DICE CH'ERA UN BELL'UOMO
19/5/2016
di Marcello Benfante
Nel centenario della morte di Jack London – uno dei più importanti e popolari scrittori americani, a cui devono moltissimo, tra gli altri, Hemingway e Kerouac – il narratore e critico Marcello Benfante (qui una nostra intervista) rilegge per PalermoGrad il romanzo che da più parti è indicato come il suo capolavoro: Martin Eden, storia di una incontenibile ascesa spirituale e di un tragico precipizio nel nulla. Martin Eden, considerato da molti il capolavoro di Jack London, apparve in volume nel 1909. Nello stesso anno usciva sulle pagine del giornale parigino “Le Figaro” il Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti. La concomitanza non potrebbe essere più stridente. Da un lato un romanzo ancora d’impianto ottocentesco, che potremmo in buona sostanza ricondurre alla lezione del verismo francese o assimilare per certi versi alla parabola di un Mastro don Gesualdo rivisitato come self made man dell’industria culturale. Dall’altro la nascita delle avanguardie con la loro insolente ma innegabilmente fertile provocazione destinata ad avere i più diversi esiti nell’arte e nella letteratura. Tuttavia, in certi suoi aspetti quasi parodici (un Bildungsroman talora sul punto di sconfinare in un semicaricaturale donchisciottismo) e soprattutto nella ricerca di una rappresentazione di remoti processi di autoanalisi introspettiva, Martin Eden presenta taluni risvolti in qualche modo sperimentali, sebbene ancora lontanissimi da qualcosa di paragonabile a uno stream of consciousness. Ma il 1909, allorché Jack London si accinge a costruire la sua “Wolf House”, è anche l’anno della morte di Algernon Swinburne, una figura chiave nel Martin Eden, che dischiude il simbolismo decadente che alimenta in modo latente il romanzo. L’avventura intellettuale di Martin inizia proprio con un libro di poesie di Swinburne, scoperto casualmente nell’istante profetico che precede il primo incontro con la fatale Ruth, nella sua raffinata abitazione, tempio e faro dell’intellighenzia alto-borghese. “Ma chi era Swinburne? Era morto un centinaio di anni prima, e anche di più, come la maggior parte dei poeti? O era ancora vivo e vegeto e continuava a scrivere? tornò al frontespizio… sì, aveva scritto altri libri; bene, per prima cosa la mattina dopo sarebbe andato alla biblioteca pubblica per cercare di prendere qualche vecchia opera di Swinburne. Quindi si rimise a leggere e si dimenticò di se stesso, tanto da non accorgersi che una giovane donna era entrata nella stanza” (1). Galeotto fu il libro, potremmo dire. Ma soprattutto nel senso che è da questa sollecitazione epifanica che muove lo straordinario processo autodidattico di Martin, scatenando la sua irrefrenabile bramosia di conoscenza. E non può essere un caso che i versi di Swinburne accompagnino Martin nell’ultimo atto della sua tormentata esistenza, ispirandogli in modo suadente l’estremo gesto suicida: “Perché nessuna vita vive per sempre, perché i morti non risorgeranno mai, perché anche il più disperso dei fiumi trova la sua contorta, sicura strada verso il mare”. In una sorta di cerchio estetico ed esistenziale, Swinburne apre e chiude l’inane ascesa di Martin, nuovo Adamo che da una condizione edenica (da cui il suo nome) di selvaggia innocenza ha preteso di elevarsi oltre se stesso, creando, nella sua orgogliosa solitudine, una fantasmatica Eva da una costola della sua volontà di onnipotenza e onniscienza. L’apprendista übermensch Il romanzo di una morte annunciata, potremmo dire. Una morte che si rivela con la certezza dei suoi presagi. Ma anche il romanzo di una vita vissuta forse troppo intensamente, come a volerla bruciare. La vita stessa di Jack London. Ha scritto Fernanda Pivano: “ Naturalmente viene da pensare a Hemingway: ma gli eroi di Hemingway la morte la prevedono prima di cominciare a essere eroi, vanno alla caccia grossa o a lottare sull’arena dei tori o a pescare da soli il pesce spada già avviandosi verso la morte; mentre quelli di London cominciano sempre ad agire nel tantativo di conquistare la vita, di