IL RACCONTO CHE VISSE DUE VOLTE
14/5/2018
di Marcello Benfante
Giovedì prossimo 17 maggio, alle 17.30, il nostro Marcello Benfante parla del suo Vorago et Vertigo presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana di Corso Vittorio Emanuele. Con lui Costanza Licata che presenta l’antologia di Salvo Licata (1937-2000) La parola è un rasoio. Entrambi i libri sono pubblicati da Il Palindromo. In vista di questo evento pubblichiamo un breve testo di Marcello. È strano che fra tutti coloro (non molti, in verità) che hanno scritto o parlato del mio racconto Vorago et Vertigo, sia al suo apparire che in occasione della sua riedizione, nessuno abbia fatto cenno a Hitchcock. Nemmeno io, peraltro. Eppure ho reso il dovuto omaggio a due modelli cinematografici per me essenziali: Furia (Fury, 1936) di Fritz Lang e Arriva John Doe (Meet John Doe, 1941) di Frank Capra. Ma l’omaggio più evidente, quello cioè al Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock, è rimasto sottaciuto. Forse perché fin troppo palese, al punto da scomparire (come la “lettera rubata” di Poe). O forse perché ogni richiamo al capolavoro di Hitchcock (il mio preferito fra quelli del cosiddetto “mago del brivido”) avrebbe rischiato di apparire pleonastico. Tuttavia il rimando è ineludibile, oltre che doveroso, insieme a quelli più letterari di Beckett e Kafka (ovviamente, in ogni caso sotto l’umilissima etichetta del “si parva licet componere magnis”). Di hitchcockiano, in primo luogo, salta agli occhi la parola “Vertigo” e con essa il tema della vertigine (ma in Italia, per oscure ragioni, si preferì cambiare il titolo del film in “La donna che visse due volte”). E soprattutto ci sono i temi dell’innocente perseguitato (Young and Innocent, 1937) e/o intrappolato in una sorta di complotto del destino o del caso (The Wrong Man, 1956, North By Northwest, 1959). Per non dire del tema dei temi: la fobia. In particolare, l’acrofobia, il timore dei luoghi elevati, del precipizio, unito alla tentazione quasi insopprimibile di lanciarsi nel vuoto. Com’è noto, tale tema e, sostanzialmente, la trama del film sono tratti da un bel romanzo (anche se non privo di qualche sbavatura) della diabolica coppia Pierre Boileau e Thomas Narcejac che s’intitola Dentre les morts (sueurs froides) e risale al 1954. Anche il romanzo è noto in Italia con il titolo La donna che visse due volte (io l’ho letto nell’edizione Sellerio, che riutilizzava la traduzione di Riccardo Ortolani). Il romanzo è ovviamente ambientato in Francia (Parigi e Marsiglia, soprattutto). Il contesto è quello della Seconda Guerra Mondiale, dalle prime avvisaglie dell’invasione nazista del Belgio e quindi della Francia alla sconfitta della Germania. La vicenda, per grosse linee, è la stessa ripresa e adattata dal film con diverse coordinate spazio-temporali e qualche altra piccola variazione. La differenza più notevole è il finale, che nel libro è l’ineluttabile femminicidio determinato da un ossessivo e necrofilo amour fou, mentre nel film scaturisce con amara e gotica ironia dall’apparizione di una suora, insieme fatale e plateale. A James Stewart, insomma, è risparmiato l’orrore dell’omicidio morboso, così stridente col suo solare carisma (benché il suo volto, così espressivo, si presti perfettamente a rappresentare il dramma della nevrosi). La morte emerge dal passato, incautamente evocato dai malfattori, sotto forma di una Nemesi cattolica o di una sua sinistra parodia. D’altronde, anche il romanzo rivisitava con grottesco orrore il mistero della resurrezione dei corpi per risolverlo infine nel coup de theatre di una dissacrante tragedia degli equivoci. Secondo Truffaut, che sull’argomento è la massima autorità, Boileau e Narcejac scrissero “il romanzo pensando deliberatamente a Hitch” (dello stesso parere è Claudio G. Fava, che firma la postfazione dell’edizione selleriana). Maestri del noir, Boileau e Narcejac avevano confezionato un soggetto che non poteva non affascinare il grande regista inglese. Che tuttavia vi notò alcune incongruenze e diede incarico a Samuel Taylor e Alec Coppel di scrivere una sceneggiatura che tenesse conto delle sue perplessità. A quanto pare, gli sceneggiatori non persero tempo a leggere il romanzo. Per fortuna, lo aveva fatto Hitchcock, e con occhio critico e lungimirante. Nel romanzo si ha come l’impressione che il denouement poliziesco della macabra vicenda sia giustapposto per motivi di genere e di mercato. Forse al testo avrebbe giovato, invece, rimanere nello spazio di dubbio tra delirio e metafisica. Ricondotta, quasi sul finire, alla logica dell’intrigo delittuoso, la storia perde in parte il suo alone surreale e onirico. Hitchcock quadra il cerchio, anche grazie al fatto che lo spettatore si aspetta un plot giallo e però viene continuamente sviato da atmosfere spettrali e fantastiche. Vertigo è una macchina perfetta, ancorché labirintica, di spettacolare coerenza emotiva. Ma forse il romanzo di Boileau e Narcejac si avvale, e forse involontariamente, della logica contraddittoria degli incubi (e delle fobie) per accrescere il suo potere suggestivo, la sua segreta malia.
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