di Marcello Benfante
Luciano Bianciardi (Grosseto 1922 - Milano 1971), insegnante elementare, bibliotecario, giornalista, traduttore, scrittore, intellettuale anticonformista, refrattario a qualsiasi omologazione, compresa quella del successo, è stato, da antagonista, da ribelle, daoutsider, una delle figure più significative della cultura italiana negli anni del cosiddetto boom economico. Di Bianciardi, dopo libri controcorrente e di radicale spirito oppositivo come Il lavoro culturale (1957) e La vita agra (1962), era apparso nel 1969, per l’editore Bietti di Milano, Daghela avanti un passo!, singolare manualetto che potremmo definire di divulgazione storica e di agiografia garibaldesca, che ora viene recuperato da Minimum fax con il nuovo titolo di Antistoria del Risorgimento (1), mentre quello vecchio è conservato come sottotitolo. Di “antistoria”, in verità, c’è poco e niente, appena qualche scrupolo di cattiva coscienza nei confronti del Mezzogiorno tradito (mai comunque in termini così espliciti). Per il resto vi troviamo gran parte della tradizionale mitologia del Risorgimento scolastico, ancorché vista in un’ottica schiettamente garibaldina e anti-cavouriana (che è già qualcosa di più accettabile e digeribile, rispetto al punto di vista savoiardo, militarista e coloniale). Nato come libro scritto “per i ragazzi della scuola media”, Daghela avanti un passo! rivela nel suo andamento combattivo l’intento di essere avvincente come un romanzo avventuroso. E tale sembrò al figlio di Bianciardi, Marcellino, che gratificò il padre con uno straordinario complimento: “Sei più bravo di Salgari”. Di salgariano c’è soprattutto un invincibile e irrefrenabile Garibaldi-Sandokan, con i suoi mille tigrotti alla conquista di una Sicilia-Mompracem. D’altronde, Bianciardi parte dal presupposto che “Garibaldi, nel nostro Risorgimento rappresenta l’elemento popolare”, a cui egli guarda con un sentimento di viva simpatia e di incommensurabile ammirazione. A questo benevolo folclorismo, Bianciardi aggiunge l’ammissione apparentemente smitizzante che molti dei più celebri episodi dell’epopea risorgimentale “paiono immaginati da un umorista di acuta fantasia” (e in questa chiave furono narrati, per esempio, da Umberto Domina, uno scrittore e umorista siciliano). Ma Bianciardi, seppure talora tentato da alcune sottolineature comiche, non persegue la strada della parodia, insistendo anzi su una meticolosa ricostruzione documentale. Sennonché, il libro nel suo insieme non funziona, né da un punto di vista propedeutico-didattico, né tanto meno come interpretazione storico-politica del “miracolo” risorgimentale. Non funziona, in primo luogo, perché Bianciardi è troppo preso da un’analisi prettamente bellica, cioè da una descrizione cavillosa dell’andamento delle battaglie, a scapito di una restituzione più ampia delle dinamiche culturali e sociali. Ma soprattutto bisogna dire che la sua presunta “antistoria” non convince perché si basa su una visuale esclusivamente nordista, a senso unico, che compromette la credibilità e l’equanimità del racconto. E ciò fin dall’inizio, ovvero dalla scelta assai opinabile di cominciare la narrazione dalle eroiche cinque giornate di Milano. Ora, se poniamo il ’48 come incipit della questione risorgimentale (e non, per esempio, i moti del 1820-21 o del 1830-31), allora dobbiamo cominciare da Palermo, la cui sollevazione il 12 gennaio del ’48, diede la stura alla “Primavera dei popoli”, cioè a tutte le rivoluzioni europee di quell’anno memorabile (che non a caso è anche l’anno di pubblicazione del Manifesto di Karl Marx e Friedrich Engels). Non si tratta ovviamente di rivendicare un primato regionale o di campanile, bensì di porre l’attenzione su quello spirito indipendentistico e anti-borbonico dei siciliani senza il quale non sarebbe stata mai possibile la spedizione dei Mille, né mai avrebbe potuto riuscire vittoriosa. Con lo sbarco di Garibaldi a Marsala, scrive lo storico Salvatore Lupo nel suo L’unificazione italiana (2), la “rivoluzione siciliana che da quarantacinque anni si confronta con Napoli trova il sostegno di quella pan-italiana”. E