0 Commenti
LIBRI DELL'ANNO 2018
24/12/2018
LIBRI DELL'ANNO 2018
Anche quest’anno redattori, collaboratori e lettori di PalermoGrad hanno scelto i loro Libri dell’Anno; e anche quest’anno c’è stato chi si è limitato segnalare il titolo, chi si è lanciato in vere e proprie mini-recensioni. Erano ammessi titoli pubblicati in qualsiasi lingua a partire da ottobre 2017, comprese riedizioni se in presenza di una nuova traduzione e/o introduzione. Ricordiamo con l’occasione l’autore di uno dei Libri dell’Anno 2016, Laurence Raw, che è scomparso in questo triste 2018. Raw, un inglese che insegnava da tempo in Turchia, era una delle autorità mondiali nel campo dello studio delle trasposizioni radiofoniche, televisive e cinematografiche della letteratura, grandissimo esperto del cinema di Ridley Scott e - come scrivevamo nel 2016 - autore di“un libro dedicato a Donald Wolfit, personaggio ricordato più che altro per avere inspirato i film Il Servo di Scena e – più indirettamente – Oscar Insanguinato, ma che fu tra i massimi protagonisti del teatro shakespeariano del dopoguerra. Con Theatre of the People. Donald Wolfit’s Shakespearean Productions 1937-1953, Rowman& Littlefield, il luminare degli ‘Adaptation Studies’ Laurence Raw ha ricostruito dodici messe in scena di Wolfit, ‘come se fosse stato lì’, fornendo ampio materiale alla discussione sul ‘nazional-popolare’, stavolta in salsa britannica”. Buon divertimento, buone vacanze e ci rivediamo nel 2019! Mauro Azzolini, amico di PalermoGrad. Segnalo tre titoli molto diversi tra loro: Davide Ficarra, Milza blues (Navarra Editore): romanzo vivace e accattivante capace di raccontare le avventure di quattro giovani nella Palermo (anzi, nel Villaggio Santa Rosalia) degli anni Settanta-Ottanta senza cedere alla retorica assolutoria della città bella e maledetta. In queste settimane ne esce il seguito. Domenico Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra (Imprimatur): collocato nel dibattito con una chiarezza che emerge già dal titolo, il breve saggio articola in modo intelligente la questione dell’unione monetaria affiancando all’analisi economica una brillante ricostruzione del rapporto tra cosmopolitismo e internazionalismo [Qui una recensione pubblicata su PalermoGrad]. John Higgs, Complotto! (Nero), traduzione di Fabio Viola: né romanzo né biografia, né cronaca né storia, il libro traduce sul piano letterario la distanza da ogni classificazione che la musica di Bill Drummond e Jimmy Cauty porta con sé. Emblematico il sottotitolo: «Storia dei KLF, il gruppo che diede fuoco a un milione di sterline». Riccardo Bellofiore, ordinario di Economia Politica, Università di Bergamo. Tra i suoi libri degli ultimi anni, si rivolgono a un pubblico di non-specialisti i volumetti “gemelli” La crisi capitalistica, la barbarie che avanza e La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra (Asterios). Quest’anno ha scritto Le avventure della socializzazione (Mimesis) e curato una nuova edizione di Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx (Punto Rosso). Con Giovanna Vertova pubblica la pagina FaceBook ‘Economisti di classe’. In ordine alfabetico per autore: 1. Luciana Castellina, Amori comunisti, Nottetempo. 2. Michael Heinrich, Karl Marx und die Geburt der modernen Gesellschaft. Band 1: 1818-1843. Biographie und Werkentwicklung,Schmetterling. 3. Adam Tooze, Lo schianto, Mondadori (tr. R. Serrai, C. Rizzo). Se volete le motivazioni: 1. Ho le mie ragioni; 2. Per la dedica di Michael (e non lo leggerete mai in italiano: in inglese, francese, spagnolo sì); 3. Il miglior libro sinora sulla crisi scoppiata nel 2007. Marcello Benfante, narratore, critico e animatore di riviste politico-letterarie. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo Autobibliografia del lettore da giovane (2015) e la nuova edizione di Vorago et Vertigo (2017). Su PalermoGrad dal 2016 per due anni ha condotto la sua esplorazione nel ‘Dopo MassCult e MidCult’, intitolata Si riparla dell’Uomo Ombra. Maria Attanasio, La ragazza di Marsiglia, Sellerio. Vito Bianco, poeta e critico d’arte. Javier Mariás, Berta Isla, Einaudi (traduzione di Maria Nicola). La prosa meditativa del grande spagnolo alle prese con il suo tema dominante, il segreto. Una spy story filosofica che lascia un segno duraturo. Una donna crede di sapere tutto del marito invece non sa quello che dovrebbe sapere. Mariás, sornione, mostra le carte a poco a poco, incantando il lettore con quella sua musica digressiva che o irrita o seduce. Il suo miglior romanzo dopo la trilogia Il tuo volto domani. Francesco Terracina, Una vita in scatola, il Palindromo. Portolazzi come allegoria di un’Italia devastata dal conformismo culturale e politico. Dalla caponata al teatro il passo può essere davvero breve. Un “contesto” tragicomico narrato da un candido dei nostri giorni. Un po’ si ride, un po’ viene da piangere pensando alla città reale vetrinizzata, turistica, con certa classe politica che si ricorda delle periferie solo in campagna elettorale, mentre la scarna prosa satirica dell’autore ci conduce alla nemesi caponatesca del finale. Sarebbe piaciuto al Bianciardi che in un libro memorabile fa le bucce alla Milano del miracolo economico. Donatella Di Cesare, Marrani. L’altro dell’altro, Einaudi. Una brillante disamina storico-filosofica della figura del marrano, costretto alla doppiezza e al culto segreto per sopravvivere in tempo di caccia all’ebreo. Dove tra l’altro si scopre che l’ossessione della limpieza de sangre, fondamento dell’antisemitismo nazista, ha un precedente codificato per legge che risale al 1449. Ma il marrano è, secondo Di Cesare, l’emblema di una ambiguità tutta moderna, e di una libertà vissuta dolorosamente nel segreto dello spazio interiore. “D’altronde è nel sottosuolo, come insegna Dostoevskij, che si prepara la rivolta” (p. 48) Richard Brodie, ARCI Porco Rosso, blogger e traduttore. Scrive per varie testate tra cui Jacobin e PalermoGrad. Rossana Rossanda, Questo corpo che mi abita, a cura di Lea Melandri, Bollati Boringhieri. Peter Ciaccio, pastore presso la Chiesa Valdese di Palermo, ha scritto diversi libri sul cinema; di quest’anno è Bibbia e cinema(Claudiana). Tifa Roma ma non facciamogliene una colpa. Hans Rosling Factfulness. Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo (trad. R. Zuppet), Rizzoli. Domenico Conoscenti, insegnante e scrittore (Quando mi apparve amore, 2016). Mario Valentini, La minuscola, Exorma. Vanessa Ambrosecchio, Cosa vedi, Il Palindromo. Nino Vetri, Suite per quarti di vacca, Il Palindromo. Giovanni Di Benedetto, PalermoGrad-WERT. Tra i suoi libri ricordiamo L’ecologia della mente nell’etica di Spinoza (2009), Luoghi d’artificio (2011, con S. Cavaleri e E. Macaluso) e Un’arte che si impara. Educazione e politica nell’Emilio di Rousseau (2014). L. Althusser, Le vacche nere, Mimesis (tr. di Bruschi-Cavazzini-Turchetto). Simone Weil e André Weil, L’arte della matematica, Adelphi (edizione italiana a cura di Maria Concetta Sala). Mark Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, (tr. di V.Mattioli). David Harvey, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli (tr. di Virginio B. Sala). Wu Ming, Proletkult, Einaudi. Angelo Foscari, PalermoGrad-WERT. In ordine alfabetico per autore, tre autentiche meraviglie: Fulvio Abbate, LOve, La Nave di Teseo. Riccardo Bellofiore, Le avventure della socializzazione, Mimesis. Francesco Saraceno, La scienza inutile, LUISS [Qui recensione]. Alice Gerratana, dirigente “storica” del sindacato STRADE, ora Sezione Traduttori Editoriali di SLC-CGIL. Lita Judge, Mary e il Mostro. Sottotitolo: amore e ribellione. Come Mary Shelley creò Frankenstein. Edizione Il Castoro, traduzione di Rossella Bernascone. Non è un romanzo ma un libro di illustrazioni bellissime accompagnate da testi poetici in cui Mary Shelley racconta in prima persona la sua vita. Letizia Gullo, documentarista. Nel 2014 ha girato insieme ad Ester Sparatore Mare Magnum. Di recente ha lavorato a un lungometraggio in co-regia con Dagmawi Yimer e a un progetto di corti documentari per la televisione in co-regia con Jakob Brossmann. Segnalo il primo romanzo di Eleonora Marangoni, Lux (Neri Pozza). Ida La Porta, associazione WERT. Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell'umanità - Nuova edizione riveduta di Yuval Noah Harari, Bompiani (traduzione di Giuseppe Bernardi). Calogero Lo Piccolo, psicoterapeuta, è tra i curatori di L’Inutile Fatica (2016). Giorgio Falco Ipotesi di una sconfitta Einaudi. Ipotesi di una sconfitta è per tanti versi Il libro. Lo è perché narrazione che attraverso una propria vicenda soggettiva mette a fuoco la patologia massima del nostro vivere oggi: la perdita progressiva e, ad oggi, inarrestabile della perdita di senso del Lavoro. Perdita di senso non solo e non tanto rispetto al rapporto tempo-salario, ma come più generale configurazione di non senso per il lavoratore delle azioni da compiere nel tempo lavorativo stesso per seguire i dettami aziendali. Un vero libro dell’orrore, soltanto che tutto è tremendamente reale. Mark Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax (tr. di V.Perna). Il testo di Mark Fisher è come sempre composito e complesso. Un libro sui libri, e sulla presenza nella letteratura del concetto di Perturbante, nel senso freudiano del termine. Un testo pieno di spunti e di livelli. Marco Palazzotto, PalermoGrad-WERT. Riccardo Bellofiore, Le avventure della socializzazione, Mimesis. A cura di Stefano Petrucciani, Il pensiero di Karl Marx. Filosofia, politica, economia, Carocci (contributi di M.Cingoli, E.Donaggio, L.Basso, R.Fineschi, T.Redolfi Riva, V.Morfino, M. Espinoza Pino, S.Mezzadra, M.Musto, G.Cesarale, S.Petrucciani, A.Palumbo e G.Sgrò). Pavlov Dogg, mascotte e sedicente critico cinematografico di PalermoGrad, nonché traduttore (S.N.Behrman, Duveen. Il re degli antiquari, 2018). Liliana Colanzi, una boliviana di 37 anni che vive da qualche tempo negli Stati Uniti, è considerata tra le più valide e originali narratrici delle due Americhe: ‘Cannibale’ e ‘Chaco’ – due degli otto racconti tradotti adesso in italiano da Olga Alessandra Barbato e pubblicati dalle edizioni Gran vìa, con il titolo complessivo di Il nostro mondo morto – hanno vinto il Premio Internazionale Aura Estrada. Si richiama dichiaratamente alla robustissima tradizione letteraria ispano-americana del Sovrannaturale: non solo Borges e Cortázar, ma anche autrici meno note in Italia, come l’argentina Sara Gallardo (1931-1988) – della quale la Colanzi sta oltretutto curando il ‘ripescaggio’ editoriale – e la coetanea messicana Fernanda Melchor. Oltre alla forza delle storie che compongono il volume, stupiscono la freschezza e il nitore della versione italiana della Barbato, che – se Internet non mi inganna – è alla sua prima pubblicazione. Nessuno dovrebbe avere il diritto di tradurre con tanta efficacia e spigliatezza a inizio carriera!! In merito allo strepitoso romanzo di D.J. Taylor, Rock and Roll is Life: The True Story of the Helium Kids by One Who Was There(Constable) vi rimando alla mia recensione su PalermoGrad [qui la recensione]. E, per concludere alla grande, John Wain, Hurry on Down, Les vies de Charles Lumley (ed. Du Typhon) è la nuovissima edizione francese dell’irrinunciabile Ur-Text dei “Giovani Arrabbiati” degli anni Cinquanta, gli ‘Angry Young Men’, a 65 anni dalla prima pubblicazione. Se non volete leggerlo in francese e nemmeno nell’originale inglese, è tuttora in commercio la traduzione italiana di Stefano Torossi, Un laureato (Sellerio). Salvatore Presti ha scritto Il salto di Leucade. Aspetti