allargarla, di darle una dignità e finiscono per essere divorati, sconfitti, ma dalla vita stessa, non dalla morte” (2). Difficile dire quale delle due visioni pessimistiche sia più cupa, se la funebre ananke di Hemingway o l’inane rivolta di London. Quest’ultima è solo apparentemente più vitale e determinata. Martin è infatti un personaggio che fortissimamente, a dirla con Alfieri, vuole sapere, prima ancora di essere. Imparare è il suo modo di esistere, di rapportarsi al mondo. Caparbio edificatore e progettatore della propria formazione culturale, Martin è dapprima un lettore onnivoro e insaziabile che procede in modo febbrile e casuale. “I tanti libri che leggeva servirono, però, solo a far crescere la sua inquietudine. Ogni pagina di ciascun libro era uno spioncino sul regno della conoscenza. La sua fame si alimentava di ciò che leggeva, e aumentava”. In questa ricerca vorace si imbatte in Kipling e ne rimane affascinato. Tramite Kipling scopre la parola “psicologia” e ne apprende il significato sul dizionario che ha comprato ricorrendo ala “sua riserva di denaro” guadagnato con la periodica attività marittima. Procede intanto i suoi studi su un testo di grammatica e cerca di acquisire i principi del galateo per evitare magre figure nel mondo formale di Ruth e della sua famiglia. Il passo successivo è l’esame delle regole metriche e delle strutture poetiche. “La sua era una testa portata per lo studio, e dietro quella abilità a imparare c’era la sua natura tenace e il suo amore per Ruth. La grammatica che si era portata appresso, l’aveva letta e riletta sino a quando il suo instancabile cervello non era arrivato a padroneggiarla”. Nel frattempo continua sistematicamente lo studio del lessico, aggiungendo venti nuove parole al giorno al suo vocabolario. Coglie al volo qualunque occasione possa accrescere le sue conoscenze. A bordo di una nave scopre che il capitano, un norvegese, possiede le opere complete di Shakespeare, che non ha mai letto. Martin si offre di lavargli la biancheria in cambio del permesso di leggerle nel tempo libero. I suoi studi si allargano poi alla fisica, alla chimica, all’algebra; quindi alla geometria e alla trigonometria. Del latino invece non sa che farsene: “Vorrei che i popoli morti restassero morti. Perché io e la bellezza che è in me dovremmo essere guidati dai morti? La bellezza è viva e senza tempo. Le lingue vanno e vengono, sono la polvere dei morti”. Costantemente Martin allarga e approfondisce le sue nozioni e le va sistemando in un quadro sempre più organico grazie a un ritmo di apprendimento elevatissimo e ad una funzionale ed efficiente organizzazione dei materiali acquisiti. “L’immaginazione di Martin era viva come sempre e la sua mente un archivio di ricordi e fantasie, dove si entrava con facilità e dove tutto era sempre messo in ordine, pronto per venir ispezionato”. Quasi come il Funes borgesiano, Martin è dotato di capacità mnemoniche straordinarie. E al tempo stesso sa come utilizzarle, facendo di ogni apprendimento uno strumento per il suo lavoro o uno stadio propedeutico alla sua carriera di scrittore. I primi insuccessi letterari non lo scoraggiano. Esamina i racconti pubblicati dai giornali e ne ricava alcune costanti della cultura di massa che imita allo scopo di superare il vaglio delle redazioni (“non devono essere mai tragici, non devono mai finire male e nemmeno contenere raffinatezze linguistiche, sottigliezze di pensiero o delicatezze di sentimenti”). Si piega a rispettare queste condizioni riduttive al solo fine di aprirsi una strada verso l’affermazione della propria arte. Il suo tirocinio ha obiettivi precisi e scadenze inderogabili, e tuttavia Martin dimostra duttilità nell’uso delle sue notevoli doti. Ascesa e caduta dell’albatro Eroe della volontà categorica, che infine rimane schiacciato da una insopprimibile noluntas nichilista, Martin Eden è dunque un personaggio romantico e insieme decadente, che oscilla tra megalomania e depressione. La sua tragedia si estrinseca nella tensione infinita verso una meta irraggiungibile in quanto ogni volta posta