CAPITALE DISUMANO E LAVORO SALARIATO
15/3/2019
di Tommaso Cumbo
[ Questo articolo è la rielaborazione dell'intervento tenuto in occasione del seminario “Il Capitale disumano” tenutosi il 14 novembre 2018 presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma 3, dedicato a un confronto con Roberto Ciccarelli, autore del volume Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, Manifesto Libri 2018. Alla discussione con l’autore hanno partecipato – oltre a Cumbo – Massimiliano Fiorucci, Edoardo Puglielli, Francesco Maria Pezzulli e Maurizia Russo Spena. ] L’alternanza disumana? Il testo di Ciccarelli coglie i tratti salienti, con dovizia di informazioni che derivano da testi di legge, documenti programmatici, letteratura specialistica, etc – dell'ideologia del capitale umano [1], un concetto che ha come correlato, nel campo dei servizi di supporto alla carriera dei giovani in uscita dai percorsi di studio post-secondari, quello di ‘employability’ [2]. L’employability può essere declinata come l’insieme delle competenze (con particolare importanza di quelle cosiddette trasversali) che un giovane deve possedere per affrontare con una solida corazza, in autonomia, le turbolenze del mercato dela lavoro contemporaneo. D’altra parte da alcuni decenni, con il tramonto dello Stato Sociale del dopoguerra, la disoccupazione e la ricerca di un lavoro sono sempre più diventati un problema individuale, tanto che possiamo parlare di un diritto del lavoro che nel nostro paese, come in altri paesi europei, ha subito una curvatura da diritto sociale a diritto di libertà [3]. Ossia da un diritto garantito in forma diretta o indiretta dallo Stato, si è passati a un diritto a cercare un lavoro e mantenerlo, con un supporto dello Stato che è circoscritto al campo delle cosiddette politiche attive con azioni di orientamento, formazione, supporto all’incontro domanda-offerta, etc. All’interno di questo contesto si inserisce l’Alternanza scuola lavoro, che come è noto si trova in una fase di sostanziale revisione legislativa dal nuovo governo, con l’abolizione dell’obbligatorietà, e che non va demonizzata come sfruttamento – nonostante le distorsioni alle quali abbiamo assistito. L’alternanza, a certe condizioni, può essere un’esperienza formativa (ricordiamo che può essere svolta anche in enti pubblici, del privato sociale, etc), che aiuta il giovane a entrare in contatto non solo con il mondo del lavoro, ma con esperienze concrete che possono agire positivamente sul percorso di crescita. Non è un caso che un attento e critico conoscitore del sistema scolastico, come il Maestro Franco Lorenzoni, abbia invitato a valutare l’Alternanza nei fatti, ritenendo che essa possa essere anche utile [4]. Per quanto riguarda il fatto che l’alternanza prepari anche al mondo del lavoro, senza che si trasformi già in lavoro naturalmente, non deve destare scandalo, visto che la condizione che i giovani si preparano ad affrontare è proprio quella di cercare – terminato il percorso di studi – un lavoro salariato, nella speranza di trovarlo! La scuola infatti propone un modello di acculturazione di base coerente con le forze dominanti (in questo caso il Capitale) che operano nella società. Il passaggio storico nel quale ci troviamo: la necessità di redistribuire il lavoro Questo è forse il punto problematico su cui l’interessante libro di Ciccarelli stimola una riflessione. L’autore correttamente indica negli anni ’70 il periodo di avvio di un mercato del lavoro sempre più precario; ma quel periodo segue proprio la fine dello ‘Stato Sociale Keynesiano’ del dopoguerra, che ad avviso di chi scrive era stata una prima risposta al problema della difficoltà crescente del sistema capitalistico a riprodurre il lavoro salariato [5] . Un passaggio che Ciccarelli non considera rilevante, tanto da ritenere che il fenomeno dell’innovazione tecnologica possa sfociare solo nell’effetto paradossale di generare più posti precari: “il lavoro è una produzione che cambia in base alla domanda: oggi