ÉLITE IN RIVOLTA
27/1/2018
di Alfonso Geraci
Sprezzante avversario della plebe romana insorta, l’aristocratico Caio Marzio assurge brevemente a salvatore della patria allorché sconfigge i Volsci a Corioli in una sanguinosa battaglia, nella quale peraltro soltanto lui e un manipolo di patrizi profondono energie pari alla bisogna. Conquistatosi sul campo il soprannome di “Coriolano”, Caio Marzio viene convinto a chiedere ai romani di acclamarlo console; la sua “campagna elettorale”, tuttavia, ne evidenzia lo smisurato orgoglio e l’estremo, radicato classismo, concludendosi paradossalmente – grazie alla regia occulta dei Tribuni della Plebe – con la condanna all’ostracismo. Accolto ad Anzio dal rivale-ammiratore Aufidio, Coriolano diviene il condottiero dell’esercito dei Volsci, e si appresta a marciare su Roma per raderla al suolo. Finirà ucciso in quanto traditore dai sicari di Aufidio poco dopo essersi fatto persuadere dalla madre Volumnia a rinunciare alla distruzione della città. Questa è la storia del Coriolano, il più schiettamente “politico” tra i drammi di Shakespeare, scritto esattamente 110 anni fa – nel 1608 – e ripubblicato qualche tempo addietro da Feltrinelli in quella che è probabilmente la migliore traduzione italiana, curata dal grande anglista Agostino Lombardo (Messina 1927-Roma 2005) nel 2002. Coriolano non è tra i drammi preferiti da quanti – critici, teatranti e spettatori – focalizzano la loro attenzione sulle peculiarità dell’eroe tragico; e in effetti bisogna dire che il tema del personaggio che vuole essere “autore di sé stesso” (V, 3), che rifiuta per sé ogni identità “dialogicamente e socialmente costruita” (Terence Hawkes) è presente con ben altra sottigliezza e profondità nella figura di Achille in Troilo e Cressida. Notevole invece – et pour cause – la fortuna del dramma presso chi, da “destra” come da “sinistra”, si appassiona ai temi del conflitto sociale: il giacobino Hazlitt, il bolscevico Brecht, il “socialdemcratico” Strehler, ma anche quei conservatori inglesi che negli anni ’20 dello Sciopero Generale fecero di Coriolano una bandiera (e ricordo come in una produzione di Roberto Guicciardini per il Teatro Biondo, in piena Tangentopoli, molti rivedessero la vicenda di Bettino Craxi). Per tutto questo, ad ogni modo, non posso che rimandare alla bibliografia – minima e tendenziosa – alla fine dell’articolo; mi piace invece spendere qualche parola su una dimensione del testo (distinta ma collegata rispetto a quella della lotta tra patrizi e plebei) nei cui confronti la versione di Lombardo – più delle altre di cui sono a conoscenza – mi sembra insistentemente e felicemente ricettiva: quella dello stretto rapporto tra il narcisismo di Coriolano e l’invidiosa ammirazione di Aufidio (quest’ultimo è il provinciale frustrato che non ha nemmeno lo sfogo di poter indossare la camicia nera, dato che i Volsci sono gente che porta rispetto e a ribellarsi non ci pensa nemmeno). Nel marciare alla guida dell’esercito alla volta di Corioli, Caio Marzio assolve indubbiamente una funzione strettamente di classe (la tipica diversione patriottica in presenza di un conflitto civile), ma lo fa con splendida – e necessaria – inconsapevolezza: quello che veramente gli preme è l’ennesimo confronto con Aufidio, l’unico guerriero che ritiene alla sua altezza. Durante la presa di Corioli il patrizio romano dimostra un’attenzione al proprio look degna di un calciatore in mondovisione, se non addirittura di una rockstar, tutto contento di essere cosparso di sangue: “Davanti ad Aufidio/Apparirò così, per battermi con lui”. Lungi dal fuggire il successo e gli onori, Coriolano pretendo però di averli a modo suo, senza smettere neppure per un momento di insultare chi glieli concede. La totale mancanza di comunicazione con il