sostantiva femminile si dichiara indifferente all’affermazione di una eguaglianza tra gli individui, la quale effettivamente comporta un processo di astrazione dalle differenze, l’accettare che per certi aspetti e per convenzione non si tenga conto di ciò che rende diversi – sfocia in una sorta di programmatica e rivendicata irrilevanza: solo la convinzione che punti di vista diversi conducano a vivere realmente in mondi diversi può difatti rendere irragionevole giungere ad un progetto comune, può trasformare l’incoerenza da limite in ricchezza. Ciò che totalmente sfugge a questo punto di vista è il fatto che la pluralità irrelata dei soggetti sociali non è che l’altra faccia del medesimo processo di ristrutturazione sociale ed economica di cui ho parlato prima: la ‘debolezza’ delle pretese, conoscitive e trasformative, dei nuovi soggetti, che segnerebbe in modo ‘femminile’ gli anni recenti, è il risultato di un potere sistemico capillarmente diffuso e invisibile, ma proprio per questo ‘fortissimo’, ed in questo senso ‘maschile’. Mi pare, per esempio, significativo che il movimento delle donne dopo Chernobil si sia trovato diviso tra posizioni che si limitavano a dichiarare una estraneità rispetto al mondo degli uomini, e posizioni che invece mettevano i piedi nel piatto di una critica globale al sistema scientifico, industriale e militare: percorrere la seconda strada porterebbe probabilmente lontano da un pluralismo in cui tutto va bene perché nulla conta. Il secondo atteggiamento che ha egemonizzato la discussione femminista negli ultimi due anni è bene rappresentato dalle posizioni dominanti nella Libreria delle Donne di Milano e nel gruppo di filosofe di Diotima (rispettivamente Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, e Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987): tale atteggiamento può essere definito, in opposizione al primo, come premoderno. Al contrario che nella posizione precedente, abbiamo qui una critica del pluralismo e del pensiero debole, e la proposizione di un pensiero forte della differenza sessuale, che non annega la differenza di genere nelle altre differenze. Qui il richiamo all’identità si fa però talmente forte da cadere in un essenzialismo dai tratti hegeliani: è l’essere donna, esperito come un fatto, a dover trovare una significazione, ed in ciò sta il compito principale attribuito oggi al movimento delle donne, nella costruzione separata di un linguaggio, di un pensiero, di una cultura, persino di un immaginario femminili – il ‘persino’, va chiarito, è dovuto al fatto che questo obiettivo appare essere proposto come obiettivo attuale, con un ottimismo idealistico per certi versi invidiabile. L’essere differenti tra donne potrà prendere senso solo una volta dato significato a questa comune origine, a questo comune essere donne. Questo ‘fatto’, l’essere donne, assunto aprioristicamente (e irrazionalmente) come fondamento di unità, si sviluppa in un separatismo che non è più momento di individuazione per riconoscersi ed andare poi all’incontro con l’altro, ma che diviene anzi progetto strategico. L’affermazione – che condivido – secondo cui la duplicità di genere dà luogo a punti di vista differenti si prolunga nella tesi, che mi pare invece inaccettabile, secondo cui non avrebbe senso l’universalismo (l’affermazione della presenza di caratteri comuni ai generi: caratteri certo sempre da costruire, e sempre transitori, ma nondimeno tali da poter parlare, appunto, di ‘un’ genere umano); e trascolora quindi da differenza di genere a differenza di specie. Siamo qui, di nuovo, alla costruzione di una comunità altra, ma in una forma estrema, tale da rompere per principio la possibilità di dialogo razionale. In qualche modo, se si vuole, si tratta anche di una posizione rassicurante per il ‘maschile’: cosa infatti ne sia del mondo maschile, fintamente neutro, che le donne dovrebbero così radicalmente abbandonare, non importa; ad ognuno le sue regole. Quando poi si va a guardare il tipo di rapporti che questo femminismo propone dentro la comunità delle donne – di cui è emblematico l’‘affidamento’ della Libreria delle Donne di Milano (“Affidarsi – recita la controcopertina del loro libro – non è uno specchiarsi pari pari nell’altra per confermarsi quello che si è, ma chiederle e offrirle il mezzo di avere nel mondo esistenza vera e grande”) – si scopre che in realtà nemmeno lì l’eguaglianza degli individui (sia pure donne) vi ha molto peso: “l’ideale dell’uguaglianza non aveva e non ha niente a che vedere con la storia e lo stato dei rapporti fra donne. Tant’è che l’uguaglianza s’intende, parlando di donne, delle donne con gli uomini” (p.146). Anzi, dentro l’insieme, dentro il ‘corpo’, delle donne appare non solo accettabile ma in qualche modo da valorizzare un essere diverse che ha il sapore delle gerarchie: perché la riproduzione di ruoli diversi, fissati in una divisione del lavoro ed in una asimmetria di poteri, appare qui una naturale articolazione del tutto femminile. Ciò che conta è la comune identità, ed i comuni interessi: “Prima di tutto viene la fedeltà a quello che è, a quello che si è” (p.162). Le singole sono libere solo in quanto riconoscono la necessità del loro essere donne, e dunque si riconoscono come parte del mondo delle donne: libertà dunque non è autonomia dell’individuo-donna, ma appartenenza; libertà ed eteronomia cessano di essere termini opposti, e possono coniugarsi insieme, con un salto netto a prima della rivoluzione francese (non a caso il libro della Libreria delle Donne di Milano ha per titolo Non credere di avere dei diritti). Alla frammentazione sociale del postmoderno si oppone così il ritorno a logiche da antico regime. * Le idee contenute in questo contributo sono state presentate a Roma, il 27-28 febbraio 1988 al seminario “Emergenza ambientale, crisi delle politiche, movimenti”; esse hanno anche costituito l’oggetto di una discussione svoltasi a Torino nella sede del C.r.i.c.. Solo la cortese insistenza dei compagni di Roma e di Torino mi spinge a mettere per iscritto delle riflessioni che sento ancora insufficienti; ma gioca anche un po’ la convinzione che vada superata una situazione come quella italiana attuale in cui il rapporto tra marxismo, femminismo e pensiero verde è per lo più di indifferenza, di ostilità o al meglio di ossequio di maniera. Ringrazio Stefano Alberione, Maria Teresa Fenoglio, Roberto Finelli e Mimmo Porcaro per i commenti, i consensi e i dissensi. A Marco Revelli sono debitore di un ringraziamento particolare: le discussioni sulle questioni qui trattate sono state così tante, e l’impressione di porsi spesso interrogativi comuni è stata tale, che mi è difficile distinguere ciò che è mio e ciò che è suo nelle opinioni che avanzo, e facendolo rischierei di attribuirgli opinioni che non condivide ed è bene rimangano di mia responsabilità.
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