LUCIO COLLETTI:UN MARXISTA CONTROCORRENTE
25/12/2020
Nel 2021, che sta per arrivare, commemoreremo il filosofo italiano Lucio Colletti a 20 anni dalla sua scomparsa. Molti lo ricorderanno, probabilmente, per la sua esperienza politica in parlamento con Forza Italia. Ma Lucio Colletti è stato soprattutto uno dei più importanti teorici marxisti del ‘900. Allievo di Galvano Della Volpe, è stato per anni attivo nel PCI, poi allontanandosi dallo stesso partito. Nel 1968 fu pubblicato un testo teorico molto importante a firma del Nostro, intitolato Bernstein e il marxismo della seconda internazionale, come introduzione allo scritto Socialismo e socialdemocrazia (il saggio è apparso anche nella raccolta Ideologia e società, edito da Laterza la cui edizione del 1969 sarà la principale fonte bibliografica di questo articolo). La critica è ovviamente rivolta all’impianto teorico che ha influenzato tutto il pensiero marxista del ‘900, soprattutto in URSS e in molti partiti comunisti occidentali condizionati dal socialismo reale.
I bersagli principali, oltre a Bernstein, sono Kautsky e Plechanov. Gli argomenti trattati sono diversi: teoria del crollo, teoria dello Stato rappresentativo, teoria del valore, concetto di scienza, ecc. Tratteremo in questo articolo alcuni temi che riteniamo importanti, non solo per capire il pensiero di Colletti, ma per riportare attenzione su un metodo che ormai ci sembra scomparso dall’accademia e dalla politica. Sulla teoria del crollo Marx nel paragrafo del Capitale intitolato Tendenza storica dell’accumulazione capitalistica, prevede una tendenza alla centralizzazione dei capitali, ovvero il frutto della concorrenza coercitiva tra capitalisti che fanno fuori i più piccoli. Marx rileva una contraddizione: da un lato si sviluppa la forma cooperativa del processo lavorativo, dall’altro con la diminuzione del numero dei magnati del capitale cresce la miseria e l’asservimento, lo sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia. Questa contraddizione scoppia perché diventano, i due corni, incompatibili con l’involucro del capitalismo. Bernstein rifiuta questa concezione e cerca di smontare ciò che probabilmente viene considerata la previsione più verificata di Marx, ovvero la concentrazione e centralizzazione dei capitali. La prova che Bernstein respinge tutto questo sta nel suo impegno a dimostrare che esiste una capacità del capitalismo ad autoregolarsi. I cartelli, il credito, il miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice, sono tutti elementi che rendono eterno il sistema capitalistico. All’idea del socialismo quale sistema che ha condizioni e radici obiettive che si trovano nel processo stesso della produzione capitalistica, Bernstein contrappone il socialismo come ideale etico, meta che l’umanità sceglierà come avvenire per conformarsi agli ideali di morale e di giustizia. Colletti rileva una comunanza tra Bernstein e gli altri marxisti, soprattutto Plechanov, nella formulazione del concetto di economia, o meglio nel concetto di rapporti sociali di produzione. Secondo questi autori la produzione sociale è tecnica della produzione e l’economia ha come oggetto la tecnologia. Questa economia è quindi tecnica materiale nel vero senso della parola, una concezione tecnologica come concezione materialistica della storia, che sappiamo poi ha influenzato tutto il marxismo cosiddetto ortodosso molto legato all’esperienza sovietica. Colletti quindi rileva che in comune tra Bernstein e gli altri marxisti come Plechanov, c’è questa separazione tra produzione e società che vengono entrambi ridotti in un'unica tendenza che è il cambiamento della tecnica produttiva che influisce le istituzioni sociali. Essi, ancora, rilevano una separazione di due rapporti quello tra uomo e natura e quello tra uomo e uomo. Senza mediazione interumana però, scrive Colletti (pag. 89) non ci può essere lavoro e attività produttiva. In Lavoro salariato e capitale Marx scrive: “Nella produzione gli uomini non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri. Essi