FUNERALE GLOBALE
22/3/2015
Scritto da Vincenzo Marineo Nel 1988, molto tempo prima di diventare ministro, Yanis Varoufakis si era già posto la domanda: abbiamo il diritto di cercare la felicità in questo mondo agitato? Ce lo racconta nell’introduzione a Modern Political Economics, il libro scritto insieme a Joseph Halevi e Nicholas Theocarakis e pubblicato nel 2011, dalla cui seconda parte è nato poi, autore il solo Varoufakis, The Global Minotaur. La domanda sulla ricerca della felicità si è trasformata in una riflessione sull’economia globale; che ci fosse un rapporto tra le due cose, d’altronde, i Greci l’hanno sempre saputo. Potevamo leggerlo in italiano, questo Minotauro globale, nell’edizione della Asterios, già nel 2012, ben prima che Varoufakis diventasse un personaggio pubblico (certamente non per una operazione di marketing). Leggendolo adesso, possiamo verificare che la notizia in esso contenuta – la morte del Minotauro globale – è confermata. La notizia è appunto che quel dispositivo economico-politico che ha fatto girare l’economia globale dagli anni Settanta fino al 2008 (il Minotauro globale, come lo chiama Varoufakis) ha smesso di funzionare. Era un dispositivo di regolazione dei flussi globali di beni e capitali fondato sulla crescita sia del deficit di bilancio che del deficit commerciale degli Stati Uniti (che importavano più di quanto esportavano), e, insieme, sul finanziamento di questi due deficit grazie al flusso di capitali dalle altre economie verso gli Stati Uniti. Che le cose funzionassero così era chiaro, almeno a Paul Volcker, presidente della Federal Reserve ai tempi di Carter e di Reagan, che nel 2005, riflettendo sullo stato di salute dell’economia USA, diceva: “Quello che tiene insieme [la storia di successo dell’economia USA] è un massiccio e crescente flusso di capitale dall’estero, che assomma a oltre 2 miliardi di dollari ogni giorno lavorativo e che continua ad aumentare […] L’aspetto più arduo di tutto ciò è che questo quadro apparentemente rassicurante non può andare avanti all’infinito. Non so di alcun paese che sia mai riuscito a consumare e a investire a lungo il 6 per cento in più di quanto produce. Gli Stati Uniti stanno assorbendo circa l’80 per cento del flusso netto di capitale internazionale”. Varoufakis, riportando queste parole, afferma che non avrebbe saputo esprimersi meglio. Nel 2007, e poi nel 2008, i fallimenti di banche, società finanziarie, società di assicurazioni, di cui sono state piene le cronache, hanno fatto saltare questo afflusso di capitali: il moderno tributo che saziava il Minotauro globale – l’analogo del tributo di giovani ateniesi di cui si nutriva l’altro Minotauro, quello del labirinto cretese – non è stato più pagato. Ma come erano riusciti gli Stati Uniti a convincere tante altre economie ad affidare i soldi a Wall Street? È una storia che inizia dopo la crisi del 1929, e che vede protagonista la classe dirigente USA; Varoufakis ce la racconta, e spiega pure cosa Wall Street abbia fatto negli ultimi decenni con i tributi che le giungevano dal resto del mondo. Una volta capito come funzionava questo “Minotauro globale”, siamo in grado di dare uno sguardo alla storia recente, e vedere molte cose. Possiamo capire perché tutti quei fallimenti, ma soprattutto possiamo capire cosa significa “finanziarizzazione”, capire cosa in realtà succedeva quando l’economia sembrava funzionare, quando il lavoro deregolamentato, la ritirata dello stato, privato è bello, sembravano le regole per il successo. Possiamo anche vedere che il sedicente neoliberismo è una feroce utopia, il cui asserito successo è privo sia di giustificazioni teoriche che di riscontri nella realtà. Una ideologia, quella neoliberista, che non vale la pena di soffermarsi a criticare, perché, semplicemente, non c’è. Reagan, supposto campione del neoliberismo, ha provocato “il più grande aggravamento dei deficit governativi del dopoguerra”. Di che stiamo a parlare? Dobbiamo continuare a lamentarci del fumo che ci impedisce di vedere, o è meglio fermare chi alimenta il