popolo dimostrata allorché dovrebbe in qualche modo ingraziarselo non è dovuta – si badi – ad un’avversione specifica e ragionata, ma al fatto che, nell’esibirsi in una riuscitissima imitazione del Vittorio Sgarbi d’annata, Coriolano sta recitando per un ristretto quanto immaginario pubblico di suoi “pari” (di cui fanno parte certamente Volumnia e molto probabilmente Aufidio). Come commenta lapidariamente un cittadino nella prima scena, il nostro eroe agisce sempre “in parte per compiacere sua madre e in parte per superbia”. Aufidio, dal canto suo, è addirittura ossessionato dal modello-rivale (come direbbe René Girard) che lo ha sconfitto ripetutamente: se lo sogna la notte (“Rotolavamo insieme nel mio sonno,/ Slacciandoci gli elmi e afferrandoci la gola-/E mi svegliavo mezzo morto con nulla”: Lombardo è impagabilmente sornione nel far venire a galla il substrato omoerotico del testo) e quando gli si presenta esule da Roma lo accoglie abbracciandoselo stretto (“il mio cuore rapito danza/Più di quando vidi la mia sposa/ Attraversare per la prima volta la mia soglia”) e in una splendida sintesi di solidarietà di casta e di morbosa attrazione, ne fa il cocco della corte di Anzio. Quando però il tarlo dell’invidia non può essere più soffocato sotto la patina dell’adulazione, Aufidio – a cui della guerra e della patria in sé stesse non importa un fico secco – deve spingere Coriolano nella situazione tragica che ne provoca la rovina: “e io rinascerò nella sua caduta” (V, 6). È chiaro allora che i diversi filoni interpretativi – rifiuto tragico della misura e della sanzione sociale del proprio valore, lotta di classe, rivalità mimetica tra eroe e deuteragonista – non sono altrettanti discorsi separati tra loro. Se nel titolo alludo al saggio di Christopher Lasch La ribellione delle élite non è perché nel Coriolano si possa trovare più che una somiglianza per sommi capi con la situazione descritta dal maître à penser americano (“la minaccia principale sembra venire da chi si trova al vertice della gerarchia sociale, non dalle masse”), ma per sottolineare come nel caso di Caio Marzio non ci si debba limitare a constatare una superbia come fatal flaw strettamente personale, ma si debba invece avvertire una aporia propria delle relazioni interindividuali e sociali. Una splendida macchina da guerra e da repressione come Caio/Coriolano, allevato a pane e sangue (Volumnia ricorda con orgoglio di averlo mandato a combattere già da ragazzino), educato in nome della non contrattabilità del proprio valore (come il gentiluomo inglese secondo Evelyn Waugh, che “non si scusa mai e mai fornisce spiegazioni”) ha pur bisogno, per continuare a funzionare, di definirsi (in effetti di misurarsi) contro qualcosa. E visto che, tutto sommato, ha già battuto Aufidio “dodici volte diverse” (per non dire che, come ha osservato Janet Adelman, in fondo “il nobile Aufidio è un’invenzione di Coriolano”), che la sua controversia con il popolo romano raggiunga infine proporzioni deliranti non è affatto strano, ma è il logico approdo del percorso di una coscienza di sé inevitabilmente ed opportunamente – per l’ordine costituito – falsa. Sarebbe troppo vago catalogare come hubris il fatto che élites perennemente bisognose di legittimarsi come tali finiscano col deragliare (ma, appunto, è più fisiologia che patologia) portando tutti a un passo dalla distruzione. Non sfuggirà infatti al lettore come entrambe le carneficine rappresentate nel Coriolano hanno come movente sotterraneo la rivalità (necessaria, ripetiamo, al mantenimento dello status di entrambi) tra il tetragono Caio Marzio e il suo languido (bovarista, ma che sembra uscito dalla penna di Dostoevsky!) epigono di provincia. Tra le possibili letture ulteriori :
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