viceversa, potremmo aggiungere, la causa italiana trova nei siciliani un alleato determinante al buon esito della spedizione garibaldina. Ma su questo punto cruciale occorrerà tornare appresso con una più accurata disamina. Nella mitografia bianciardiana di un Garibaldi onnipresente e onnipotente, che è un modo superomistico e quasi dannunziano di rappresentare il genio e l’ardimento dell’eroe dei due mondi, stranamente vengono eluse proprio le Memoriedi Garibaldi a vantaggio probabilmente delle Noterelledi Giuseppe Cesare Abba (oltre ovviamente a I Mille, da Genova a Capuadel toscano Giuseppe Bandi). E cioè a conforto di una direzione interpretativa che tende costantemente a escludere o a sminuire il contributo dei meridionali al Risorgimento intero e perfino all’abbattimento stesso del Regno Borbonico. Bianciardi omette di dire, sicuramente in buonafede, ma con una rivelatrice disattenzione, che l’impresa dei Mille, ossia la spedizione in Sicilia alla maniera di Pisacane però con l’appoggio di una rivolta isolana, peraltro già poco prima tentata da Francesco Riso, era un progetto siciliano che prevedeva appunto l’azione congiunta di una sollevazione interna e di un intervento esterno. Questo punto - il chiarimento esplicito di questo punto - è ovviamente fondamentale. Perché la chiave di volta del successo dei garibaldini è proprio in Sicilia, dove, a causa del diffuso risentimento contro i Borbone, era assai improbabile che un corpo di spedizione italiano potesse incorrere nell’ostilità della popolazione e subire l’atroce disfatta di Pisacane a Sapri e dei fratelli Bandiera a Cosenza. La relativa esiguità dei siciliani tra i Mille (45, di cui tre, ossia Crispi, La Masa e Carini, con funzioni di comando) si spiega infatti con la necessità di molti patrioti isolani di preparare in loco le condizioni favorevoli allo sbarco e all’avanzata dei garibaldini (Rosolino Pilo, Giovanni Corrao e Luigi La Porta sono preposti a organizzare le squadre per questo scopo). In Bianciardi, come già in Abba, questo aspetto della questione non emerge. E se Abba apre il suo Da Quarto al Volturno (3) con la canzonatura piuttosto irritante di certe incredibili dicerie secondo cui i rivoluzionari siciliani erano una massa sterminata (“Trentamila insorti accerchiano Palermo: non aspettano che un capo, Lui!”), Bianciardi si tiene sul vago con una certa reticenza: “Così attorno a Garibaldi si affollavano in tanti, a chiedere che finalmente si facesse questa benedetta spedizione. Più di tutti premevano gli esuli siciliani, come Francesco Crispi e Giuseppe La Masa”. I siciliani, dunque, sono soltanto coloro che premono un po’ più degli altri affinché la spedizione avvenga, non gli ideatori e promotori della spedizione medesima, proposta a Garibaldi come un piano che puntava sullo stato endemico in Sicilia della ribellione antiborbonica. Scrive infatti Salvatore Lupo sulle ambasce e dilemmi di Garibaldi alla vigilia della spedizione: “Fu allora che lo contattarono due patrioti siciliani di ispirazione democratica, che avevano avuto un ruolo importante nel ’48, che avevano alle spalle più di un decennio di esilio. Il primo era un aristocratico, Rosolino Pilo, il secondo un avvocato, Francesco Crispi. I due cercarono di convincerlo a organizzare una spedizione in Sicilia, a sostegno di una insurrezione popolare”. Questa espropriazione non è differenza di poco conto. Soprattutto se si considera il resoconto dell’impresa che fa Bianciardi, in cui i siciliani (come poi i meridionali tutti) scompaiono quasi interamente dalla scena o, peggio ancora, sono oggetto di denigrazione. “Il primo incontro coi siciliani fu, com’era prevedibile, una mezza delusione”, dice Bianciardi. Il che sarebbe pure accettabile se la delusione consistesse in una scarsa partecipazione e adesione della plebe, cosa che in effetti si verificò in un primo tempo. Il popolo siciliano, pur non essendo maldisposto nei confronti dei garibaldini, si mantenne dapprima in un atteggiamento di scettico attendismo, che muterà soltanto dopo la clamorosa e inaspettata vittoria di Calatafimi. Ma la delusione a cui accenna Bianciardi è invece etnico-culturale. I siciliani si esprimono in modo incomprensibile: “Parlano una lingua che pare albanese” (e opportunamente Bianciardi commenta che questa osservazione era stata detta da un bergamasco, che “non parlava, dunque, neanche lui, un italiano perfetto”). A sgomentare è pure l’ambiente geografico: “Il paesaggio ricordava l’Africa. Altro che terra dei Vespri e di Cerere!”