George Souvlis a colloquio con Kathi Weeks
Tu sei marxista, o sbaglio? In che misura il marxismo ha influenzato il tuo lavoro? Sì, mi considero marxista, tra le altre influenze intellettuali e politiche. Sono stata attratta dal marxismo per la dimensione di impegno che vi è collegata, e per la miriade di strumenti che offre per comprendere il funzionamento delle economie capitalistiche e delle loro formazioni sociali. Probabilmente ciò che mi interessa maggiormente sono quelle versioni del marxismo che si concentrano sul lavoro e in particolare sull’esperienza che i lavoratori fanno di esso – dei suoi ritmi, dell’organizzazione, dei rapporti di potere, dei suoi piaceri e dei suoi dolori – come punto di partenza per lo studio delle società capitalistiche. Per me il marxismo, quindi, è stato particolarmente significativo in quanto luogo collettivo di esplorazione ai fini dello studio critico del lavoro. In quanto femminista marxista, la mia analisi delle identità e delle gerarchie di genere tende a riconoscere nella divisione sessista del lavoro una potente macchina di riproduzione delle differenze e disuguaglianze di genere. Non si tratta dell’unico motore del sessismo, ma ritengo che la divisione di genere nel lavoro di assistenza a bambini e anziani sia una fonte particolarmente potente delle nostre idee e sentimenti, e delle ideologie e istituzioni di genere. Come definiresti il femminismo marxista oggi, nel 2017? Quali sono, secondo te, le idee strategiche di base che il movimento dovrebbe seguire, nell’era del neoliberalismo globale? Ottime domande. Per cercare di rispondere, permettimi di fare una distinzione rozza ma utile tra due periodi del pensiero femminista marxista, uno passato e uno presente. Le femministe marxiste hanno intrapreso un lungo percorso per demistificare le pratiche, le relazioni e le istituzioni cosiddette “private”. Guardiamo innanzitutto al passato. Negli anni ’70, le femministe marxiste anglo-americane si concentrarono sulla mappatura del rapporto tra due sistemi di dominio: il capitalismo e il patriarcato. Si potrebbe considerare questa fase come un tentativo di avanzare una critica marxista del lavoro nel campo del lavoro domestico e delle relazioni familiari di produzione. Esaminando il lavoro basato sulla cura della casa, il lavoro domestico, il lavoro di consumo e il lavoro comunitario come forme di lavoro riproduttivo da cui il lavoro più strettamente produttivo dipende, e considerando la casa come un luogo di lavoro e la famiglia come un regime che organizza, distribuisce e gestisce quel lavoro, le femministe marxiste hanno da tempo demistificato queste pratiche, relazioni e istituzioni cosiddette “private”. Da un lato, ponendosi la questione teorica di come interpretare il rapporto tra capitalismo e patriarcato: meglio concepirli come due sistemi correlati o come un unico sistema completamente interconnesso? Dall’altro, concentrandosi anche sulla questione pratica, e strettamente connessa alla precedente, delle alleanze: i gruppi femministi dovevano essere autonomi o integrarsi con altri movimenti anticapitalisti (e spesso antifemministi)? Oggi ci troviamo in una situazione diversa che offre nuove possibilità per il rapporto tra marxismo e femminismo. Mentre le femministe degli anni ’70 lottavano per applicare l’analisi marxista, originariamente dedicata allo studio del lavoro salariato, a un tipo molto diverso di lavoro non pagato che non veniva considerato come facente parte della produzione capitalista, penso che oggi per comprendere le nuove forme di lavoro salariato dobbiamo guardare alle vecchie analisi femministe sul “lavoro femminile” salariato e non. Alcuni descrivono il momento attuale in termini di “femminilizzazione del lavoro”. Non è la mia espressione preferita, ma fa capire come nelle economie post-fordiste neoliberali sempre più lavori salariati somiglino alle forme tradizionali di lavoro femminile domestico. Questo è