di Mario Minarda
Sallustio: – Così studiassi tu d’etica. Che dimande sono coteste? Lettore: – Non andare in collera: così possa tu guarire dei segni delle staffilate che rilevasti da Milone per amore della bellezza. (G. Leopardi, Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio ) Nell’ambito della cultura umanistica contemporanea un nuovo interessante settore di ricerca guarda da vicino ai rapporti tra etica e letteratura. Si tratta di un indirizzo di studio nato principalmente nel mondo accademico statunitense negli ultimi decenni del XX secolo e che alimenta ancora oggi un importante dibattito critico a livello planetario. Esso tende in sostanza ad assegnare un «valore sociale positivo»[1] al fatto di natura artistico-letteraria, legandolo alle dinamiche eterogenee del presente. Ci si può chiedere allora, in prima battuta, in cosa consista questa positività o quali siano i termini del confronto, le clausole e le ricadute di tale probabile giovamento. Come si può notare, la semplice dicitura del binomio ‘Etica e Letteratura’ fornisce, seppure in un modo circolare, una prima risposta: esso è costituito da un legame di tipo coordinante. Nel senso che le due discipline, una d’ambito filosofico e speculativo (l’etica), l’altra di tipo linguistico-storico (la tradizione letteraria, appunto) mantengono una specifica fisionomia comunicativa, eppure si accompagnano insieme, camminano su percorsi spesso paralleli, intrecciando le differenti sfere d’azione. Il rapporto però tra le due materie è in realtà complesso e chiama in causa dimensioni in apparenza antitetiche: come può infatti l’individualità, la soggettività creativa propria di attività libere come lo scrivere, il leggere o l’interpretare un testo letterario, coniugarsi con le scelte, le responsabilità e le norme, morali e civili, ascrivibili alla collettività autoregolata dell’intero consorzio umano? Specialmente guardando ai postumi di un periodo storico che – come ci ricordava Ceserani più di venti anni fa in Raccontare la letteratura – pullula di una miriade di testualità non letterarie «che trasmettono e diffondono conoscenze, immagini della realtà e del mondo»[2]? All’interno delle prospettive critiche messe a punto negli ultimi anni spicca l’esperienza portata avanti dalla neoaristotelica americana Martha Nussbaum, la quale declina in senso utilitaristico e politico concetti quali la forza dell’immaginazione, il cosmopolitismo, le differenze di genere, le identità, le emozioni e l’educazione, connettendoli allo studio e alla forte valenza attualizzante che possono avere gli studi classici oggi: soprattutto per quel che concerne il rapporto diretto tra istruzione pubblica e cittadinanza. In questo contesto, fondamentale diviene l’insegnamento della filosofia antica, dell’arte e, soprattutto, della letteratura nelle scuole di ogni ordine e grado. Tali discipline svilupperebbero nel concreto – scrive Nussbaum – «le capacità di giudizio e sensibilità che possono e devono essere espresse nelle scelte effettuate dal cittadino»[3]. Inoltre verrebbero fuori dal singolo individuo caratteristiche e qualità come la capacità di scelta, l’autonomia critica e l’attitudine figurativa promosse rispettivamente dal ragionamento socratico e dall’immaginazione narrativa, addensata, quest’ultima, nelle trame di opere antiche e moderne. L’autrice fa l’esempio della tragedia Filottete di Sofocle all’interno della quale ravvisa, nel contrasto tra l’insensibilità strumentale di Odisseo e il coro dei suoi compagni marinai, una empatia di fondo nei confronti del protagonista abbandonato sull’isola ed escluso così dai rapporti sociali di alto rango. Ciò per il suo essere considerato diverso a causa della sua infermità. Prendendo in prestito la metafora di Wayne Booth, secondo la quale l’opera letteraria sarebbe come un amico, Nussbaum suggerisce di entrare così in sintonia direttamente con il testo a partire dalla nostra simpatia nei confronti dei personaggi di racconti o romanzi: ciò avrebbe uno spessore a livello politico, e quindi, morale[4]. Inoltre la filosofa, ricalcando