GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA.
11/11/2015
di Salvatore Cavaleri
Annientamento è il titolo del primo capitolo della Trilogia dell'Area X di Jeff VanderMeer, saga considerata il capolavoro della letteratura New Wired. All'inizio del romanzo la protagonista, semplicemente chiamata “la biologa”, andando in missione nella misteriosa Area X, si avventura nell'esplorazione di una grande torre orizzontale. Inoltrandosi nel ventre di questa sorta di tunnel si accorge che sulle pareti si andavano formando delle infiorescenze, delle specie di rampicanti fatti di spore e muffe, che nel loro dispiegarsi componevano dei segni grafici, delle parole poco comprensibili che, però, indubbiamente finivano per realizzare una frase. Questo fenomeno al tempo stesso naturale e sovrannaturale, terreno ed alieno, provocava sugli avventori una suggestione quasi ipnotica, che mentre affascinava finiva per trasmettere un forte senso di minaccia. Questa immagine delle pareti da cui emergono forme grafiche che attraggono ed inquietano mi è tornata in mente leggendo l'ultimo libro scritto dall'artista e filosofo palermitano Marcello Faletra, Graffiti, Poetiche della rivolta, saggio appena pubblicato da Postmedia books corredato da una prefazione di Michel Maffesoli e da una postfazione di Franco Berardi Bifo. Il libro di Faletra è interessante proprio perché mette al centro del suo discorso l'aspetto minaccioso del graffitismo, ribaltando il punto di vista dei fautori dell'ordine pubblico ed evitando di rifugiarsi in intenzioni assolutorie. Faletra, cioè, legge la storia del graffitismo e della sua demonizzazione, non per professarne l'innocenza ma, anzi, per rivendicarne la potenza sovversiva. Se le vicende della street-art sono ancora oggi trattate a metà strada tra la disputa artistica e i dibattiti sull'igiene urbana, non si tratta di edulcorare il gesto grafico, ma di rivendicare l'intento sabotatore che una pratica di disseminazione di segni assume in un contesto in cui tutta l'economia politica si occupa della produzione e dell'accumulazione di codici. All'inizio del testo la posta in gioco viene così esplicitata: “in che misura la produzione della parola e dell'immagine è libera di circolare in un regime di totalitarismo economico?”. Per rispondere a questo interrogativo il libro da un lato ripercorre la storia del movimento writer e dall'altro analizza in profondità il significato politico che questa pratica assume nel contesto capitalista contemporaneo. Nei primi capitoli, quindi, si ripercorrono le origini del graffitismo nelle metropoli americane di fine anni '60 ed il passaggio dai City Walls alle Tags. Segue una disamina in cui si sviscera il rapporto mai lineare con l'arte contemporanea nel suo complesso: Monet che introduce graffiti nella pittura, Picasso che copia i disegni incontrati per strada, ma anche Bansky che cita James Ensor. Buona parte del libro è poi dedicata all'analisi dell'aspetto antagonistico dell'arte di strada, al suo rappresentare, appunto, una poetica della rivolta. Qui Marcello Faletra riprende le teorie sulla perdita dell'aura di Benjamin, la politica del nome proprio di Derrida, la pratica del detournement di Debord e ancora molto altro. Ma la parte più determinante mi sembra quella in cui viene messo a nudo lo scenario metropolitano odierno. Se, come insegnano prima Lefebvre e Harvey oggi, il capitalismo è innanzitutto una dinamica di conquista dello spazio, se cioè la globalizzazione è un dispositivo di codifica delle metropoli attraverso il dispiegarsi del sistema delle merci in ogni anfratto, allora tutto ciò che si sottrae alla logica economicista, tutto ciò che non è recuperabile entro un processo di accumulazione, risulta insopportabile e minaccioso. I graffiti sfuggendo all'immane distesa di immagini della pubblicità che arredano i muri delle nostre città, ne interrompono la catena significante. Le tags sfidano i loghi della merce su un piano simbolico, rilanciando