producono soltanto in quanto collaborano in un determinato modo e cambiano reciprocamente le proprie attività. Per produrre, essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti, e le loro azioni sulla natura, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali”. Secondo la concezione dei teorici della Seconda Internazionale l’uomo rappresenta solo un anello della concatenazione materiale oggettiva, il cui agire è guidato da una forza superiore e trascendente che per Plechanov è “la Materia” (ma potrebbe mutatis mutandis essere anche l’Assoluto di Hegel). Il Marx della produzione di rapporti umani e insieme di cose è qui ignorato, con il risultato di avere una ingenua metafisica, filosofia della Provvidenza. Questa Materia di Plechanov ha una accezione teleologica, una forza che muove verso una meta i popoli come le classi sociali che ci stanno dentro. La storia, cioè l’analisi delle formazioni storico-sociali, scompare per lasciare il posto alla materia primigenia. Colletti continua affermando che qui prende forma un Hegel ‘formato popolare’ al posto di Marx. La teoria del pensiero fa a meno dell’uomo e torna ad essere un Assoluto come identità originaria di pensiero ed essere (pag. 96). Colletti continua il discorso sull’approccio “ingenuamente mistico e metafisico” del marxismo ortodosso o della seconda internazionale. Al pari di Plechanov, anche Bernstein muove da un concetto naturalistico di economia, economia come un istinto o forza naturale. Però a differenza di Plechanov, per Bernstein la società dell’avvenire non è il risultato di uno sviluppo oggettivo, ma una “méta ideale” che il genere umano si pone liberamente. Anche per Kautsky esiste un ideale morale di cui neanche la lotta di classe può farne a meno (pag. 98). Colletti continua soffermandosi sulla contrapposizione tra giudizi di fatto e di valore, e quindi sul rapporto tra scienza ed ideologia. Qui il filosofo romano sembra abbracciare alcune affermazioni di Hilferding e soprattutto di Myrdal. Secondo il primo è errato identificare il marxismo con il socialismo. Infatti il marxismo, visto come sistema scientifico, è solo una teoria delle leggi del divenire della società (pag. 100). Riconoscere la validità del marxismo non significa formulare valutazione. Il marxismo della Seconda Internazionale è diviso, dice Colletti, tra scientismo positivistico e neokantismo. Il primo cerca l’oggettivismo deterministico non riesce a vedere il momento ideologico, il programma politico rivoluzionario. D’altra parte l’ideologia si ripropone come mondo della libertà etica accanto al mondo della necessità naturale. Senza idea però non esiste osservazione in quanto la teoria, nell’osservare la realtà, deve essere elaborata e diventare idea nello scienziato. “I fenomeni vengono ad assumere un loro significato solo se sono accertati e organicamente inseriti in uno schema teorico. Bisogna porsi le domande prima che possano essere ottenute le risposte. E le domande sono espressione del nostro interesse per il mondo, sono in ultima analisi valutazioni.” Scrive l’economista svedese Myrdal (citazione di Colletti, pag. 101). Ciò è quello che aveva detto anche Kant: “quando Galilei fece rotolare le sue sfere… e Torricelli…ecc. e Stahl….ecc., essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che …deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini” (Kant, Critica della ragion pura, citazione di Colletti a pag. 102). Ciò che sembra allora semplice osservazione è deduzione, oggettivazione delle nostre idee, cioè proiezione sul mondo delle nostre valutazioni e nostri preconcetti. Quindi i giudizi di valore nella scienza per Colletti sono fondamentali ma solo se il loro significato è rimesso alla prova storico-pratica, deve cioè reggere la confutazione dell’esperimento. Questo è il nesso tra scienza e politica, conoscenza-trasformazione del mondo, operata da Marx. Tale compresenza di scienza e ideologia, interpretazione criticata da Bernstein, è in realtà ciò che rende originale ed elemento di forza il pensiero di Marx. Riprendiamo