GRECIA: LA LOTTA DEVE CONTINUARE
24/7/2015
di Tommaso Baris (*) 24 luglio 2015
Volendo ragionare sull’esito finale della vicenda greca non si può non partire dal riconoscimento di una durissima sconfitta. Alexis Tsipras e tutto il governo greco costruito da Syriza, pur con inevitabili limiti e ingenuità, hanno posto con forza nei lunghi mesi della trattativa, da febbraio ad oggi, il tema politico di un superamento delle politiche di austerità all’Unione Europea ma alla fine sono stati costretti a capitolare Atene si ritrova oggi sì a godere di un finanziamento creditizio più ampio rispetto a quello inizialmente previsto che le assicura (forse) un maggiore lasso di tempo rispetto alle scadenze debitorie più immediate, ma in cambio ha dovuto accettare una sostanziale continuità con le precedenti linee economiche, fatte di tagli alla spesa pubblica (alcuni dei quali anche comprensibili), compressione dei salari e delle pensioni, politiche di privatizzazione, per giunta assolutamente irrealistiche, come ammettono tutti gli esperti e i commentatori più seri. La posizione di partenza del governo Tsipras, quella della insostenibilità del debito, per un paese portato al default già nel 2010 dalle forze politiche greche oggi pro-austerity e poi impossibilitato ad uscire da quella spirale a causa dalle politiche recessive volute dall’Unione europea a guida tedesca, è stato di fatto condivisa, soltanto dopo l’accordo però, addirittura dal Fondo Monetario Internazionale e da BCE di Mario Draghi, che pure non poco ha contribuito a stringere Tsipras all’angolo limitando al minimo sindacale la liquidità delle banche greche, e quindi strangolando di fatto il paese. Rispetto a questo drammatico quadro di rapporti di forza a livello europeo, Tsipras ha giocato la sua partita fino in fondo, con la scelta del referendum come estremo e coraggioso atto politico, per chiedere una inversione di rotta rispetto alla linea economica dell’austerità non solo per la Grecia ma per l’intera area dell’Eurozona. La scelta tra il sì e il no, presentata come opzione contro o a favore dell’euro dai media un po’ in tutta Europa, Italia compresa, era invece il tentativo di posizionare un voto popolare, mettendo in gioco la propria permanenza al governo, contro la presunta inevitabilità delle scelte tecniche in favore del pareggio di bilancio e del risanamento. Di rispondere cioè con la politica e un di più di democrazia ad organismi europei che sempre più si presentano come espressioni di visioni tecnocratiche che in realtà rispondono a precise scelte politiche, e tutelano e garantiscono corposi interessi sociali sempre più ristretti. La ragione della durezza delle proposte dell’eurozona a guida tedesca nasce dalla radicalità della sfida portata con il ricorso al voto popolare: non deriva da presunte necessità tecniche e tanto meno si basa su ragionamenti economici realistici, visto che renderà ancor più insostenibile il debito greco nelle attuali condizioni, ma mira a colpire e seppellire la proposta politica rappresentata dal governo greco guidato da Tsipras. Dato questo quadro, più che partecipare al giochino che talvolta affiora a sinistra su Tsipras traditore, Tsipras riformista, eccetera, mi sembra più utile ragionare sugli elementi politici che lo scontro lascia sul terreno. La vicenda greca ci conferma, proprio per il suo esito finale, l’impossibilità di una via solamente nazionale alla lotta dell’austerità. Non basta cioè vincere a quel livello per cambiare le cose, specie se si è in un piccolo paese, per giunta importatore e non esportatore. L’uscita dall’euro e il ritorno a monete nazionali colpirebbe, in prima istanza, in Grecia come altrove, le classi popolari e i ceti medi, come ha ricordato lo stesso Varoufakis, che pure ha cercato di renderla credibile come minaccia per la stabilità della moneta unica ma sempre al fine di ottenere un accordo migliore e quindi di restare nell’euro. Anche paesi con un più significativo apparato industriale volto all’esportazione come l’Italia, avrebbero problemi visto che la spinta inflazionistica dovuta al deprezzamento della nuova moneta sarebbe affrontata, stante l’attuale quadro dei rapporti di forza interni ed internazionali, con la compressione di salari, stipendi pubblici, pensioni. Il primo dato dunque è che non c’è un “altrove”, un “luogo altro”, in cui rifugiarsi per sfuggire al capitalismo mondiale nelle sue attuali forme. Da qui dovrebbe scaturire un’altra acquisizione di fondo: se da un punto di vista economico Varoufakis ha ragione, politicamente non si può che restare dentro e, al contempo, restare contro e continuare a combattere contro la presente organizzazione politica ed economica dell’Europa costruita intorno alla moneta unica, allargando lo spazio politico della contrapposizione a tali assetti. Peraltro l’attuale assetto dell’eurozona, come fanno notare molti osservatori, ma anche uomini politici persino provenienti dalla socialdemocrazia (vedi Fassina), è insostenibile non solo per la Grecia, ma anche per i grandi paesi indebitati (come Francia, Spagna ed Italia), le cui economie non possono reggere in queste condizioni mantenendo un minimo di benessere diffuso e senza