particolarmente evidente nell’aumento di forme occupazionali a basso salario, part-time, informali e precarie, nonché nella crescita del settore dei servizi, che attinge dalle capacità emotive, gestionali e comunicative dei lavoratori che sono sottovalutate e difficilmente misurabili. Per capire questi cambiamenti nel mondo del lavoro, piuttosto che utilizzare la vecchia prospettiva marxista per studiare le forme di lavoro domestico non pagato, dobbiamo attingere alle analisi femministe marxiste sulle forme sessiste, sia del lavoro salariato che di quello non retribuito, per le loro intuizioni su come queste forme vengano sfruttate e vissute. L’implicazione pratica di ciò è che, se vogliamo capire e resistere alle forme contemporanee di sfruttamento, il marxismo non può più ignorare o distaccarsi dalle teorie e dalle pratiche femministe. Per come la vedo io, la teoria femminista non è più “facoltativa” per la critica marxista. In molte tue pubblicazioni fai riferimento al concetto di rifiuto del lavoro. Secondo te questo concetto cosa può offrirci a livello analitico e politico? Ho preso in prestito questo concetto dalla tradizione del marxismo ‘autonomista’. Per come lo intendo, il rifiuto del lavoro è diretto contro il sistema di (ri)produzione organizzato intorno, ma non esclusivamente, al sistema salariale. Ci sono tre specificazioni da fare a questo proposito. La prima è che il rifiuto non è diretto a questo o a quel lavoro specifico, ma al più ampio sistema di cooperazione economica finalizzato a produrre accumulazione di capitale per quei pochi lavori salariati che dovrebbero sostenere il resto della collettività. In secondo luogo, la nozione di rifiuto del lavoro non privilegia alcuna forma di lotta specifica - come ad esempio l’interruzione del lavoro - ma piuttosto aspira a costruire una critica radicale del lavoro che potrebbe includere un elenco molto più lungo di possibili azioni e prese di posizione. Infine, intenderei il rifiuto del lavoro come un progetto politico collettivo a lungo termine e non come un imperativo morale individuale. L’obiettivo è quello di trasformare le istituzioni e le ideologie che ci legano all’attuale mondo del lavoro, salariato e non, attraverso l’organizzazione politica della collettività. La gran parte degli individui, in quanto tali, non possono certo abbandonare la propria occupazione: pertanto non è di questo che stiamo parlando. Penso che il rifiuto del lavoro sia politicamente importante perché ritengo che il lavoro e le relazioni di (ri)produzione siano luoghi particolarmente significativi per lo sviluppo della coscienza politica e della contestazione. Il sistema salariale non funziona più, quasi per tutti. Molti di noi hanno problemi con il lavoro. A seconda dei casi, può trattarsi di sovraccarico, disoccupazione o sottoccupazione: anche se la gravità di tali condizioni varia parecchio col variare del settore economico di riferimento. È nel nostro rapporto col lavoro (inteso in senso ampio, per includervi sia lo svolgimento di occupazioni non salariate sia l’essere esclusi dal rapporto di lavoro in una società che invece lo prescrive) che abbiamo più probabilità di sviluppare una prospettiva critica sul capitalismo e di formulare richieste di cambiamento. Come pensi che il rifiuto del lavoro possa essere utile alla condizione lavorativa delle donne? Può questo rifiuto rappresentare una tattica per l’attuale movimento femminista? Sì, ritengo che il rifiuto del lavoro offra alle femministe una prospettiva di analisi critica e un ordine del giorno per la pratica politica di fondamentale importanza. Per capirne il motivo, dobbiamo ripensare la nostra idea di economie capitalistiche. Il sistema salariale, che rimane il meccanismo chiave della sopravvivenza economica, dipende da una seconda istituzione, ovvero la famiglia privatizzata, che funge da locus primario per il lavoro riproduttivo, quello necessario per riprodurre i lavoratori