di Giovanni Di Benedetto
“Aveva lavorato per 16 ore consecutive in una fabbrica tessile nel sud dell’India. Poi è tornata nel suo dormitorio e si è impiccata. È morta così una ragazzina di 14 anni.” Su Conquiste del lavoro del 13 febbraio 2018 un articolo a firma di Ester Crea dava conto delle condizioni inumane del lavoro minorile nel sud dell’India e, in particolare, del suicidio di una giovane ragazza a causa del sovraccarico di lavoro cui era sottoposta: “A denunciare il caso è il sindacato Tamil Nadu Textile and Common Labour (TTCU), un’organizzazione composta da sole donne. La notizia del rinvenimento del corpo di Dharshini Balasubramani è stata diffusa una settimana fa, a quattro mesi esatti dalla morte di un’altra adolescente che lavorava in una filanda vicina per un salario di 40 dollari. (…) Gli attivisti dicono che i lavoratori del settore sono principalmente giovani donne provenienti da comunità povere, analfabete e di bassa casta, che lavorano fino a 12 ore al giorno e spesso subiscono intimidazioni, allusioni sessuali e molestie. Un’ong locale, la Serene Secular Social Service Society, ha affermato di aver documentato la morte di almeno 10 lavoratori negli stabilimenti del Tamil Nadu occidentale negli ultimi quattro mesi. «Invece di cercare di migliorare le condizioni di lavoro, le aziende stanno comprando il silenzio delle famiglie dando un piccolo risarcimento una tantum per le morti», ha commentato S. James Victor, direttore dell'ente no profit di Dindigul.” (Ester Crea, Lavoro minorile, suicida a 14 anni in una filanda del sud dell’India in Conquiste del lavoro, Quotidiano di informazione socio economica, 13.02.2018). La morte della ragazzina di 14 anni ci parla non solo delle drammatiche condizioni di lavoro del settore tessile e dell’uso illegale di manodopera minorile in India, peraltro in violazione delle convenzioni internazionali, ma anche del peggioramento della situazione economica e sociale della forza lavoro che si registra nei paesi ricchi dell’Occidente. Suicidi, prolungamento del tempo di lavoro, intimidazioni, ricatti e molestie sessuali. Sembra di essere nell’Inghilterra del XIX secolo, la locomotiva del capitalismo industriale dell’Ottocento, e invece è il tempo presente. Per misurare la gravità del fenomeno è sufficiente andare a leggere qualcuno degli innumerevoli reports pubblicati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO). In Global estimates of modern slavery: forced labour and forced marriage (International Labour Office, Geneva, 2017) si riporta, per esempio, il dato impressionante riguardante il fatto che, in tutto il pianeta, nel 2016, oltre 40 milioni di persone sono state vittime di forme di schiavitù moderna. L’ILO, inoltre, ha reso noto che circa 152 milioni di bambini e bambine, ragazzi e ragazze di età compresa tra i 5 e i 17 anni sono coinvolti in forme di lavoro minorile. Peraltro, queste stime si accompagnano a una tendenza che, negli ultimi decenni, a partire dal crollo del socialismo reale, ha registrato un aumento a dismisura della forza-lavoro che, a vario titolo, si potrebbe definire salariata e che è stata, sempre di più, integrata all’interno della sfera del mercato mondiale. Si pensi, per fare solo un esempio, all’enorme quantità di popolazione lavorativa della Cina e degli altri paesi emergenti. Ma si guardi anche, in prospettiva futura, alla nuova frontiera del XXI secolo, il continente africano, che il capitale ha in programma di conquistare da qui al 2050. In un testo di qualche anno fa David Harvey ricordava che negli ultimi trent’anni “due miliardi di lavoratori salariati sono stati aggiunti alla forza lavoro disponibile a livello globale, grazie all’apertura della Cina e al crollo del comunismo nell’Europa centrale e orientale. In tutto il mondo le popolazioni contadine, che in passato avevano goduto una certa indipendenza, sono state integrate nella forza-lavoro. L’aspetto più eclatante è lo sfruttamento delle donne, che oggi costituiscono la colonna portante della popolazione lavorativa globale;” (David Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Milano, 2011, pp. 69-70). Il caso in questione, relativo alla quattordicenne indiana, induce a ricordare una vicenda analoga, risalente al 1863, quella della morte di una giovane sartina fiaccata e sfruttata fino allo sfinimento a causa del prolungamento della giornata lavorativa. L’episodio è raccontato da Marx nell’ottavo capitolo del primo libro del Capitale, quello sulla giornata lavorativa, la cui terza sezione si intitola, non a caso, branche dell’industria inglese senza limite legale allo sfruttamento. Così Marx, in questa lunga ma imprescindibile citazione: “Durante le ultime settimane del giugno 1863 tutti i quotidiani londinesi riportarono un pezzo con l’insegna «sensational»: Death from simple overwork (Morte da semplice sovraccarico di lavoro). Si trattava della morte della crestaia Mary Anne Walkley, di venti anni, occupata in un rispettabilissimo laboratorio di corte sfruttata da una signora dal riposante nome di Elisa. Si tornò a riscoprire la vecchia storia, tante volte raccontata, che queste ragazze lavorano in media sedici ore e mezzo, ma durante la stagione anche spesso per trent’ore di seguito, mentre la loro «forza-lavoro» che viene a mancare vien tenuta in moto con eventuali somministrazioni di Sherry, di vino di Porto o di caffè. Ed era proprio il culmine della stagione. Si trattava di far venir fuori belli e pronti in un batter d’occhio, i magnifici vestiti di gala di nobili ladies per il ballo in onore della principessa di Galles, da poco importata. Mary Anne Walkley aveva lavorato ventisei ore e mezza senza interruzione, assieme ad altre sessanta ragazze, trenta per stanza, in una stanza che appena poteva contenere un terzo della necessaria cubatura d’aria, mentre le notti dormivano due a due in un letto, in uno dei buchi soffocanti ottenuti stipando varie pareti di legno in una sola stanza da letto. E questo era uno dei migliori laboratori di mode di Londra. Mary Anne Walkley s’ammalò il venerdì e morì la domenica, senza neppur aver prima finito l’ultimo pezzo dell’ornamento, con gran meraviglia della signora Elisa. Il medico, signor Keys, chiamato troppo tardi al letto della moribonda, depose davanti al «Coroner’s jury» con queste secche parole: «Mary Anne Walkley è morta di lunghe ore lavorative in laboratorio sovraffollato e in dormitorio troppo stretto e mal ventilato».”