l’accento sull’eredità enorme ricevuta dal mondo antico e ribadendo la sua efficacia nell’elaborazione teorica moderna, la ripropone con convinzione, polemizzando anche contro il pensiero di George Will secondo cui l’estetica interna di un testo di esclusiva fruizione letteraria sarebbe messa in secondo piano da valutazioni esterne di tipo politico. Al contrario estetica e politica, ovvero letteratura da un lato e senso civico dall’altro, volgendo lo sguardo al passato, sembrano nate nella medesima congerie conoscitiva: Solo limitandoci al caso della Grecia antica, possiamo ritrovare questi stessi interrogativi in Aristofane e Aristotele, in Platone e Plutarco. In che modo, essi si domandano, la letteratura contribuisce al carattere del giovane cittadino? Quale rilevanza morale hanno la forma e la struttura con cui le opere letterarie sono organizzate? Questa è la problematica letteraria dominante nella tradizione estetica occidentale, lo si può affermare senza nessuna forzatura. È una problematica che, se posta in maniera pertinente, non rischia affatto di trascurare la “forma” del testo [5] Appurato il nodo esistente tra la sfera dei segni finzionali prodotti dall’universo letterario e i suoi significati, irrelati al complesso mondo civile contemporaneo, nel più famoso testo della scrittrice se il titolo, Non per profitto, indica assoluta libertà dagli omologanti condizionamenti di tipo economico che regolano il mercato di una nazione, il sottotitolo, Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, con tanto di sintagma verbale marcato in corsivo, palesa piuttosto una stringente dipendenza per ciò che concerne strutture governative e forme di potere politico istituzionale. In ogni caso è ribadita la pregnante valenza salvifica[6] riconosciuta agli studi umanistici, grazie ai quali è possibile «educare alla cittadinanza responsabile e globale»[7], enucleando dai fatti varie capacità orientative e decisionali pensate per il bene comune, con la inderogabile attenzione a non sottovalutare, tuttavia, la preziosa unicità dell’individuo e le sue istanze libertarie ed emozionali[8]. Tutto il discorso teorico-politico proposto da Martha Nussbaum è volto insomma a dimostrare la tesi secondo la quale non soltanto la cultura delle lettere non è inutile rispetto al pensiero economico e alla produttività scientifica, tecnologica e iper-avanzata dell’oggi, anzi, al contrario, la corrobora in vista di ulteriori risultati in senso migliorativo. L’assunto muove però contro una logica strumentale, affaristica e invasiva, in cui tutto è mercificato o quantificato senza possibilità di infrazioni originali, spontanee e alternative, o di metri fondati su criteri di vera qualità. Tuttavia esistono importanti spazi di resistenza e costruttiva opposizione a una letteratura troppo declinata in senso servile e quindi a tutti i costi utile alle “magnifiche sorti e progressive” della attuale società moderna, nella quale ogni dato reale è considerato come oggettivo, certo, immodificabile. Volto alla perpetuazione di un immaginario collettivo in qualche modo pilotato. Focalizzando invece l’attenzione, in modo più pertinente e libero, sul testo di natura letteraria, il critico francese Yves Citton ha proposto di recente, nel suo saggio che in lingua italiana ha per titolo Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici? (duepunti edizioni, traduzione di Isabella Mattazzi), un’idea semplice, eppure in sé originale e combattiva per provare a decostruire i significati che arrivano dall’alto in maniera standardizzata. In un processo evolutivo in cui vige la routine prodotta dal capitalismo delle conoscenze, viene svolta in primis la diagnosi di chi lavora nel settore della ricerca, dell’istruzione e della comunicazione. Viene fuori un vero e proprio Stato Sociale del nuovo millennio chiamato “cognitariato”, o “quinto stato”, per dirla con una rubrica promossa da Roberto Ciccarelli per il quotidiano il Manifesto, al quale sono affiancati termini in apparenza neutri come “economia della conoscenza”, “capitale umano”, “società