in un oltre sfuggente. Egli mira a fare della sua vita il suo capolavoro, come un Oscar Wilde marinaresco o come un D’Annunzio proletario (l’autore de “Il piacere” è citato nel romanzo ed è l’unico scrittore italiano che partecipa alla formazione culturale di Martin Eden). La faustiana fame di conoscenza di questo personaggio ascetico, capace di uno sforzo titanico di assimilazione e rielaborazione, anziché accrescere la sua personalità, finisce per divorargli l’anima e per consegnarlo a un abissale tedium vitae. C’è all’inizio, insieme alla goffa purezza dell’albatro baudelairiano, una vena di arrivismo in Martin, una forte e appassionata determinazione a emanciparsi da una condizione di brutale insipienza, un sogno piccolo borghese di riscatto dal “fango” proletario in cui si avverte impantanato e imbrattato. In questa fase egli si allontana dal suo ambiente, per il quale prova sentimenti ambivalenti di rigetto, fino al disgusto, e di commiserazione. La sua è una tenace auto creazione dall’argilla della sua grezza specie, di invenzione del proprio destino. Ma a un certo punto, da Prometeo di se stesso, egli si trasforma in una alienante macchina per scrivere, divenendo ostaggio di un automatismo frenetico che lo obbliga a una superproduzione ossessiva e a vorticosi ritmi di corrispondenza con gli editori in un vizioso tourbillon epistolare di proposte e rifiuti. Sicché quando infine consegue il successo a cui così parossisticamente ha aspirato, si accorge di essersi ridotto a un automa svuotato di ogni pulsione vitale. La sua ferrea disciplina, paragonabile a una di quelle infernali lavanderie e stirerie in cui ha prestato servizio, lo ha del tutto essiccato degli umori interiori, rivelandosi un penitenziario di arsura e dannazione. Per una breve parentesi di relativo appagamento delle sue ambizioni, Martin, non più impacciato nei propri movimenti, ha potuto finalmente spiccare il volo, librarsi in un cielo di grazia e poesia. Ma è stato un volo di Icaro, trionfale e insieme ferale. L’inveramento/annullamento del proprio mito non gli concede altra fuga che il togliersi la vita proprio in quel mare da cui si è sottratto in cerca di un’autoaffermazione intellettuale. In questo drammatico epilogo (del personaggio e del romanzo) annunciato dai funebri versi di Swinburne e prima ancora di Longfellow, Martin, che ha dovuto costringersi a un ultimo sforzo di volontà per potere annegare, apprende il mistero ultimo dell’esistenza nel momento esatto in cui cessa di conoscere ogni cosa: “E nell’istante stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo”. Ma paradossalmente la sterile rivelazione di questo definitivo enigma è insieme certificata e omessa dal narratore onnisciente. Il convulso individualismo cognitivo di Martin ha come esito un’assoluta amnesia di se stesso, la dissipazione nel nulla cosmico di tutto il sapere accumulato in molti anni di metodica e rigorosa esercitazione spirituale. Il suo disperato assalto al cielo si è dimostrato quindi assurdo quanto disumano. Eppure Martin, autore di un “Filosofia dell’illusione”, aveva teso spasmodicamente l’arco della propria esistenza al conseguimento di un’eternità da ottenere in grazia dell’amore e della poesia. A rendergli credibile questa chimera era stato l’incontro con Ruth Morse, sua musa e pigmalione, creatura eterea idealizzata e angelicata che in una prima fase gli appare “troppo spiritualizzata per potere avere un qualche genere di rapporto fisico con lui”, ma poi gradualmente si rivela una persona mediocre e colma di pregiudizi: “Ma ciò che aveva visto negli occhi di lei era l’anima, un’anima immortale che non avrebbe potuto mai spegnersi. Nessun uomo che avesse mai conosciuto, né alcuna donna, gli aveva fatto arrivare il messaggio dell’immortalità. Ma lei c’era riuscita”. L’ebbrezza purificatrice dell’amore spalanca nell’anima di Martin una prospettiva nuova e imperitura: “In Martin era invece svanita la necessità di bere cose forti. Lui era ubriaco in un modo nuovo e più profondo, era ubriaco di Ruth, che lo aveva acceso d’amore, facendogli intravedere