CHI DI MOSTRA FERISCE
12/1/2018
di Vito Bianco
Interrogarsi su cosa sia l’arte e quale sia, se esiste, la sua funzione nella società contemporanea due secoli dopo l’annuncio hegeliano della sua prossima estinzione e le congetture analitiche di Benjamin sulla perdita dell’aura (del mistero della sua unicità) a causa della riproduzione tecnica illimitata dell’originale, è probabilmente inutile, e rischia di aprire un dibattito vagamente surreale, con l’oggetto del contendere, o dello studio, nel frattempo sparito oppure così trasformato da essere irriconoscibile. Né morta né incapace di produrre aura, ovvero “lontananza nella vicinanza”, l’arte (l’arte visiva) gode di salute eccellente e non fa che produrre effetti di seduzione - di feticismo - alimentando a ritmo continuo un circuito mediatico-spettacolare dagli introiti stellari. L’opera d’arte diventata merce e produce, al pari delle altre merci, profitto. Lo spirito sensibile, incarnato nell’oggetto in virtù della sapienza trasformativa dell’individuo demiurgo, perde in altezza (in sublime) quello che guadagna in mondanità e valore commerciale, quasi sempre sciolto dalla correlazione con il corrispondente valore estetico. Per lungo tempo elemento fondamentale dell’identità religiosa di un continente e prova di abilità individuale entro le regole stabilite di una grammatica figurativa a lenta mutazione, celebrazione del potere laico ed ecclesiastico ed esperienza estetica sempre più riconoscibile e individualizzata, da cinquant’anni almeno l’arte e gli artisti sono entrati a far parte di un sistema internazionale i cui principali elementi sono i collezionisti e i galleristi; seguono critici (o presunti tali) e curatori, figure eclettiche che, al servizio di musei e gallerie, contribuiscono in maniera determinante al successo di un’artista e di una tendenza, col prezioso supporto dei recensori di quotidiani e riviste specializzate, i quali a loro volta possono indossare i panni del curatore, in un gioco delle parti talvolta sfacciato e imbarazzante per tutti tranne, evidentemente, per i protagonisti. Che cosa fabbrica, che cosa propone, di cosa vive il suddetto sistema? Fabbrica, propone e vive di mostre, di fiere transnazionali (le Biennali d’arte: Venezia, Kassel, ecc.) che nella gran parte dei casi lasciano, sul piano della qualità formale, dell’esperienza estetica e dell’avanzamento della conoscenza - sul presente in atto e sul passato - il tempo che trovano, ma fanno fare molti quattrini alle società (Civita, Arthemisa, Linea d’ombra ecc.) che le organizzano per conto di musei e gallerie pubbliche, che da anni hanno messo nelle mani dei privati la gestione e la programmazione dell’attività espositiva. Incredibile? No, tutto secondo l’inimitabile e perlopiù inimitata (fuori dei confini nazionali) tradizione italica della svendita, del guadagno, della solita insopportabile politica che mette il cappello ovunque e nomina chi vuole per averne in cambio malleabilità e disponibilità a far viaggiare le opere d’arte infischiandosene del parere contrario degli esperti, come nel caso di un capolavoro di Raffaello mandato in Russia o delle opere esposte nel padiglione Eataly di Oscar Farinetti all’Expo milanese del 2015. Di questo e altro (per esempio del rapporto tra tutela del patrimonio storico-artistico e valorizzazione) si occupa Contro le mostre(Einaudi,166 pp.) un dettagliato e stringente saggio polemico che fa il punto sull’inarrestabile imperversare del gran circo delle mostre-spettacolo di facile digeribilità sparse per la penisola, perché, come sintetizza brillantemente un anonimo calembour, “il sonno delle regioni genera mostre”. Lo hanno scritto due critici e storici dell’arte, Tomaso Montanari e Vincenzo Trione, tra i pochi a denunciare sui giornali e in saggi militanti - soprattutto Montanari; un titolo per tutti: A cosa serve Michelangelo? - la pericolosa deriva e il disarmo della critica, per lo più asservita alla danarosa corrività del presente, alla “Business Art” che, secondo l’impassibile Warhol, è “il gradino subito dopo l’arte”. Appunto. Un libro che mancava. Necessario. Fatto apposta per agitare le acque stagnanti del mondo dell’arte (si agiteranno? Ne dubitiamo). Un libro nato, si legge, da “un’urgenza quasi ‘politica’. Da alcune comuni necessità. Insofferenze e predilezioni che condividiamo” dichiarano i due autori nella Premessa. Scritto “per non voltarci di lato rispetto a certe cattive abitudini che tanti studiosi e tanti osservatori tendono ad accettare pigramente”. La vera e decisiva posta in gioco, si capisce presto, è la difesa e il rilancio di una disciplina