dell’informazione”. Citton propone di ritornare alla «stupefacente attività multiforme dell’interpretazione»[9], ovvero all’atto libero ed individuale di sforzo conoscitivo che si pone contro omologanti e spesso sterili metri di produttività. Detta in questi termini l’interpretazione «è quel lavorio sul senso comune che mette in discussione la credenza per cui esisterebbero “dati di fatto”»[10] Negli addentellati dell’universo tecnologico, industriale, dentro le istituzioni accademiche o scolastiche e in quelle governative, l’interpretazione, contrariamente alla lettura posta in essere da nuove retoriche consistenti nell’accumulo passivo di nozioni e categorie, riguadagna piuttosto i caratteri e gli strumenti per una vera e propria insubordinazione all’esistente, in un orizzonte totalmente aperto che sintonizza le reti della conoscenza su di un piano multilivellare. Interpretare è quindi, da questo punto di vista, uscire con sforzo originale e coraggioso dalla presunta griglia dell’oggettività con la quale siamo stati abituati a osservare lo stato di cose presenti. Grazie all’interpretazione – avverte Citton – emergerebbe un bisogno assieme individuale e collettivo di ri-comporre e ri-configurare i sensi del mondo dando loro un significato di volta in volta inedito. L’autore gioca costantemente con parole quali “montaggio”, “cortocircuito”, “trasduzione”, “inter-prestito” e si confronta da vicino con le condizioni necessarie all’interpretazione: come la solitudine (cita perfino la famosa “stanzetta solitaria” evocata da Virginia Woolf), l’intuizione, l’emozione estetica, l’individualità, la dialettica otium contro negotium.[11] Non si tratta di un retaggio di vecchi postulati romantici o crociani: tali luoghi specifici sono invece ipotesi proposte all’interno di nuove dinamiche collettive e libertarie, volte ad aprire le nostre menti al dubbio pregnante e perpetuo. Emerge dunque un’estetica della pluralità che quindi finisce per incontrare inevitabilmente la dimensione etica del singolo soggetto pensante, del lettore così come dell’autore. Su questo versante, guardando anche al panorama critico italiano degli ultimi anni, contributi significativi provengono dai testi saggistici di Ezio Raimondi. Per l’italianista bolognese infatti «all’ortodossia e alle certezze di un reale statico subentra la consapevolezza di un’esperienza perpetuamente in divenire»[12] e quindi di riflesso non ci si stupisce, né si rischia autoreferenzialità, affermando che «la letteratura non può parlare del reale senza parlare anche di sé, del suo esperimento mai garantito in anticipo di ordinare e significare la complessità»[13]. Una complessità che poi è in fondo quella stessa dell’uomo, con la sua sensibilità, il suo mondo pratico, i suoi costumi d’ordine etico e civile misurati di continuo nel quotidiano. In questo senso – scrive sempre Raimondi in Un’etica del lettore –«l’immaginazione della letteratura propone la molteplicità sconfinata dei casi umani, ma poi chi legge, con la propria immaginazione, deve interrogarli anche al lume della propria esistenza, introducendoli dunque nel proprio ambito di moralità»[14]. Si fa sempre più strada l’idea per cui non c’è, non esiste un’etica esterna che si accompagna alla letteratura e aiuta a leggerla nel caotico mondo presente, ma, al contrario, emerge un’etica che si identifica col mutevole universo del letterario. Un’etica interna a un orizzonte del tutto soggettivo il quale agisce con le sue peculiarità, i suoi linguaggi trasfiguranti. Se poi questo soggetto umano è anche un autore di opere letterarie ecco quindi che le sue scelte, i suoi atti di responsabilità, i suoi stessi pensieri critici e civili vengono a coincidere con le scelte di stile che ritroviamo nei testi di invenzione o di elaborazione teorica, che esprimono e hanno espresso, in vari secoli e contesti, quelli che Alberto Casadei, nel suo recente saggio Letteratura e controvalori , ha chiamato “valori contro”, ovvero spunti morali non soggetti ad alcuna legge.