. I patrioti venuti a liberare la Sicilia e il Meridione dalla tirannide e dal malgoverno dei Borbone, di fronte allo scenario di una miseria primordiale, non sembrano trovare di meglio da dire e da fare che questi sprezzanti commenti. D’altronde, anche per Abba i siciliani sono sostanzialmente dei selvaggi dediti all’ozio. Molto più empatico e cordiale, anche se forse con un pizzico di ipocrisia ideologica, è il tono delle Memorie(4) di Giuseppe Garibaldi: “La popolazione di Marsala, attonita dall’inaspettato evento, non ci accolse male. Il popolo ci festeggiò. I magnati fecero le smorfie. Io trovai tutto ciò molto naturale (…) Il povero popolo all’incontro ci accolse plaudente, e con segni manifesti d’affetto”. Il clima del primo contatto con i siciliani è dunque di una confortante solidarietà. E anche la partecipazione dei volontari non si fa attendere troppo: “Il 13 marciammo a Salemi, ove fummo bene accolti dalla popolazione, ed ove cominciarono a riunirsi a noi le squadre dei S. Anna d’Alcamo, ed alcuni altri volontari dell’isola”, scrive ancora Garibaldi. Non è ancora un’adesione massiccia, ma sarà bene ricordare allora che tutto il Risorgimento fu un movimento minoritario, d’élite, e che anzi proprio la collaborazione dei meridionali all’impresa garibaldina fu uno dei pochi episodi di partecipazione di massa ai moti insurrezionali. Tuttavia, a Calatafimi le forze indigene, se costituiscono ancora un modesto numero, sono già in grado di dare un contributo significativo. Secondo Bianciardi, “le squadre di volontari siciliani, che se n’erano rimaste a guardare sui colli circostanti, solo all’ultimo momento si precipitarono a valle sparacchiando per aria”. Il loro contributo fu dunque tardivo e inefficace, per non dire vile e ridicolo. Intanto, Bianciardi confonde, forse per un mero pregiudizio che non sarebbe del tutto erroneo definire razzista, l’atteggiamento della popolazione, per lo più costituita da pastori o contadini, con quello dei volontari riuniti al corpo dei Mille. In secondo luogo, nelle Memoriedi Garibaldi, il ruolo complessivo dei siciliani all’esito favorevole della battaglia è considerato assai diversamente: Il primo risultato importante fu la ritirata del nemico da Calatafimi, che noi occupammo nella mattina seguente: 16 maggio 1860. Il secondo risultato, molto valevole, fu l’assalto dato dalle popolazioni di Partinico, Borgetto, Montelepre ed altre sul nemico che si ritirava. In ogni parte, poi, si formavano squadre, si riunirono a noi, e l’entusiasmo in tutti i paesi circonvicini giunse veramente al colmo. Il nemico, sbandato, non si fermò fino a Palermo, ove portò lo sgomento nei borbonici, e la fiducia nei patrioti. Questo passo delle Memoriedescrive chiaramente l’assalto spontaneo della popolazione, presumibilmente sprovvista di armi vere e proprie, sui soldati borbonici che ripiegavano. Assalto così impetuoso e feroce, sebbene disorganizzato e privo di strategia, da mettere in rotta l’esercito e causargli lungo la ritirata notevoli perdite. E distingue altresì la popolazione dai volontari riuniti in squadre e arruolatisi nelle schiere garibaldine. Altra cosa ancora erano inoltre i patrioti siciliani che già prima si erano organizzati per preparare la presa di Palermo. Anche la conquista della capitale è occasione per Bianciardi per minimizzare il ruolo dei siciliani, dandone peraltro una raffigurazione grottesca di primitiva goffaggine: “i picciotti correvano per le strade urlando e agitando i fucili, che avevano appiccicata sul calcio l’immagine di Santa Rosalia”. Anziché combattere, corrono e urlano, limitandosi ad agitare i fucili e contando superstiziosamente sul potere taumaturgico della “santuzza”. Anche della sollevazione dei palermitani si fa solo qualche