spaccarsi internamente. La stessa economia tedesca lascia intravedere segnali di scricchiolio interni non ignorabili sul lungo periodo. Siamo dunque ancora dentro la crisi e la partita non è chiusa, anche se la sconfitta è stata pesante e rischia di togliere la speranza di ogni cambiamento da sinistra. Il problema principale resta però con che strumenti scegliamo di giocare questa sfida. Incredibilmente proprio la dimensione continentale della crisi è venuta mancata nella discussione, anche da parte della sinistra radicale. Non siamo stati capaci di spostare il piano del ragionamento dal salvataggio della Grecia alla più generale questione di una Europa mercantilistica a guida tedesca, costruita sulla disoccupazione di massa, i bassi salari, i lavori precari ed intermittenti, in cui le stesse retribuzioni dei lavoratori dipendenti in Germania sono inferiori alla produttività reale, per mantenere in piedi un sistema incentrato sulle esportazioni competitive dentro l’eurozona, salvo poi gridare contro chi si indebita in una situazione di scambio diseguale destinato a rimanere tale. Si può inoltre dire che è mancata, perché evidentemente non siamo stati ancora in grado di costruirla, una mobilitazione sociale europea che ragionasse in questa prospettiva, che ponesse cioè a livello europeo la questione della redistribuzione della ricchezza, di un nuovo Welfare, di un’occupazione dignitosa. Non c’è dunque ancora una sinistra “europea” intesa non come sommatoria di singoli partiti nazionali ma come un unico soggetto politico con una proposta complessiva su democrazia, economia, e diritti sociali; non c’è una dimensione europea delle mobilitazioni dei diversi movimenti sociali, le cui battaglie hanno senso ma anche efficacia solo se riescono a proiettarsi nell’orizzonte continentale. L’esperienza di Syriza al governo, con tutte le sue contraddizioni e le attuali divisioni, nel suo insuccesso nel rompere l’austerità paga anche questo isolamento di fondo e l’assenza di un soggetto politico e sociale, europeo transnazionale su cui contare, che è il vero nodo su cui ragionare. I richiami alle necessità “nazionali” delle economie dei diversi paesi europei, “tecnicamente” corretti, rischiano di porci su un piano di subalternità rispetto ai nazionalismi rinascenti e all’estrema destra che si richiama strumentalmente al popolo. Per uscire da questa stretta tra presunta tecnocrazia e nuovi fascismi non possiamo che ripartire dalla battaglia per la costruzione di una Europa politica e democratica attraverso un processo costituente dal basso che riproponga la sovranità popolare come base delle istituzioni economiche chiamate a gestire il mercato unico. Dovremmo rilanciare ed intestarci la battaglia per una costituzione europea, magari costruita dal basso, coinvolgendo pezzi di istituzioni, partiti politici, movimenti sociali, intellettuali. Dovremmo rilanciare la proposta di una mobilitazione sindacale che miri ad un rialzo generalizzato dei salari dei lavoratori dipendenti, a partire dalla Germania, partendo dal posizionamento di un pezzo delle strutture sindacali (vedi la Fiom in Italia). Dobbiamo portare la battaglia per il reddito di cittadinanza a livello europeo, promuovendo mobilitazioni che mirino ad inserirlo tra i parametri dei trattati. Invocare una diversa politica estera, volta all’apertura verso il Mediterraneo e il Medio-Oriente, partendo dalla dignitosa accoglienza dei migranti e dei profughi. È assolutamente vero che gli attuali rapporti di forza, sia politici che economici sono del tutto sfavorevoli, ma costruire una agenda politica adeguata è il primo passo per attivare ad una mobilitazione collettiva capace appunto di modificare gli assetti esistenti. Syriza, nel suo essere troppo avanti rispetto ad un quadro europeo, sul versante della sinistra antiliberista, drammaticamente indietro, può ancora insegnare molto. La sua capacità di contaminazione tra l’alto e il basso, tra il politico e il sociale, diventando soggetto politico maggioritario ed in grado di rappresentare una speranza per un interno paese rimane una esperienza preziosa su cui riflettere. Ovviamente molto dipenderà da come riuscire a gestire questo delicato passaggio, e dalla sua capacità di riaprire, magari non oggi, ma già domani uno spazio di messa in crisi dell’austerità nel cuore dell’Europa. La riconquista di questa possibilità non può avvenire però senza la costruzione di un soggetto politico capace di conquistarla nel cuore della società europea, mutando istituzioni ed assetti sociali. Questa la sfida ineludibile, da cui non ci si può sottrarre, che chiama in causa tutti noi dopo la crisi greca.? (*) Tommaso Baris insegna storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali - Dems dell'Università di Palermo. Si è occupato di storia sociale della guerra, fascismo e partiti politici nell'Italia repubblicana. Ha pubblicato tra l'altro libri i seguenti volumi: Tra due fuochi. Esperienza e memoria della guerra lungo la linea Gustav (2003); Il fascismo in provincia (2007) e C'era una volta la Dc. Intervento pubblico e costruzione del consenso nella Ciociaria andreottiana (2013).
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