[15] A questo punto, un po’ provocatoriamente, mutando il legame sintattico del binomio di partenza si potrebbe dire etica è letteratura, nel senso che, dal punto di vista degli scrittori, delle opere e della loro ricezione l’etica si identifica con la letteratura, con i suoi statuti plurali e figurativi, con la consapevolezza del legame sempre più stretto tra elaborazioni formali e tensioni conoscitive[16]. Da una econgiunzione alla terza persona singolare del verbo essere. In un senso però monodirezionale ed irreversibile.[17] Letteratura (e filtri letterari) come unica risposta possibile a certe dinamiche o condizionamenti del presente. Una diade che, in maniera alternativa, ritroviamo, andando a ritroso nel tempo, perfino in Giacomo Leopardi. Alcune implicazioni contenutistiche presenti nella figura e nell’opera del poeta di Recanati potrebbero offrire infatti qualche spunto di riflessione su quanto detto finora e consentire ampi margini di dibattito proprio su quella funzione civile, etica e politica assunta dalla letteratura all’interno dell’avanzare di una società di tipo moderno. In questo senso molti nuovi cantieri di ricerca sull’autore sono tuttora in corso.[18] Grazie alla lungimirante capacità di diagnosticare e smascherare i fenomeni del costume letterario borghese del suo tempo, l’opera di Leopardi per i temi che pone sembra parlare indirettamente anche a noi, intercettando nodi della riflessione odierna, come la progressiva precarietà del settore umanistico a fronte del così detto falso progresso tecnico-scientifico, l’iper-digitalizzazione frammentaria del sapere, la sua cogente intertestualità,[19] il concetto di comunità civile, l’immaginazione, il bene pubblico, la cittadinanza letteraria. Contenuti e sfide conoscitive che troviamo nelle elaborazioni teoriche, ma, soprattutto, nelle scelte stilistiche operate dal poeta del Canto notturno. In un passo celebre dello Zibaldone si trova una interessante dichiarazione in merito all’inutilità della poesia, la quale piuttosto è dedita al piacere[20] del lettore, al ristoro completo dell’anima: L’utile non è il fine della poesia benché questa possa giovare […] La poesia può essere utile indirettamente, come la scure può segare, ma l’utile non è il suo fine naturale, senza il quale essa non possa stare, come non può stare il dilettevole, imperocché il dilettare è l’ufficio naturale della poesia[21] La polemica contro certo servilismo ideologico del fatto letterario, divenuto nel frattempo espressione diretta di una specifica classe del tutto incardinata al sistema di società[22] («il volgo dei letterati») continuerà in alcuni passi dell’operetta morale Parini, ovvero della gloria e, in altri termini, nel coevo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (1824), dove è piuttosto denunciata la mancanza di una letteratura nazionale moderna capace, grazie al suo intrinseco potere immaginativo, di assolvere quella funzione civile che tanto le si addice.[23] Tale mancanza che non ha risposte certe e reitera di continuo le sue stringenti domande stando in una condizione di «desiderio infinito»,[24] per dirla con Celati, ha ovviamente conseguenze politiche non indifferenti. Ciò nella misura in cui – annota l’autore della Ginestra – l’Italia è priva sia di una «società stretta», che di «buon tuono», ovvero, rispettivamente, di una comunità e di una sana opinione pubblica realmente condivisa e improntata al bene di tutta la collettività. Nonostante ciò, sempre in una ulteriore famosa nota zibaldoniana degli stessi anni, che riprende non a caso la lettera del 2 febbraio 1824 a quel Giampietro Viesseux curatore della rivista «Antologia», Leopardi ritiene necessario il fondarsi della nuova letteratura sulle «scienze morali», ovvero sulla filosofia ormai «divenuta la scienza, il carattere, la proprietà dei moderni».