una vita più nobile e infinita”. Alle prese con il suo sfiancante e dispotico tirocinio intellettuale, Martin è sostenuto da tre miraggi estatici, ossia da una sorta di trinità mistica, “la bellezza, l’intelligenza e l’amore”, verso cui si protende in un itinerario di progressiva elevazione spirituale. Diviene così, tra insonnie, meditazioni, digiuni e sacrifici quasi sovrumani, una specie di eremita incurante del mondo e della gloria stessa: “semplicemente un folle amante di Dio”. La stessa scrittura, in quanto miracolo della trasformazione di emozioni e sensazioni in parole che riprodurranno poi analoghe emozioni e sensazioni nel lettore, è intesa come “un compito divino”. Ma questo itinerarium mentis in Deum, ancorché in un Dio impersonale, condotto tuttavia in modi francescani di castità e semplicità con visionaria e quasi magica determinazione, s’interrompe con la scoperta sconvolgente di Herbert Spencer e la lettura dei suoi Primi principi, preso in prestito in biblioteca. E subito Spencer offusca perfino l’astro di Ruth: “leggendo tutto il pomeriggio, si dimenticò d’ogni cosa e persino del fatto che quello era il pomeriggio che Ruth dedicava a lui”. Dall’evoluzionismo spenceriano, Martin trae non solo una visione del mondo e della vita, ma finanche le forme espressive della propria scrittura: “Poi, ho anche letto La filosofia dello stile di Spencer e sono riuscito a scoprire un sacco di cose su quel che non va in me, o meglio nel mio scrivere, e per la verità anche nella maggioranza di ciò che viene pubblicato ogni mese nelle riviste”. Spencer quindi costituisce una scuola totale per Martin, al tempo stesso politica e filosofica, etica ed estetica, fisica e storica, che lo conferma nel suo distacco dalla plebe bovina e nel suo individualismo egocentrico, ponendolo tuttavia nel quadro di un universo in cui ogni cosa, dalla più piccola e vicina alla più grande e remota, è ugualmente collegata a tutte le altre da una relazione reciproca. Spencer diventa allora un credo che Martin assume e difende con fervore, fin quasi al fanatismo, una potente illuminazione di ogni suo atto e della sua stessa missione creatrice. Il misticismo materialista di Martin è ormai a un passo dal distacco totale dai falsi traguardi dell’amore e della letteratura. L’apprendista scrittore si dà un anno di tempo e chiede a Ruth un anno di pazienza e di fiducia. In realtà la deriva è ormai prossima. La morale del fare comincia a incrinarsi, a palesare la sua inconsistenza. Com’è noto, Jack London confessò allo scrittore Upton Sinclair che la sua intenzione era quella di dimostrare la sterilità dell’individualismo, lamentando che i recensori il romanzo non se ne fossero accorti. In realtà egli stesso, pur avendo aderito al socialismo, non era immune da confuse influenze nietzschiane e spenceriane che spesso hanno reso ambiguo il suo messaggio anticapitalista e proto-ambientalista. Nei suoi risvolti autobiografici (e nella stessa prefigurazione della morte di Jack London, avvenuta cent’anni fa, il 22 novembre del 1916, al ritorno dai Mari del Sud), Martin Eden è un romanzo di saldo realismo determinista. London non vi lascia trapelare alcuno spiraglio di trascendenza o sublimazione. Mostra anzi una demenziale, ancorché necessaria, corsa incontro all’affermazione del proprio io, che si rivela una pulsione autodistruttiva, una forza annientatrice del soggetto intrappolato nel proprio solipsismo. Non c’è quindi redenzione possibile, né alcun intento edificante o consolatorio: il romanzo di formazione si rivela un percorso ingannevole e beffardo, destinato allo scacco. La crescita culturale del protagonista, il suo stesso successo, sono l’espandersi canceroso di un male inesorabile. Di un doppio inganno, dapprima vissuto nell’illusoria finalità dell’amore, poi dirottato in modo non meno insincero e fallace su quella dell’arte per l’arte. La morte per acqua Jack London sembra talvolta far trapelare (sebbene con trasparente disillusione) la possibilità di una soluzione morale agli infelici dilemmi del suo alterego Martin Eden. Il socialismo