il concetto di “economia” accennato, da un altro punto di vista, sopra. Si capisce come l’interpretazione della Seconda Internazionale sia povera riguardo alla teoria del valore, che viene ridotta alla sola interpretazione ricardiana. Si manifesta un’incapacità di comprendere come la teoria del valore di Marx senza la teoria del feticismo sia incompleta. È vero che l’economia politica classica è riuscita ad analizzare il valore e la grandezza di valore scoprendone anche il contenuto nascosto, ma non ha mai scoperto perché quel contenuto prendesse una determinata forma. Il contenuto nascosto è il lavoro umano, anche se il valore si presenta come valore di cose. Il limite principale sta nel fatto che non ci si chiede perché il lavoro si presenta come valore di cose. Marx scrive che l’economia classica non è stata capace di vedere che: “la forma valore del prodotto di lavoro è la forma più astratta ma anche più generale del modo borghese di produzione “(pag. 104) L’analisi della grandezza di lavoro, ovvero del rapporto di scambio, valore di scambio, ha occupato tutta l’analisi di Smith e Ricardo, dice Marx. Laddove non ci si è occupato dall’importanza decisiva che assume l’analisi del feticismo o alienazione o reificazione cioè: “processo per cui, mentre il lavoro soggettivo umano sociale si presenta nella forma di una qualità intrinseca delle cose stesse, queste ultime a loro volta – risultando dotate di qualità soggettive o sociali proprie – appaiono per così dire personificate e animate, quasi fossero soggetti autonomi” (pag. 105) Il carattere sociale del lavoro privato si presenta come proprietà di cose alla rovescia. Questa interpretazione di Colletti sul feticismo sembra limitarsi però al solo ‘Carattere di Feticcio’ di cui parla Marx nel famoso primo capitolo del Capitale Manca una distinzione tra Carattere di Feticcio e Feticismo. Il capitale, come il valore e il denaro, è dotato di poteri sociali. Tali poteri non sono illusori, lontani dalla realtà, bensì “apparenti”, ovvero rappresentano manifestazioni fenomeniche delle cose come sono nella loro determinatezza storica specificatamente capitalistica e in questo senso si può dire che il capitale rivesta carattere di feticcio. L’illusione che determina invece il Feticismo coincide con la naturalizzazione di questi poteri sociali, come se appartenessero alle cose in quanto cose. Da queste considerazioni nasce la famosa affermazione di Marx per cui le relazioni tra persone appaiono come relazioni tra cose: che è proprio ciò che di fatto si verifica. Riprendendo il discorso, Colletti considera importante per spiegare la teoria del valore di Marx il concetto di lavoro astratto o lavoro umano eguale. Se si fa astrazione dai materiali utilizzati durante l’attività lavorativa, ciò che rimane in generale, comune a tutti i lavori è il dispendio di forza lavorativa umana. Questo lavoro umano comune, anche se qualitativamente diverso (esempio il sarto e il falegname), lavoro indistinto riguardo alla forma del dispendio, è il lavoro che produce valore (pag. 106). Colletti aggiunge che questo lavoro astratto è un’astrazione come “generalizzazione mentale” dei molteplici lavori utili e concreti (p. 107). Essendo una generalizzazione mentale, Bernstein afferma che ci sia distanza con la realtà. Per il pensatore tedesco proprio perché frutto della mente, questa analisi serve a dare sistematicità alla teoria, ma è privo di esistenza reale. Di conseguenza anche il plusvalore diventa una pura formula di pensiero. Quest’entità diventa solo un elemento scolastico-teleologico partorita da una logica difettosa, come rileva criticamente anche Bohm-Bawerk. Il filosofo italiano però difende la ”astrazione mentale” chiarendo che questa non nasce nella mente del ricercatore, ma invece si compie ogni giorno nella realtà dello scambio. Scrive Marx nel Capitale a riguardo: “gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’un con l’altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno” (pag. 113 di Ideologia e società) Questa realtà in cui le forze