[25] Consapevole dunque di una «letteratura che parla dell’uomo»[26], stando pure all’interno degli statuti finzionali e figurativi che le sono propri, ecco che un testo come le Operette morali incarna questa esigenza di una moralità aperta, libera da dogmi assoluti, e, al contempo, altamente capricciosa e fabulatoria, pur palesando, nella scelta del genere e nelle soluzioni di stile adottate dal suo autore, una assoluta inattualità rispetto al canone letterario dell’epoca: data dal riverberarsi di modelli classici di stampo satirico e lucianeo e da certe soluzioni che intrecciano grumi di saggismo e novellistica. Ma le Operette oltre a suggerire sub specie fabulae «uno sguardo critico verso posizioni di illusorio progresso»[27] possono altresì essere rilette oggi anche in chiave etico-politica, senza forzature o attualizzazioni del pensiero leopardiano: anzi, confermando idee già espresse nelle giovanili prose zibaldoniane. Figure e metafore dal forte impatto, oltre a suscitare il piacere per la densità della scrittura, mirano a fare riflettere il lettore. Come, per esempio, i significati che si nascondono dietro le immagini dell’Elogio degli uccelli. I piccoli animali volatili sono per Leopardi emblema di spensieratezza e felicità, simbolo della poesia libera da orpelli contingenti, ma soprattutto rappresentano l’utopia civile di un altro mondo possibile, non modellato sui bisogni privati e la cieca individualità umana,[28] bensì su una ampia ed aperta prospettiva pubblica, slanciata verso l’alto e protesa verso l’altro, sagomata, per inclinazione naturale, ad una fervida ed incessante mobilità di pensiero che coincide, di fatto, con l’essenza plurima dell’interpretazione letteraria e con un cosmopolitismo etico ed esistenziale non comune. Tale esaltazione appassionata del movimento disinteressato e della levità immaginosa potrebbe richiamare alla memoria quelle pagine delle Lezioni americane di Calvino (queste sì: sempre straordinariamente attuali) nelle quali lo scrittore del Barone rampante, discutendo a proposito di leggerezza, vi ritrova figurato il mito di Perseo in groppa al suo cavallo alato Pegaso che sconfigge il volto pietrificante della Gorgone. Scrive Calvino: «Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio»[29]. Ecco forse la vera etica del letterario è questa: uno specchio rovesciato in cui rifrangere una leggera mobilità di forme, una continua negoziazione di significati tra autore e lettore, contro la pesantezza omologante e fin troppo utilitaristica del mondo odierno. Note: [1] F. Brioschi, C. Di Girolamo, M. Fusillo, Introduzione alla letteratura (si veda in particolare il capitolo intitolato Nuove Frontiere), Carocci editore, Roma, 2013, p. 270. [2] R. Ceserani, Raccontare la letteratura, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, p. 112. [3] M. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma, 2006, p. 99. [4] «Se leggiamo un romanzo molto attentamente, spesso ci accade di provare simpatia per personaggi tra loro molto diversi; ma spesso l’opera stessa indirizza tale sentimento del lettore verso certi personaggi e non verso altri. Le opere letterarie non sono immuni dai pregiudizi e dalle parzialità che caratterizzano in grande misura la vita politica […] Questo approccio civile e valutativo alla lettura ha uno spessore politico e morale. Ci viene chiesto infatti in che modo l’interazione tra il lettore e l’opera instauri una relazione paragonabile a un’amicizia e/o a una comunità e ci invita ad analizzare i testi esprimendo valutazioni morali e sociali relative al tipo di comunità che i testi creano» (Ivi, p. 110). [5] Ivi, p. 111. [6] La letteratura, intesa come risorsa preziosa da salvaguardare, appunto, dall’assalto invadente di nuovi saperi scientifico-tecnologici o, addirittura, dal sopravanzare della crisi inesorabile degli studi umanistici in quanto questi ultimi sarebbero poco produttivi e inutili, è da anni al centro del dibattito mondiale. In ambito europeo, per fare un solo titolo, si segnala il saggio di Tzvetan Todorov La letteratura in pericolo del 2007, (ed.italiana, 2011). Il testo del critico bulgaro d’estrazione formalista è attraversato tuttavia da venature morali che sottolineano qua e là come è proprio nella sfera della pluralità immaginativa che l’universo letterario restituisce costantemente orizzonti di dignità umana all’individuo