sempre più negletta e marginale, a scuola come nel pubblico dibattito, quando non è ridotta a muta comparsa al servizio di interessi alieni. È dunque quanto mai importante “riaffermare con forza e passione le ragioni di una disciplina come la storia dell’arte. Che, pur impegnata a salvaguardare la propria dignità e la propria identità, non può rinchiudersi dentro rigidi specialisti filologici. Esige di non sottostare a furbi compromessi o ad astute collusioni”. Contro le mostre è diviso in sei capitoli. Trione ha scritto i capitoli dispari, dedicati alla descrizione del fenomeno; Montanari, nei pari, allarga la descrizione all’ambito istituzionale, riprende un discorso mai interrotto e ribatte sul tasto politico, rimettendo il dito sulla vera piaga: lo smantellamento delle soprintendenze, l’ulteriore riduzione delle risorse destinate al Mibact, il blocco delle assunzioni; in una parola, la cessione a scopo di lucro del patrimonio nazionale, con buona pace del famoso articolo 9 della nostra bella Carta costituzionale. La conclusione, redatta a quattro mani, racconta una storia esemplare di arroganza del potere e di felice sottrazione alla logica del danaro. Riprendiamo il filo dal suo capo. Ossia da una profezia di Warhol, un profeta interessato, un agente attivo della sua stessa previsione. Dopo l’arte, il mercato dell’arte, si diceva. Niente di più vero. In un’epoca di “declino della cultura” è persino ovvio trattare i musei come “luoghi di un tempo libero seguendo le spietate leggi del mercato”. Le mostre, in questa cornice, non sono che momenti dello “show business”, appuntamenti di una “religione sostitutiva”, ha scritto Jean Clair, citato da Trione. Se è questo che devono essere, allora devono essere quanto più possibile prive di attrito, piacevoli; percorsi seducenti che diano l’illusione della conoscenza, acquisita col minimo sforzo e a un prezzo (del biglietto) abbordabile. L’assoluto a portata di mano da anni ormai punta sempre sui medesimi nomi, o sulle ammucchiate “da…a” che abbracciano secoli di storia e decine di nomi senz’altra ragione che quella puramente economica. Sono quelle che in gergo si chiamano mostre blockbuster, come i film commerciali hollywoodiani prodotti in serie combinando sempre gli stessi ingredienti. In che modo reagire al cattivo andazzo? Esiste una maniera di invertire la tendenza e cominciare a fare mostre appassionanti e necessarie, rigorose e coinvolgenti? Certo che esiste. Per esempio si potrebbe cominciare riaffidando i musei pubblici agli storici dell’arte. Perché, dice giustamente Trione, non dobbiamo dire basta a Caravaggio, van Gogh e Cézanne (ci mancherebbe). Al contrario: abbiamo il dovere di rivederli, di rileggerli “affrontando le incognite nascoste nei loro quadri e nelle loro sculture”, anche con l’ausilio delle nuove tecnologie, ma senza esagerare, senza cioè trasformare l’opera in un pretesto per un divertimento virtuale. Le mostre hanno molto da insegnare, ricorda Trione. Soprattutto insegnano, quando sono ben fatte, ad accostarsi con rispetto al silenzio “misterioso dell’arte”, all’enigmaticità muta della quale aveva parlato Adorno nelle pagine dense e frammentarie della Teoria estetica.Nulla di facile, quindi; nulla di più lontano dalle esposizioni superficiali che non lasciano sedimenti nello spettatore, né desiderio di proseguire il dialogo con gli artisti. I quadri, scrive Trione non ci si propongono come “garbate visioni seduttive”; sono, al contrario sfide che possono “disorientarci, sconvolgerci. Figurazioni prive di ogni saggezza, terribilmente maleducate (…)”. Ma non ci sono solo le gallerie e i musei, ci rammenta Montanari nel capitolo intitolato “Rompere la gabbia”. Lo studioso comincia con un consiglio, che facciamo nostro e rilanciamo: nel fine-settimana, o per le prossime vacanze, non visitate una mostra, ma una chiesa, un monastero, un sito archeologico. Per il piacere di boicottare l’industria del trasloco delle opere d’arte, e per il piacere di scoprire il “contesto”, l’enorme e spesso misconosciuto tessuto di opere di cui è punteggiato il territorio del nostro Paese, uno straordinario museo a cielo aperto e a ingresso libero. Trascurato dal ministero diretto dal disinvolto ministro Franceschini e qualche volta e per fortuna riportato a nuova vita dalla libera iniziativa di gruppi di giovani studiosi decisi a dimostrare che il tanto bistrattato connubio tra conoscenza e valorizzazione (vera) è possibile; basta volerlo. Occorre, continua Montanari, una presa di coscienza che “dovrebbe cominciare a scuola: dove si studia sempre meno storia dell’arte”. Che serve prima di