potrebbe salvarlo, o almeno questo è l’auspicio che l’amico Brissenden, anch’egli poeta e anticonformista, formula poco prima di morire. “Vedi, mi piacerebbe vederti diventare socialista prima di andarmene. Darebbe un senso alla tua esistenza. È una di quelle cose che ti salveranno, nei tempi di disillusione che stanno arrivando per te”. D’altronde, l’esperienza più entusiasmante per Martin è stata la serata trascorsa al ghetto operaio di Marker Street (vero antipode della stucchevole residenza dei Morse), dove ha assistito alle dispute ideologiche ferratissime e mai banali di intellettuali proletari ai margini della cosiddetta società civile, “tutti ribelli di una specie o di un’altra”. Benché “eccitato come un bambino dopo la sua prima visita a un circo”, Martin non trasforma la sua ammirazione per questi spiriti liberi e reietti in una adesione politica alla causa del popolo, e resta fermo nel suo altero superomismo nutrito di darwinismo sociale e malthusianesimo. Questa è la posizione che Martin sostiene, con arrogante dogmatismo, durante una cena in casa Morse, nel corso di un’accesa disputa con uno dei commensali, il probo giudice Blount, altro self made man, ma di basso e banale profilo: “Per quel che mi riguarda, io sono un inveterato oppositore del socialismo, proprio allo stesso modo in cui sono un inveterato oppositore della sua democrazia fasulla, che non è nient’altro che pseudo socialismo mascherato sotto un fascio di parole che non reggerebbero la prova del vocabolario. Sono un reazionario, un reazionario così totale, che la mia posizione è incomprensibile per lei, che vive in una velata menzogna di organizzazione sociale, la cui vista non è abbastanza penetrante per superare quel velo”. Si capisce, allora, perché Martin Eden, pur non scampando ai roghi hitleriani, abbia spesso incontrato i favori del lettore destrorso e persino fascista (“io guardo solo all’uomo forte, all’uomo che arriva a cavallo per salvare lo stato dalla sua marcia futilità”). A conti fatti, il suo è un niccianesimo mistificato che sconfina nell’esaltazione farneticante di un’aristocrazia del temperamento e della determinazione a cui spetta il comando: “Il mondo appartiene veri nobiluomini, ai grandi animali biondi che non accettano compromessi, che sanno affermare”. Nonostante questo delirante atto di fede nelle leggi selettive dello sviluppo biologico, Martin si dimostra sempre un uomo generoso e perfino altruista, in un certo senso, disposto in ogni circostanza ad aiutare il prossimo in difficoltà. Si commuove “alla vista del corpo pesante e del passo strascicato della sorella”, martoriata dal suo durissimo lavoro e dalle angherie del marito, mentre si allontana singhiozzando. E lo strazio della sorella fa vacillare “l’edificio nietzschiano”, sebbene rimanga convinto che i “veri nobili uomini dovevano essere superiori alla pietà e alla compassione”, sentimenti che sono il prodotto della schiavitù e della debolezza. Nel suo isolamento e distacco dal mondo, Martin non percepisce più il proletario come il suo simile, né prova più un senso di familiarità di classe. Ma la superiorità è in fondo mera solitudine. Scomparsa ogni ragione per lottare, è cessata anche la voglia di vivere. Martin si abbandona al sonno e alla passività: “lasciarsi andare alla corrente era quel che comportava minor impegno vitale”. Il punto di arrivo di questo processo regressivo verso il nulla è la consapevolezza che la vita “sia un vergognoso errore” e lo smarrirsi in una disperata “Valle dell’Ombra”. È a questo punto, poco prima di farla finita con tutte le menzogne della vita, che Martin ha un ultimo colloquio con un timoniere socialista è sfiorato da un dubbio radicale riguardo “alle folli dichiarazioni di Nietzsche”, ai vaneggiamenti di “quell’uomo pazzo”. Ma anche quest’estrema occasione di revisionismo si disperde nell’impotenza estenuata di una morte annunciata. Un naufragare che non è dolce e non dà pace, ma è l’ultima beffa e l’ultima sconfitta dell’uomo solitario venuto dal mare e tornato al mare.
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