contemporaneo, arricchendo costantemente di significato la sfera della sua quotidianità. «Quando mi chiedo perché amo la letteratura, mi viene spontaneo rispondere: perché mi aiuta a vivere […] Più densa, più eloquente della vita quotidiana ma non radicalmente diversa, la letteratura amplia il nostro universo, ci stimola a immaginare altri modi di concepirlo e di organizzarlo […] Al di là dall’essere un semplice piacere, una distrazione riservata alle persone colte, la letteratura permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano» (T. Todorov, La letteratura in pericolo, Garzanti, Milano, 2011, pp. 16-17). [7] M. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino, Bologna, 2007, p. 45. [8] «I cittadini non possono relazionarsi bene alla complessità del mondo che li circonda soltanto grazie alla logica e al sapere fattuale. La terza competenza del cittadino, strettamente correlata alle prime due, è ciò che chiamiamo immaginazione narrativa. Vale a dire la capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprendere le emozioni, le aspettative e i desideri» (Ivi, p. 111). [9] Y. Citton, Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici?, :duepunti edizioni, Palermo, 2012, p. 49. [10] Ovvero – come continua Gianluca Solla nell’articolo che ha per titolo Yves Citton: trasformare il presente apparso sul blog «Doppiozero.com» (23 gennaio 2014) – «questo feticismo per la certezza di ciò che è già dato finisce per cancellare il desiderio di domanda, neutralizzandola» […]. Se il presente venera la sicurezza con cui “gli esperti” spiegherebbero la realtà a un pubblico sempre più inconsapevole, d’altro lato è proprio la spaventosa frammentazione di questa stessa realtà a richiedere sempre più di confrontarsi con ciò che non sappiamo. E questa capacità è propria dell’interpretazione». [11] Su ciò si veda per intero l’interessante articolo di Stefano Jossa Ritorno all’ozio? La comunità letteraria tra retorica e prassi compreso nel volume collettaneo Dove siamo? Nuove posizioni della critica, :duepunti edizioni, Palermo, 2011, pp. 42-57. [12] E. Raimondi, Il senso della letteratura, il Mulino, Bologna, 2008, p. 27. [13] Ibid. [14] E. Raimondi, Un’etica del lettore, il Mulino, Bologna, 2007, p. 52. [15] Il critico in questo libro intende lo stile oltre che un derivato da «un tratto biologico-cognitivo insito nella natura umana» come «un’interfaccia fra interiorità e mondo esterno». Di conseguenza «ogni grande opera artistica, e letteraria in ispecie, è una rielaborazione della realtà, e il critico deve innanzi tutto individuare i tratti perenni che essa mobilita nell’ambito della sua cifra stilistica. Ciò implica una continua rilettura dei classici […]. Ma ciò implica pure una scommessa sulle opere attuali, che deve spingere a sottoporre alla comunità dei lettori e dei critici valori che si ritengono ampiamente condivisibili» (A. Casadei, Letteratura e controvalori. Critica e scritture nell’era del web, Donzelli editore, Roma, 2014, pp. IX-X). [16] «La sperimentazione formale – ce lo ricordano gli scrittori del passato remoto e prossimo – non può prescindere da un’inquietudine estetica-intellettuale e da una tensione etica» (F. Di Legami, Le incertezze di Proteo. Prospettive e sfide di una cultura in divenire, in AA. VV., Letteratura, identità, nazione, a cura di M. Di Gesù, :duepunti edizioni, Palermo 2009, p. 84). [17] Nel senso che non è, ovviamente, la letteratura ad essere etica, in quanto essa, da sempre, non ha scopi precipui , non propone, né ha da suggerire, valori o modelli standard. (Sebbene siano esistiti nei secoli scrittori moralisti o opere dai contenuti particolari contenenti un messaggio morale o civile). È, al contrario, l’etica ad essereletteratura, in quanto certi contenuti o temi sono espressi e possono essere comunicati soltanto in forma di figure e metafore, ovvero in forme letterarie non strettamente referenziali, ma sottoposte a filtri immaginativi. Inoltre sia la letteratura che l’etica, nell’ambito della modernità, condividono uno status costantemente dubitativo, che, più che porre