su base quotidiana e generazionale. Quindi, il sistema lavoro salariato-lavoro domestico include i principali sistemi di produzione incentrati sul lavoro pagato e sulla riproduzione organizzata intorno alla famiglia, tenuti insieme dall’istituzione della famiglia attraverso cui molti di noi vengono reclutati in queste relazioni di riproduzione, solitamente non pagate e divise per genere. Dunque - come le femministe sostengono da tempo - abbiamo bisogno di una più ampia mappatura del sistema economico capitalista in grado di rappresentare tutte le forme di lavoro, salariato e non, che servono a sostentare questo sistema. Resta, tuttavia, la questione di cosa significhi “rifiutare” il lavoro socio-riproduttivo per come è attualmente organizzato e diviso. Come le femministe hanno potuto imparare, rifiutare il lavoro domestico è un progetto molto difficile, potenzialmente gravido di effetti a lungo termine. A mio parere, il rifiuto del lavoro, a questo livello, impone come minimo la critica della famiglia quale cardine istituzionale per le relazioni sociali del lavoro riproduttivo domestico e la critica dell’etica familiare quale suo supporto ideologico. Al suo massimo livello, significa mettere in dubbio l’intera organizzazione del lavoro e della vita. Questo è uno dei tanti motivi per cui mi interessa molto quanto si è scritto negli anni Settanta intorno alla questione Salario per le Casalinghe. Quello a cui puntavano queste teoriche e militanti è, secondo me, una delle manovre più difficili da compiersi per il femminismo marxista: render visibile il lavoro domestico in quanto, per l’appunto, lavoro e in quanto parte del processo di valorizzazione, ma allo stesso tempo, sottolineare che in esso non c’è nulla da celebrare o da venerare. Questa è una cosa molto difficile da fare: riconoscere che il lavoro domestico è un lavoro socialmente necessario (che richiede, tra l’altro, più tempo libero dal lavoro remunerato per essere svolto), ma senza sopravvalutarlo in quanto tale: piuttosto, bisognerebbe demistificarlo, de-romanticizzarlo, de-privatizzarlo, de-individualizzarlo e, naturalmente, eliminare la sua dimensione sessista. Bisogna inoltre lottare affinché il lavoro non diventi tutto nella vita. Secondo me, questo significa lottare contro – per citare solo due o tre cose – la divisione sessista del lavoro, le terribili condizioni in cui si svolge tanto lavoro domestico, nonché forme di intensificazione del lavoro come l’ideologia dell’intensive mothering ovvero della “maternità intensa”. Bisogna anche includere lo sviluppo di nuovi modi di organizzare e condividere il lavoro e renderlo significativo. Nel tuo libro The Problem with Work sostieni fortemente il reddito universale di base garantito. Attualmente sembra che sempre più saggi e articoli di sinistra affermino che i progetti sul reddito di base non siano necessariamente di sinistra ma anzi coerenti con la logica e la ristrutturazione neoliberale (sostanzialmente, si tratta di investire denaro in un problema invece di fornire un qualsiasi tipo di soluzione strutturale). Hai qualche specificazione da fare circa il reddito di base garantito e universale, alla luce di queste nuove critiche di sinistra e del successo di questo concetto presso i conservatori? Interpreto l’interesse crescente nei confronti del reddito di base all’interno di tutto lo spettro politico come uno sviluppo positivo. Ecco come la vedo io: la richiesta di un reddito di base è – stanti determinati termini della richiesta – “di sinistra”; ma le politiche di attuazione di tale richiesta sono fortemente ambigue. Che il reddito di base possa migliorare o meno la vita di un gran numero di lavoratori dipende da molti dettagli, principalmente dal livello del reddito fornito. Se è troppo basso, rischia di favorire ulteriormente i datori di lavoro che pagano poco, offrendo ai loro lavoratori un supplemento salariale. La richiesta che io sostengo è quella di