tutto per imparare ad apprezzare la forza del luogo “che dà forma alla loro vita”. È un tassello fondamentale per costruire quella che una volta si chiamava “cittadinanza consapevole”, perché il bello o il brutto che hai sotto gli occhi dice l’essenziale della classe politica che ciclicamente ti chiama alle urne; nulla rivela con più evidenza il livello etico di un governo o di una amministrazione. Dove finisce il paesaggio della natura, dove inizia l’arte dell’uomo? si chiede lo storico toscano. È impossibile dirlo, si risponde. O meglio, la risposta è la fusione che fa di natura e cultura una cosa sola, un unico “contesto” che racconta la storia di una civiltà. È lì a portata di passi, se solo troviamo la forza di dimenticare il sempre più rumoroso supermercato delle mostre. Di questo supermercato le Biennali sono l’archetipo e il trionfo. Grandi fiere nate per l’euforico festeggiamento del presente, sono ormai soltanto grandi vetrine della vanità dove l’arte non é che un pretesto o un’occasione di scandali ogni volta più fiacchi che hanno come unico scopo l’aumento delle quotazioni di un sedicente artista. La confusione regna sovrana, scrive Trione, ed è sempre più difficile distinguere le aquile dai tacchini (R. Hughes). A Venezia come altrove ogni due anni si replica lo stesso film, a prescindere dal nome del curatore, che per timore di uscire fuori dal solco rischia il meno possibile limitandosi a mettere in fila un certo numero di opere legate da un improbabile filo concettuale. È il modello che dilaga durante il resto dell’anno, che domina la programmazione dei musei. Gli artefici sono i curators, bravi soprattutto nelle pubbliche relazioni e nell’imbastire fragili sfondi per esposizioni di scarso impatto ma di sicuro incasso. In non cale, trascurate e quasi invisibili per lo scarso battage pubblicitario sul cui possono contare, le poche mostre davvero utili, perché approdo finale di un percorso di studio e approfondimento, frutto finale e pubblico di una lunga e appartata ricerca. L’antidoto. Riprendersi i musei. Che vuol dire accompagnare alla porta i privati e ricollocare il pubblico nelle persone degli storici dell’arte, gli unici competenti a giudicare la serietà scientifica di una mostra, che non vuol dire noia mortale o esposizioni per quattro gatti. Perché la contrapposizione fasulla proposta dagli apologeti di questo “stato dell’arte” (che accusano chi lo critica di elitismo) non è tra la barbosità della filologia per addetti ai lavori e il divertimento leggero delle mostre di cassetta. È tra la serietà, lo studio, il senso riconoscibile di esposizioni fatte per far conoscere e appassionare, e la corrività eminentemente commerciale di eventi pensati con l’unico scopo del lauto guadagno. Contro le mostre fa molti esempi di cattive mostre, e pochi, per ovvie ragioni, di mostre virtuose, che fortunatamente non mancano, ma vanno cercate con pazienza, sommerse come sono dalla pubblicità multimediatica delle altre. Il saggio ha un solo punto debole, che non intacca affatto l’eloquente solidità del lavoro: non fa abbastanza nomi, forse per timidezza, forse perché gli autori hanno ritenuto che indicare il male bastasse; ma in questo caso sarebbe stato utile per capire meglio il nesso tra i padroni delle società che gestiscono i musei (quando dovrebbero limitarsi al bookshop, alla biglietteria e al caffè), i curatori e gli alti funzionari del ministero o più in generale la politica. Si cita Marco Goldin di Arthemisa; e Sgarbi nella trascrizione della lettera inviata a Franceschini e firmata da cento storici e funzionari del Mibact. E gli altri? Nelle Conclusioni, come anticipavo, una storia esemplare dell’intreccio perverso tra prepotenza pubblica e interessi privati, incarnati alla perfezione dall’ex rettore dell’università di Bologna: la mostra sulla Street Art Banksy&co.L’arte allo stato urbano del 2016. “A differenza della stragrande maggioranza delle mostre italiane, che passa come un detersivo o una tavola rotonda accademica, cioè senza provocare la minima reazione mentale” scrivono Montanari e Trione, “questa ha suscitato una straordinaria reazione”. Una reazione che fa ben sperare nella possibilità di mettere in atto un contro processo collettivo per inceppare la “macchina attrattiva” e sottrarsi alla logica pervasiva della notorietà che porta soldi, molti soldi, e soltanto soldi. Come dire che ogni tanto, quando meno se l’aspettano, è bello farsi trovare altrove; cancellarsi. Letteralmente. Potrebbe cominciare proprio dai muri delle periferie offese l’arte del futuro.
0 Commenti
Lascia una risposta. |
Archivio
Marzo 2021
|