IL LAVORO PRODUTTIVO NEL SETTORE PUBBLICO
15/11/2019
di Marco Palazzotto
Le istituzioni politiche ed economiche che hanno governato durante l’ultimo secolo e mezzo hanno messo in campo un sistema di idee che si basa principalmente sulla teoria economica liberale. E l’Economia Politica ha sempre tentato di sostenere teoricamente le politiche che le classi dominanti mettono in atto per mantenere il proprio potere sulle classi da sfruttare. Durante i periodi in cui i rapporti di forza sono sbilanciati a favore dei capitalisti, primeggia l’economia di mercato. Di contro, nei periodi in cui le classi lavoratrici riescono con le lotte a strappare condizioni migliori, si sviluppa maggiormente il welfare o, nei casi più avanzati, una qualche forma di “compromesso socialdemocratico”. Non esiste l’economia come scienza esatta, come invece ci fanno credere commentatori, politici ed accademici. Secondo i teorici dell’economia di mercato, soprattutto con l’avvento della cosiddetta rivoluzione marginalista, il lavoro produttivo è quello sempre utile in generale, è “lavoro che fa qualcosa” (Claudio Napoleoni – Lezioni sul capitolo sesto inedito di Marx - 1972). In questo modo si perde però d’occhio la specificità capitalistica, che invece Marx, ad esempio, ha fatto emergere. Tale specificità è quella in cui si evidenzia una differenza tra i valori d’uso e i valori di scambio. Pertanto produttivo è il lavoro che produce plusvalore (che prende poi la forma di profitto) e che pertanto si scambia contro il capitale. Il lavoro improduttivo può produrre valori d’uso, ovvero creare beni e servizi utili alla persone, ma se non viene scambiato contro capitale non è produttivo di valore e quindi non può funzionare per l’accumulazione. Da questo punto di vista il lavoro pubblico è improduttivo perché produce beni e servizi utili alla collettività, ma non essendo scambiabile contro capitale - quindi non utile a produrre plusvalore - non può essere considerato produttivo. Tale premessa teorica ci serve a capire una certa narrazione che va per la maggiore anche dentro i sindacati: la produttività, misurando l’utilità – perdendo di vista la specificità capitalistica vista sopra – diventa indispensabile anche nel settore pubblico per calcolare performance e qualità. Dimostrando che il pubblico sarebbe meno efficiente del privato, si dimostrerebbe infatti che è meglio lasciare alle aziende la gestione di tali settori. Questa cultura, che osanna il profitto e la produttività aziendale, ha favorito sempre più privatizzazioni. Dall’ inizio degli anni ’80 sempre meno spesa pubblica è stata destinata al welfare, ivi compresa la quota che va alle retribuzioni del personale della P.A. Più di 30 anni di queste scelte, che rientrano nel quadro che molti studiosi definiscono “controrivoluzione neoliberale”, hanno provocato più diseguaglianze e quindi più impoverimento. Si è ridotta l’offerta e la qualità dei servizi pubblici destinati alla collettività, per fare posto a servizi a pagamento. Si è trasformato il “lavoro improduttivo” che crea valori d’uso in lavoro produttivo di profitto. L’economista Giorgio Lunghini usava una suggestione molto semplice per spiegare questa dualità pubblico-privato. Una parte del valore creato nel servizio pubblico offerto dal privato, serve per ripagare il profitto. Quindi, a parità di tecnologia e ore lavorate costa meno produrre servizi pubblici da parte delle amministrazioni pubbliche – che non deve produrre profitti - che da parte del settore privato. Queste considerazioni mostrano come scelte politiche ben precise, che possiamo ricondurre sempre al conflitto tra capitale e lavoro, abbiano ricadute pratiche nel lavoro pubblico e provochino il progressivo impoverimento nel settore, con conseguenze nella qualità di vita delle persone che fruiscono dei servizi alla cittadinanza. La retorica del profitto, non distinguendo la specificità capitalistica del lavoro produttivo/improduttivo, ha pervaso e continua a pervadere l’apparato pubblico nella somministrazione di servizi. Tale logica nasce dal conflitto tra percettori di profitto e percettori di salario che hanno interessi diversi. Quando le lotte hanno spostato l’ago della bilancia a favore dei secondi i servizi pubblici sono migliorati. Dalla controrivoluzione neoliberale di fine ’70, la tendenza si è capovolta.
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