un reddito minimo di sussistenza che, consentendo ai lavoratori di non lavorare per un certo periodo, forzerebbe gli imprenditori ad offrire salari e condizioni migliori. Detto questo, le politiche sul reddito di base possono essere ingannevoli, poiché è probabile che una volta istituito, il reddito di base venga concesso ad un livello basso. La lotta per aumentarne successivamente il livello richiederà ulteriori sforzi. Ma anche qualora esso venisse erogato nella forma di reddito minimo di sussistenza, dovrebbe essere chiaro che il reddito di base non è una proposta per sostituire il sistema salariale, ma solo per allentarne la presa su di noi, fornendo reddito agli esclusi o ai precari e a tutti quelli il cui contributo alla (ri)produzione sociale non è attualmente remunerato. Esso inoltre consentirebbe agli individui di negoziare contratti di lavoro più favorevoli e di fare scelte migliori circa le relazioni intime e familiari da instaurare. Pur trattandosi di vantaggi consistenti, essi non forniscono una visione rivoluzionaria e post-capitalista. Al contrario, credo che il reddito di base sia probabilmente l’unico modo per il capitalismo di sopravvivere materialmente e ideologicamente nel prossimo futuro, visto che il sistema salariale e la famiglia continuano a rivelarsi inadeguati nella distribuzione del reddito e nell’organizzare una produzione cooperativa. Piuttosto, ciò che un reddito di base potrebbe fornire è il supporto materiale al tempo e agli sforzi necessari per richiedere ulteriori riforme e per pensare più criticamente al lavoro e al non-lavoro, e per pensare in maniera più creativa a come essi potrebbero essere ulteriormente trasformati. In questo senso, si tratta di una richiesta piuttosto modesta, ma penso che permetterà ulteriori sviluppi politici ed azioni. Pensi che il concetto di lavoro precario si concentri troppo sul contratto e sui termini di impiego, anziché sullo sfruttamento che si verifica nella valutazione del lavoro? La teoria critica ha forse bisogno di un concetto più forte rispetto a quello di ‘precarietà’, come ad esempio ‘super-sfruttamento’? Intendo la precarietà e lo sfruttamento come due diversi aspetti dell’organizzazione del lavoro salariato. Il concetto di sfruttamento descrive i termini essenziali del rapporto di lavoro capitalistico; lo sfruttamento del lavoro è la linfa vitale del sistema. Lavori diversi possono essere sfruttati in gradi diversi e sotto diversi tipi di regimi manageriali, ma rimane una caratteristica fondamentale del sistema di lavoro salariato nel capitalismo. La categoria di precarietà indica un cambiamento storico di aspetti più specifici del rapporto di lavoro. Ritengo che il termine abbia più senso quando è usato per indicare il passaggio dal modello fordista (ovviamente si tratta di un modello ideale piuttosto che di una descrizione empirica del lavoro) di occupazione a vita, a tempo pieno e sicura, che consentiva ai lavoratori di consumare costantemente i prodotti e servizi che producevano, verso forme di occupazione temporanee, part-time ed insicure in una economia di rete e globalizzata in cui i consumatori possono essere trovati altrove. Penso che il termine sia più significativo per coloro che si trovano fuori dagli Stati Uniti, dove invece il modello fordista era meno diffuso e l’occupazione era storicamente più precaria per un gran numero di lavoratori rispetto, ad esempio, ad alcune economie dell’Europa occidentale. Detto questo, credo che il concetto di precarietà sia un’aggiunta importante anziché un’alternativa al concetto di sfruttamento. Lo trovo più convincente quando non viene utilizzato per difendere o rivendicare il vecchio modello fordista, ma quando viene usato come parte della lotta per rendere più sicuro, sostenibile e vivibile un rapporto con il lavoro in cui esso non domini il resto della vita. [traduzione di Stefano Oricchio]
0 Commenti
Lascia una risposta. |
Archivio
Gennaio 2021
|