dogmi valoriali, avanza domande, richieste di senso. [18] Tra essi si segnala il notevole “Laboratorio Leopardi” attivo da alcuni anni presso l’Università La Sapienza di Roma, diretto da Franco D’Intino e Novella Bellucci, il quale si occupa della classificazione del lessico leopardiano presente nello Zibaldone e in altri testi in prosa del poeta di Recanati. [19] Così Richard Dixon, uno dei sette autori della recente traduzione in lingua inglese dello Zibaldone leopardiano: «la forma frammentaria dello Zibaldone, con il cambiamento continuo di argomenti, lo fa assomigliare a quello che oggi potrebbe essere un blog. E poi, in quasi ogni pagina, ci sono riferimenti che ti conducono verso altre pagine in modo che la lettura non avviene in maniera lineare, come per un libro, ma circolare, come quando si naviga in Rete, cliccando da pagina a pagina e seguendo l’argomento che interessa» (Cfr. articolo-intervista di P. Ercolani, Lo Zibaldone è come un blog in «il manifesto», 5 febbraio 2014). [20] Legando tale funzione alla così detta teoria del piacere del Recanatese, presente, come è noto, in molte pagine del suo diario teorico-critico, così ha scritto Emanuele Severino: «La poesia sta al culmine delle capacità di appagare, perché produce immediatamente il piacere, e dunque è la forma più alta della natura. La sua forza produttiva è quindi estrema. Non dipende dal calcolo dei mezzi e dai limiti del calcolo. La ragione matematica è importante (e la matematica è in opposizione al piacere): la poesia è la potenza suprema dei mortali. Essa è nel modo più compiuto ciò che il suo etimo esprime: poìesis, ‘produzione’» (E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Bur, Rizzoli, Milano, 1990, p. 64). [21] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di A. Maria Moroni, Mondadori, Milano, 2008, vol. I, pp. 5-6 (per le successive citazioni dallo Zibaldone si indicheranno direttamente le pagine dell’autografo). [22] «L’esercizio della lettura, nel suo quasi inevitabile radicarsi nella società di oggi, mette a repentaglio quei residui di una cultura del leggere che renderebbero ancora possibile la trasmissione del sapere e dei valori etici e politico-civili mediante la letteratura» (M. Biscuso, F. Gallo, Leopardi antitaliano, manifestolibri, Roma, 1999, p. 191). [23] «Lascio stare che la nazione non avendo centro, non havvi veramente un pubblico italiano; lascio stare la mancanza di teatro nazionale, e quella della letteratura veramente nazionale moderna, la quale presso l’altre nazioni, massime in questi ultimi tempi è un grandissimo mezzo e fonte di conformità di opinioni, gusti, costumi, maniere, caratteri individuali…» (G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, ed. diretta e introdotta da M. Andrea Rigoni, Bur, Rizzoli, Milano, 2014, p. 56). [24] «Quello che Leopardi ha capito è che questo mondo cancella continuamente il privilegio di essere in uno stato di mancanza […] ma questa è una mancanza che non si colmerà mai, ed è proprio per questo che è un desiderio infinito» (Cfr. G. Celati, Leopardi e il desiderio infinito. Ecco perché dobbiamo leggere Leopardi in «L’Unità», 28 marzo 2004, ora con lo stesso titolo anche sul blog «Doppiozero.com»). [25] Zib. 3321. [26] E. Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p. 34. [27] F. Di Legami, Finzioni e figure nelle Operette morali di Leopardi, Kalòs, Palermo, 2004, p. 9. [28] «Gli uccelli, per lo contrario, pochissimo soprastanno in un medesimo luogo; vanno e vengono di continuo senza necessità veruna; usano il volare per sollazzo […] Anche nel piccolo tempo che soprasseggono in un luogo, tu non li vedi stare mai fermi delle persona; sempre si volgono qua e là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si crollano, si dimenano; con quella vispezza, quell’agilità, quella prestezza di moti indicibile» (G. Leopardi, Operette morali, a cura di A. Prete, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 184). [29] I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano, 2010, p. 8.
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