lavorative sono eguagliate le une con le altre perché prese astrattamente e separate dagli individui in carne ed ossa a cui invece appartengono, diventa una realtà alienata, in quanto queste forze separate diventano forze a sé a prescindere dagli individui. Ciò ci porta ad un’altra conclusione che il lavoro astratto così intenso è lavoro alienato, cioè estraniato o separato dall’uomo stesso. (pag. 114) Così sembra che il soggetto reale non sia l’uomo che eroga la forza lavorativa, bensì la forza lavorativa stessa e dell’uomo non rimane che una concessione di veicolo o mezzo che manifesta questa forza. I soggetti reali diventano quindi determinazioni di queste determinazioni cioè di forza lavoro così “entificata”. Il tempo di lavoro è quindi tutto, l’uomo è niente tutt’al più carcassa del tempo. In conclusione il lavoro astratto non è solo una generalizzazione mentale ma è attività reale essa stessa, che non è appropriazione del mondo naturale oggettivo, ma espropriazione della soggettività umana (pag. 117), ovvero separazione di capacità lavorativa dall’uomo stesso. Colletti in questo modo vuole rilavare non solo che teoria del feticismo e dell’alienazione contraddistinguono la teoria del valore di Marx rispetto al canone classico dell’economia politica, ma che le prime costituiscono anche un nuovo punto di vista per permettere a Marx di spiegare nascita e destino di economia politica come scienza (pag. 119). Quindi il compito dell’economia politica come scienza consiste per Marx nella “de-feticizzazione” del mondo delle merci ovvero scoprire che ciò che si presenta come valore di cose in realtà non è una proprietà delle cose stessa, ma lavoro umano reificato.
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SINDACATI MODERNI?
2/12/2020
di Marco Palazzotto
Pubblichiamo, in forma di articolo, un intervento dell'autore all’assemblea nazionale dell’area programmatica di sinistra sindacale CGIL: Democrazia e Lavoro. La conferenza si è tenuta nei giorni 27 e 28 novembre scorsi. Qui il link ai video degli interventi https://www.facebook.com/Democrazia-e-Lavoro-CGIL-716876725014804/videos ) Nell’affrontare la crisi economica e finanziaria provocata dal blocco pandemico, finora ha prevalso la logica del garantire liquidità al sistema, un intervento pubblico che non ha come scopo quello di una presenza diretta nell’economia attraverso l’uso della spesa pubblica. Occorrerebbe un cambio di paradigma. La ripresa a “V” che tutti sperano, o a “U” come qualcun altro paventa, o peggio a “L”, lascerebbe immutato il sistema attuale. Probabilmente cambieranno alcune forme di lavoro, alcuni settori andranno ridimensionandosi, mentre altri ne rinasceranno (ad esempio il settore sanitario, della cura, della logistica, dei servizi educativi, ecc.). Tutti settori che comunque necessitano di un’alta intensità di lavoro: altro che tendenza alla fine del lavoro grazie alle rivoluzioni tecnologiche. Una cosa che fa riflettere in queste settimane è l’uso politico di questa crisi. Si noterà che la narrazione principale è la stessa che andava in voga durante la guerra (spesso abbiamo visto che molti paragonano lo stato pandemico alla guerra). Le istituzioni ci dicono che esiste un nemico esterno, il virus. Prima erano i tedeschi, o i russi o gli americani, e così via, e pertanto per combatterlo dobbiamo stare uniti e accettare lo stato di emergenza, non lamentarci dei decreti emergenziali, del lockdown eccetera. Il problema che preoccupa maggiormente è che la ripresa avverrà in un contesto di crisi sociale tale che saremo costretti, come ormai da più di 40 anni, ad ingoiare le politiche neoliberiste, perché dobbiamo sconfiggere il nemico esterno (il virus, la crisi, ecc.). Ricordiamo però che durante la guerra l’immagine del nemico esterno è parte integrante del modo in cui gli stati capitalistici fanno valere l'interesse di classe dominante come un interesse generale. In guerra la difesa della nazione è sempre copertura di ragioni sistemiche della guerra stessa e della sua natura imperialistica (Michele