vago cenno: “Mille uomini male in arnese, con l’aiuto determinante della popolazione, avevano disfatto un’armata”, scrive Bianciardi. Ma i Mille non sono più mille. Molti sono morti in battaglia. Molti altri si sono uniti a loro come volontari. E poi, se la popolazione non fosse insorta, la conquista di una grande città come Palermo, tra le maggiori in Italia, con quasi 200.000 abitanti, sarebbe stata un’impresa impossibile per una forza così esigua. Ma il popolo si ribella, erige ovunque un gran numero di barricate e praticamente costringe i ventimila soldati borbonici a ritirarsi dalla città, non rischiando il combattimento per le strade, e ad asserragliarsi nel Castellammare e in altri punti strategici da cui cannoneggiano gli insorti, distruggendo case e massacrando civili. Sull’importanza della sollevazione popolare Garibaldi è chiarissimo: “Non gran contingente di armati ci diede la città di Palermo, giacché i Borbonici avevano avuto gran cura di tenerla assolutamente inerme; ma convien confessare, l’entusiasmo di quei bravi cittadini mai venne meno, né per i sanguinosi combattimenti delle vie, né per il feroce bombardamento della flotta nemica, del forte di Castellamare, e del Palazzo reale. Anzi, molti, per mancanza di fucili, si presentarono a noi armati di pugnali, coltelli, spiedi e ferri di qualunque specie. I picciotti delle squadre si battevano anche loro con bravura, e supplivano al decimato numero dei Mille”. Palermo combatte quindi all’arma bianca, con furore, ma soprattutto innalza una folta serie di barricate per ostacolare le truppe nemiche, intercettare i colpi di cannone, oscurare e proteggere gli obiettivi strategici. Scrive ancora Garibaldi: “Le barricate uscivano da terra come per incanto; e Palermo diventò assiepato di barricate (…) Il valore dei Mille, ed in generale dei difensori di Palermo, era stato grande. Il loro contegno e quello della popolazione non s’erano smentiti un momento. Si era disposti, in fatto, di seppellirsi sotto le ruine della bellissima capitale”. E della violenza dei bombardamenti testimoniano le fotografie di Eugène Sevaistre che mostrano una città devastata e dilaniata. Ma di tutta questa rivoluzione Bianciardi non fa che un rapido e incidentale accenno. E si sofferma invece a ricordare che “molti dei picciotti, una volta liberata Palermo, convinti che la loro guerra, la guerra di liberazione siciliana, fosse finita, se ne tornarono a casa”. Fatto che è anche vero, ma che pone altresì una questione aritmetica. I garibaldini, ormai da intendere in senso lato, infatti crescono costantemente di numero, e non solo grazie a rinforzi esterni. Giunge un contingente dal nord: duemilacinquecento volontari, salpati da Cornigliaro sotto il comando di Giacomo Medici (e Bianciardi lo annota diligentemente, come a sottolineare che la Sicilia, lungi dall’autoliberarsi, è liberata da una serie di interventi extra-insulari). Garibaldi, anche a questo proposito, registra una realtà del tutto differente che precede la decisiva battaglia di Milazzo: “Si aprirono dunque gli arruolamenti in Palermo e in ogni parte dell’isola, sgombra dai Borbonici. Si contrattarono delle armi al di fuori. Si stabilì una fonderia nella capitale; e si lavorò indefessamente a far polvere ed a costruire cartucce. Palermo, piazza d’armi del despotismo, divenne in pochi giorni un semenzajo di militi della libertà. Che bel vedere, nelle ore fresche della giornata, quei vispi giovani figli della Trinacria all’esercitazioni militari con uno slancio, una volontà, da consolare l’anima del veterano, per cui l’Italia redenta fu sogno di tutta la vita”. Le defezioni sono dunque poca cosa rispetto alle adesioni (anche Abba rileva in data cinque luglio l’abbandono di “un mezzo centinaio” di siciliani giunti da Palermo a Caltanissetta). In realtà sta prendendo ormai una precisa fisionomia un vero e proprio “Esercito meridionale” che alla fine della campagna garibaldina, dopo la vittoria sul Volturno, conterà 50.000 soldati, e secondo lo storico Paul Ginsborg addirittura 60.000 (5). Va da sé che questa considerevole massa di combattenti è formata in grandissima