è altissima e riguarda il lavoro a termine e occasionale”. Ma il lavoro diminuisce con l’innovazione tecnologica: la moltiplicazione dei lavoretti precari è lo specchio dell’incapacità/resistenza del sistema produttivo a impiegare in forme alternative la capacità produttiva generata dall’innovazione, a creare uno spazio sociale nel quale gli individui possano imparare a praticare forme di produzione emancipate dalla subordinazione al capitale e allo stato [6] D’altra parte, pur essendoci le condizioni per cominciare ad usare alternativamente al Capitale e al lavoro salariato tale capacità produttiva, non si vedono al momento un percorso politico e sociale e una forza soggettiva in capo agli individui in grado di esprimere una pratica produttiva differente. Ciò che per Ciccarelli è qualcosa già presente nella società tanto da poter essere sancito da un diritto a un reddito di esistenza per tutti e incondizionato [7], è qualcosa che piuttosto va considerato un obiettivo da raggiungere. Non siamo in una fase in cui sappiamo già produrre in modo alternativo al lavoro salariato. Dobbiamo conquistare collettivamente una capacità di realizzare tutto il lavoro necessario e scambiare i prodotti di questo lavoro (dal momento che è impensabile fare a meno di questo lavoro per riprodurre la società), per godere di un tempo liberato dalla necessità di dover vendere la nostra forza lavoro, “prendendo così le distanze” da quello che siamo adesso, secondo l’auspicio dell’Autore. [Tommaso Cumbo è un esperto di politiche e servizi della transizione tra istruzione e lavoro, membro dell'associazione Arela (Associazione per la redistribuzione del lavoro)] Note: 1. Secondo la definizione fornita dall’Ocse, il capitale umano è costituito dall’insieme delle conoscenze, delle abilità, delle competenze e delle altre caratteristiche individuali che facilitano la creazione del benessere personale, sociale ed economico. Per Ciccarelli tale definizione ideologica edulcora la realtà dell’imposizione di un modello di esistenza fondato sull’incessante autosfruttamento alla ricerca di un lavoro che spesso è precario. Il principale promotore della teoria del capitale umano è l’economista e premio nobel Gary Becker, il quale in occasione del Festival dell’economia di Trento del 2007 sottlineò che “Il successo e la crescita saranno in quei Paesi che sapranno investire nei propri cittadini. Perché il capitale umano è sempre più importante; perché non basta possedere petrolio e materie prime per prosperare; perché le persone e non le risorse o le macchine determinano già, ma lo faranno sempre di più, la nostra ricchezza. Questa è la mia visione dell’umanità: le persone sono importanti” http://www.economia.rai.it/articoli/il-capitale-umano-nella-teoria-del-nobel-gary-becker/24814/default.aspx 2. Vedi ad esempio Mantz Yorke: Employability in higher Education what it is what it is not, 2006 https://www.researchgate.net/publication/225083582_Employability_in_Higher_Education_What_It_Is_What_It_Is_Not 3. Su questo passaggio, suggerisco la lettura di “A che cosa serve l'articolo 18” di Luigi Cavallaro, Manifesto Libri, 2012. 4. https://www.giuntiscuola.it/sesamo/a-tu-per-tu-con-l-esperto/i-bambini-pensano-grande/quali-esperienze-per-un-alternanza-sensata/ 5. Chi scrive fa parte dell’Associazione per la redistribuzione del lavoro (Arela), fondata da Giovanni Mazzetti, il quale da più di 30 anni cerca di mostrare come il problema che abbiamo davanti sia proprio la difficoltà del sistema di riprodurre il lavoro salariato. Naturalmente qui è possibile fornire non più di qualche suggestione del percorso teorico dell’associazione. 6. Vedi almeno Giovanni Mazzetti “Quel Pane da spartire. Teoria della necessità di redistribuire il lavoro” Torino 1997, edito dalla Bollati Boringhieri. 7. “Il reddito non è un compenso, ma il riconoscimento di un’attività in ragione di un diritto fondamentale dell’essere umano” (p. 217, Il capitale disumano).
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