(Marx, Il Capitale, libro I, Roma, 1989, pp. 289-290). La lettura degli scritti di Marx è, ogni volta che li si ripercorre, scaturigine di spunti, idee e riflessioni sempre nuovi. In quello straordinario cantiere aperto che è rappresentato dall’elaborazione marxiana si intrecciano livelli del discorso spesso sovrapposti e moduli espressivi differenti e molteplici. Riportando la documentazione copiosa messa a disposizione dalle inchieste preoccupate degli ispettori del lavoro, dalle denunce scrupolose di medici e primari, dalle ricerche puntigliose di redattori di riviste di scienze sociali, Marx, nel capitolo sulla giornata lavorativa, tralascia il registro logico teorico dei primi capitoli del Capitale per abbandonarsi ad un’analisi prevalentemente storica, il cui stile evoca, a ragione, tonalità noir e atmosfere dell’orrore. È la fame di pluslavoro di lupi mannari, (Marx, Il Capitale, ibidem, p.278), la sete da vampiro che il capitale ha del vivo sangue del lavoro (Marx, Il Capitale, ibidem, p.292). Il capitalista spreme come una sanguisuga la forza-lavoro, ne estrae il tempo che appartiene al lavoratore, perché la formazione del plusvalore richiede di necessità pluslavoro. Atomi di tempo sono gli elementi del guadagno, scrive uno di quegli integerrimi ispettori di fabbrica sostenuti dall’aristocrazia fondiaria che ambiva a presentarsi, agli occhi del proletariato del tempo, come un riferimento paternalistico contro la bramosia di guadagno rapace della borghesia industriale (Marx, Il Capitale, ibidem, p.277). Una volta accumulato, il capitale si deve riprodurre incessantemente e allargare progressivamente. Il suo istinto, dice il nostro, è quello di appropriarsi incessantemente di lavoro. Il fattore tempo è l’architrave su cui si regge, attraverso la produzione di un’eccedenza di valore, ossia del plusvalore, il modo di produzione capitalistico. Il suo centro strategico è dato dalla durata della giornata lavorativa e dalla sua protrazione oltre la soglia entro la quale il lavoratore ottiene in cambio ciò che gli è necessario per vivere. Se l’estensione della giornata lavorativa permette al capitale di appropriarsi di un plusvalore assoluto, lo sviluppo delle forze produttive e il progresso dei dispositivi tecnici riferiti al lavoro, attraverso i quali si realizza, invece, una riduzione del tempo in cui il salariato lavora per sé, consentono l’estrazione di un plusvalore relativo. Nel tempo presente, con l’estensione sempre più pervasiva del dominio del capitale sulla generalità della produzione, può accadere che in determinati segmenti del mercato del lavoro il capitale punti all’estorsione di plusvalore assoluto e che in altri, allo stesso tempo e in considerazione dei vincoli che si impongono all’accrescimento del saggio di plusvalore, punti all’estorsione di plusvalore relativo. Resta il fatto che, sia su scala globale che su quella locale, le due forme in cui si dà la produzione del plusvalore non è detto che debbano essere in contraddizione ma possono, invece, coesistere insieme. È per questo che possono darsi, allo stesso tempo, da un lato processi produttivi incentrati sullo sfruttamento del lavoro tramite il prolungamento della giornata lavorativa e il sovraccarico di lavoro e, dall’altro lato, processi produttivi incardinati sull’innovazione tecnologica e l’applicazione tecnico-scientifica, ma non per questo meno estranianti e alienanti. Non resta che constatare un dato alquanto significativo: il lavoro redatto da Marx rappresenta una matrice che sollecita e stimola a una continua critica dell’esistente, non c’è dubbio, la sua opera di analisi rimane di una sconcertante e impressionante attualità. La diagnosi elaborata da Marx permette di rischiarare meglio il problema dello sfruttamento del lavoro e dell’origine delle disuguaglianze, offrendoci una maggiore intelligibilità delle variabili in campo e della loro incidenza nella sfera dell’economico. È per questa ragione che Marx elabora una teoria incardinata sul lavoro come sostanza del valore e sul tempo di lavoro socialmente necessario come misura della grandezza del valore. Non a caso, se c’è un aspetto fondamentale nella storia della lotta al capitalismo questo è dato dalla resistenza incessante per limitare la durata della giornata lavorativa. Perché il controllo sul tempo significa, in sostanza, il governo delle vite dentro e fuori la sfera della produzione. Anche senza entrare nel merito dell’obiezione di scarsa attendibilità scientifica rivolta alla teoria del valore (ma la scienza e le sue ricadute tecnologiche non sono forse anch’esse funzione del capitale?), resta il fatto che essa riesce a illuminarci su ciò che accade quotidianamente nel processo produttivo, dando una spiegazione sia del comportamento dei capitalisti sia del contesto nel quale opera il lavoratore.
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