Nobile, 2020). Qui è corretto parlare di intervento dello Stato: ma il fatto è che il neoliberismo non è per principio contrario all'intervento statale, tutt’altro. Vedi il disavanzo pubblico da record di Ronald Reagan. Lo fece Obama durante la crisi del 2007, lo faremo anche noi. Il problema è il controllo sociale sul sistema produttivo e il suo finanziamento. Il soggetto sociale che lo gestisce. Negli ultimi trent’anni la CGIL ha modificato la sua cultura. Dopo la cancellazione delle componenti partitiche interne ha anche modificato la propria ideologia e ha un po’ seguito le trasformazioni culturali che avvenivano anche nella politica nazionale ed europea. È stata messa da parte l’analisi di classe, sostituita da un’analisi dei soggetti produttivi. Le imprese e i lavoratori sono stati messi quasi sullo stesso piano in quanto soggetti fondamentali per lo sviluppo economico ed umano. Il profitto, quale forma monetaria del plusvalore, si è trasformato in remunerazione del capitale investito e ha raggiunto una legittimazione etica: l’imprenditore che si comporta bene con i lavoratori produce profitti “buoni”. In sintesi la CGIL si è trasformata, pur avendo alle spalle decenni di lotte e di pensiero anticapitalistico, in soggetto politico che difende i lavoratori in un capitalismo che può essere buono. Ci si è ridotti, per tornare al presente, ad abbandonare le lotte e l’ideologia operaia per fare proposte di politica economica compatibili con il sistema produttivo attuale. È evidente l’approccio economicistico e statalistico. La crisi pandemica comporta si anche una certa critica del neoliberismo senza freni, ma in effetti imporrebbe una radicalizzazione della critica del presente e in particolare una critica radicale dell'economia politica che ci viene propinata - ancora dopo 2 secoli - come scienza esatta alla quale dobbiamo adeguarci acriticamente, come se il capitalismo fosse un sistema produttivo naturale e perenne. Quindi va bene se chiediamo più intervento dello Stato, più welfare, più lavoro, meno precarietà e disoccupazione, ma dobbiamo però essere capaci di creare quella coscienza secondo la quale senza legame con il soggetto sociale lavoro non andiamo da nessuna parte. Ecco perché dobbiamo mettere al centro il lavoro non come “diritto”, come fattore produttivo destinatario di concessioni da parte di chi mantiene i mezzi di produzione, ma come soggetto politico promotore di una trasformazione che prenda il controllo sulla moneta e sulla produzione attraverso lo Stato, uno Stato dei lavoratori e non delle classi sfruttatrici. Occorre spostare quindi l’attenzione dal rapporto ricco-povero a quello capitale-lavoro. Il capitalismo si evolve sempre anche attraverso il perfezionamento della tecnica produttiva: ciò significa che la parte di lavoro necessario al mantenimento del lavoratore sarà sempre più piccola. Con ciò la parte del prodotto sociale che andrà al lavoratore è sempre minore. Contro il calo del salario relativo (ne discute Rosa Luxemburg ad esempio in Introduzione all’economia politica, 1925) i lavoratori non possono far nulla, perché non possono far nulla contro il progresso tecnico. L’azione sindacale per aumentare i salari è quindi importante ma non risolutiva. Per combattere la caduta del salario relativo occorre combattere contro il carattere di merce della forza-lavoro. Ma Rosa Luxemburg evidenzia anche che l’azione sindacale è importante per evitare che la forza-lavoro venga pagata al di sotto del suo valore. Il sindacato quindi gioca un ruolo organico ma indispensabile nel sistema salariale capitalistico. Occorre, in conclusione, che il sindacato torni ad essere antagonista e non compatibilista, che ritorni alla lotta, abbandonando il ruolo di “consigliere del Principe”, che si faccia promotore si di un’azione volta a difendere il valore necessario della prestazione lavorativa, ma tenendo presente il carattere di merce del lavoro che scaturisce da un rapporto di sfruttamento impari tra classi in conflitto. |
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