parte da uomini del sud disposti a seguire Garibaldi in capo al mondo e fino alla morte. Bianciardi, che è stato capace di definire i fatti drammatici di Bronte “un fastidioso e doloroso impiccio”, si ostina ancora, a conclusione del suo racconto dell’impresa garibaldina, a escludere il concorso delle genti del sud e in pratica l’esistenza stessa dell’Esercito meridionale, che invece è un fenomeno magmatico (tra abbandoni e nuove adesione) ma in continua crescita: “In quattro mesi mille ragazzi avevano sconfitto o disperso un esercito considerato fra i più forti d’Italia, e conquistato un regno di nove milioni di abitanti”. È da questo tipo di miopia politica, per non dire cecità, da questa incapacità perfino a fare di conto, che comincia l’asservimento del Mezzogiorno, la sua annessione autoritaria. Quella sul Volturno è una formidabile battaglia tra due grossi schieramenti. Bianciardi, che fino a questo punto è stato come ammaliato e abbagliato dalla figura carismatica di Garibaldi, comincia finalmente a denunciare le storture fatali che hanno caratterizzato l’unificazione del paese e la nascita del Regno d’Italia: i brogli dei plebisciti, la pretesa (espressa in una lettera di Pantaloni a Cavour) di possedere un “coraggio più grande”, una “superiore intelligenza” e un “carattere” tale da poter governare e domare le regioni meridionali. Di sottometterle quindi, imponendo l’ordine piemontese alla loro maggiore corruzione con la “forza morale e, se questa non basta, con la fisica” (e queste sono espressioni dello stesso Cavour). Per Bianciardi si tratta di “atteggiamenti sprezzanti, tirannici e perfino razzisti” che non potevano non provocare un profondo conflitto tra le due parti della neonata nazione. Ma troppo tardi se ne accorge, dopo che lui stesso ha esautorato il sud dalla sua grande opera di liberazione ed emancipazione, che certamente non poteva realizzarsi senza l’autorevolezza di Garibaldi, vero e proprio deus ex machina, ma che Garibaldi non avrebbe mai potuto realizzare senza che le masse meridionali credessero nella folliadella rivoluzione (intesa nei più diversi modi) e la inverassero con la loro sollevazione. Ma queste masse sono state defraudate di ogni forma di protagonismo. E quindi condannate a un’infame sudditanza. “Tutto ciò non potremmo spiegarcelo, se non ragionando che l’unità fu fatta male. Contro Garibaldi”, conclude Bianciardi, tornando alla sua ossessione mitopoietica per il condottiero nizzardo. Contro il meridione, piuttosto. E contro l’idea, per quanto improbabile, della Repubblica democratica: il grande spettro da esorcizzare e prevenire. Anche Bianciardi ne è, in una certa misura, consapevole quando afferma: “La verità è che il Risorgimento fece l’Italia quale ce la siam trovata noi italiani, lacerata e divisa. Divisa fra italiani ricchi e italiani poveri. Fra italiani del Nord e italiani del Sud. Fra italiani dotti e italiani analfabeti. Tutte divisioni che oggi noialtri italiani, faticosamente, penosamente, stiamo cercando di colmare”. Che è un giudizio da cui trapela un cauto ottimismo riformista, forse non del tutto infondato, ma certamente ignaro di come la questione meridionale (dopo la repressione dei moti contadini con giustizia sommaria e marziale, l’intervento dei cinquantamila bersaglieri di Cialdini a reprimere manu militariil brigantaggio e le popolazioni meridionali, i tragici eventi di Aspromonte, la rivolta palermitana del sette e mezzo e così via) si sarebbe fatalmente incancrenita e impantanata, fino a essere soppiantata da una sedicente questione settentrionale come in una specie di circolo vizioso. Note bibliografiche 1. Luciano Bianciardi, Antistoria del Risorgimento - Daghela avanti un passo! Minimum fax, Roma, 2018. 2. Salvatore Lupo,L’unificazione italiana, Roma, Donzelli, 2011. 3. Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno, Palermo, Enzo Sellerio editore, 1993. 4. Giuseppe Garibaldi, Memorie, Milano, Rizzoli (BUR), 1982. 5. Paul Ginsborg,Salviamo l’Italia, Torino, Einaudi, 2010.
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Gennaio 2021
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