fuoco? Possiamo vedere che il “sogno europeo”, seppure per alcuni è stato veramente tale, e possa continuare ad esserlo, nello svolgersi delle vicende storiche è stato invece “una grandiosa idea americana che venne messa in pratica dalla diplomazia americana al più alto livello”. Se vogliamo pensare l’Europa, dobbiamo pensarla diversa da quella descritta dai trattati e governata dall’euro: iniziando con l’avere chiaro da dove è partito in realtà il suo progetto, per poi capire perché ci sta portando dove ci sta portando, e perché non può portarci altrove. La chiave di lettura del Minotauro globale si rivela particolarmente efficace per capire cosa sta accadendo oggi; per esempio, citando da Modern Political Economics: “l’Eurozona del 2000-2008 non è più praticabile dopo il 2008. La prima poteva tenere duro, malgrado gli squilibri tra i paesi in deficit e quelli in surplus, finché poteva contare su ampi surplus commerciali nei confronti del resto del mondo. Ma ora che gli Stati Uniti e la Cina hanno smesso di essere una fonte di domanda in eccesso per la manifattura europea, le formiche [gli stati in surplus] devono fare sempre più affidamento sulle gazze [gli stati in deficit] per i loro surplus.” E questo, se ci riflettiamo, spiega molte cose. Certo, nessuna singola interpretazione può avere la pretesa di essere esauriente e definitiva; ma la sensazione, leggendo il libro, è di avere davanti una analisi ampia e ben fondata: qualcosa di utile. A parte i riferimenti espliciti a Marx e a Keynes, il discorso sulla finanziarizzazione dell’economia, sul declino delle egemonie, sul loro trasformarsi in dominio, può trovare riscontri in autori come Braudel, o come Giovanni Arrighi, cui Varoufakis non fa riferimento, ma che, in particolare Arrighi, credo giungano ad analisi confrontabili con quelle sviluppate ne Il Minotauro Globale. Più che di idee originali, penso che abbiamo bisogno di analisi che quantomeno provino a confrontarsi con la complessità; la quale non è una cosa originale, neanche se la chiamiamo globalizzazione. E in ogni caso è lo stesso Varoufakis a dirci che dietro il suo discorso non c’è una scienza che lo dimostra; semmai, c’è un sapere empirico, che lo mostra: e il libro è un libro di storia. C’è, dietro, una coscienza dei limiti della ragione economica, la consapevolezza, credo, della sua (della ragione) necessaria contingenza – come direbbe il politologo Carlo Galli. Quando Varoufakis parla della teoria economica, cita un teorema di impossibilità, che dimostra che i modelli economici risolvibili non possono trattare il tempo e la complessità simultaneamente. Che, tradotto in termini politici, implica una cautela, la necessità di prendere delle precauzioni, l’impossibilità di essere presuntuosi nel prospettare soluzioni ai problemi. Varoufakis è, in qualcuno dei tanti modi possibili, marxista. Vede che il capitalismo, di per sé, non funziona; e il suo libro è una grandiosa dimostrazione del fatto che la classe dirigente dello Stato-guida del capitalismo questo lo sa benissimo, e che sa anche che bisogna continuamente correre in suo soccorso inventandosi qualcosa per farlo funzionare. Tuttavia Varoufakis sembra convinto che con il capitalismo, in qualcuna delle sue tante metamorfosi, dovremo averci a che fare ancora per un bel pezzo. Allora, se vogliamo pensare un mondo in cui si possa essere, se non felici, almeno meno infelici, non possiamo aspettare, per pensarlo, che il capitalismo si sia tolto di mezzo. Dobbiamo pensare questo mondo per gli uomini e per le donne che sono vivi adesso. Certo, a meno di non credere nella resurrezione della carne, che giungerà alla fine dei tempi. Ma allora: o capitalismo o barbarie? no, ma neanche “tanto peggio, tanto meglio”: semmai, un umile esercizio della ragione, avendo chiari i suoi limiti. Non c’è, alla fine, la risposta alla domanda se si abbia il diritto di cercare la felicità; in compenso troviamo la descrizione di un mondo sempre più agitato, nel quale sarà più facile essere infelici.
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