la posta in gioco in modo esiziale sul campo della dispersione del significato e della perdita del referente. Qui i riferimenti a Jean Baudrillard sono frequenti ed espliciti. Nel 1976 il filosofo francese dedicava al graffitismo uno straordinario capitolo de Lo scambio simbolico e la morte dal titolo Kool killer o l'insurrezione mediante i segni, nel quale scriveva: “I graffiti vanno più lontano: all'anonimato non oppongono dei nomi, ma degli pseudonimi. Non cercano di uscire dalla combinatoria per riconquistare un'identità comunque impossibile, ma per ritorcere l'indeterminazione contro il sistema - capovolgere l'indeterminazione in sterminazione. Ritorsione, reversione del codice secondo la stessa logica, e sul suo stesso terreno, e vittoriosa su di esso perché lo supera nell'irreferenziale”. A me, allora, sembra che ci sia un rischio che corra parallelo a quello della criminalizzazione dei graffiti, cioè la loro edulcorazione. Non escludere più il segno, ma inserirlo nel codice e depotenziarlo. Che cosa resta, cioè, di un graffito se lo si riduce a semplice gesto artistico? Se lo si denuda del suo aspetto sovversivo? Le lettere giganti e stilizzate, di per sé, non spaventano nessuno. Finiscono per essere riassorbite nel vortice della moda. Segni di consumo in mezzo agli altri. Tratti stilistici legati ad un'epoca e ad un immaginario da incastrare in un catalogo. Anche le vetrine della Rinascente oggi vengono addobbate facendo il verso alla street-art. Ma del resto è uno dei tratti della nostra epoca, quello della creazione artificiosa dell'autenticità. Assistiamo ad una ricerca spasmodica della credibilità costruita attraverso una stilizzazione del mito della strada: lo street-food trasformato nel brand che dona alle frattaglie dignità da nouvelle cousine, il rap impegnato cantato sul palco di Sanremo, i jeans venduti già strappati, la finta ferita sul sopracciglio fatta in parrucchieria, la rudezza di periferia assunta come dominante estetica dei salotti televisivi. Tutto ciò perde senso e perde gusto, come una panella macrobiotica cotta al forno e senza sale. Questa è l'altra faccia di una lotta al degrado fatta buttando la polvere sotto il tappeto, quella che punta i riflettori sull'unico angolo lucidato chiudendo gli occhi su ciò che di inaccettabile resta attorno. È la creazione di un idea fittizia di decoro urbano che serve soltanto ad aumentare la distanza tra un centro presepizzato ed una periferia rimasta al buio. È l'idea di decoro che si insegue quando si sgomberano i centri sociali, la stessa che guida le ronde contro i campi rom, ma che è sempre distratta verso i crimini commessi da chi sta in alto. Come non ricordare, ad esempio, la crociata che ha portato allo sgombero del Teatro Valle, ritenuto necessario a ripristinare la legalità in una città che poi si sarebbe scoperta governata da personaggi come Buzzi e Carminati. I graffiti mantengono tutto il loro valore, allora, quando non elemosinano un riconoscimento dall'arte ufficiale, ma quando la deridono e ne mettono a nudo la logica, denunciando l'ipocrisia del potere. I graffiti rappresentano il ritorno del rimosso. Sono la parte maledetta che non scompare ed insegue ossessivamente coloro che la volevano oscurare. Chi pensava che bastasse creare dei ghetti per rendere la città uno spazio liscio, si ritrova adesso inseguito da miriadi di segni perturbanti. La loro utilità sta proprio nel loro essere inutili, nel loro sottrarsi alla logica utilitarista e produttivista. Sono minacciosi non perché rappresentano un pericolo, ma perché rendono visibile la pericolosità del potere. Ci dicono che se il decoro è tutto di facciata allora bisogna decorare le facciate. Se il muro è il simbolo del potere che separa ed ordina, il graffito è l'immagine che scompiglia e disobbedisce, ridicolizzando il comando. Del resto, come scrive Banksy: “if graffiti changed anything it would be illegal”.
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