e forme del pensiero antico in Giacomo Leopardi [recensito qui]. Segnalo Il tramonto del liberalismo occidentale (Einaudi), in cui Edward Luce mostra come il mercato dimenticando gli ultimi si corrode dall’interno ed è destinato a implodere. Francesco Saraceno, vicedirettore dell’OFCE di Parigi, dove insegna Macroeconomia Internazionale ed Europea. Quest’anno ha pubblicato La scienza inutile (LUISS) [Qui recensione]. I miei due libri dell’anno sono due libri di economia, che mi sono piaciuti moltissimo: Crashed di Adam Tooze, Penguin [ed. it. Lo schianto, Mondadori, tr. R. Serrai, C. Rizz, NdR]; e poi Celi, Giuseppe & Ginzburg, Andrea & Guarascio, Dario & Simonazzi, Annamaria, Crisis in the European Monetary Union. A Core-Periphery Perspective,Routledge. Bill Sheppard, militante del Partito Laburista a Sheffield. Cura la pagina FaceBook ‘Worker Protection’, preziosa fonte di informazione e dibattito sui diritti dei lavoratori nel Dopo-Brexit. A Long Way from Home di Peter Carey, Faber and Faber [l’edizione italiana si intitola Molto lontano da casa, La Nave di Teseo, tr. di E.Malanga, NdR]. Pubblicato in Inghilterra un anno dopo l’uscita in Australia, questo romanzo del due volte vincitore del Booker Prize Peter Carey è stata una vera sorpresa. La quarta di copertina dice che è la storia di una corsa automobilistica in giro per l’Australia, e che è “esilarante”. Perciò ho comprato il libro pensando ad una amena lettura estiva. Ma il vero tema è quello dell’estrema oppressione delle popolazioni indigene negli anni Cinquanta. Sul sedile posteriore di una delle auto che partecipano al rally siede il Navigatore, un tranquillo biondino figlio di un prete anglicano. Quando la corsa raggiunge il Territorio del Nord, il Navigatore desta una forte curiosità negli aborigeni; e al tempo stesso si ritrova escluso dall’accesso agli hotel. Poco a poco si scopre che la madre naturale viveva in un accampamento al limitare di una fattoria di proprietà dei bianchi. E lui apprende che era prassi normale che i piccoli aborigeni venissero prelevati dalle autorità e messi negli orfanotrofi a gestione ecclesiastica. I più “bianchi” tra di loro potevano essere adottati da famiglie di colonizzatori. Il romanzo diventa così la storia di due viaggi: il tour automobilistico e la scoperta delle proprie origini da parte del Navigatore, che diventerà l’unico insegnante in una scuola per bambini aborigeni concentrati in una sola stanza all’interno di un’enorme fattoria gestita da un bianco. I genitori degli alunni lavorano nella fattoria, malpagati o senza remunerazione alcuna. L’amministratore bianco sevizia uno dei bambini, e la fame è sempre nell’aria. Verso la fine del romanzo nelle lezioni del biondino non si celebra più la “scoperta” dell’Australia da parte di Cook, ma si insegna che gli inglesi condussero una vera e propria invasione del continente. E così – sorprendentemente – il romanzo mi ha portato a interessarmi alla vicenda storica dell’Australia negli anni Cinquanta. C’entra anche il fatto che mia moglie è cresciuta in Australia, figlia di un missionario. La famiglia ritornò in Inghilterra quando lei era molto giovane, ma avendo letto il romanzo ci siamo domandati che cosa comportasse davvero fare il missionario. Carey fa anche cenno a dei “comunisti” che cercano di organizzare sindacalmente i lavoratori di colore, ma vengono picchiati a sangue e debbono tornarsene nelle città di provenienza. Ho così scoperto che durante gli anni Cinquanta il governo australiano mise in piedi un referendum per modificare la Costituzione in modo da poter mettere fuor legge il Partito Comunista Australiano. Nonostante un enorme investimento propagandistico, il governo perse di misura quel referendum. Barbara Teresi, scout e traduttrice dall’arabo (Frankenstein a Baghdad di Ahmed Saadawi; I miracoli di Abbas Khider; L’Italiano di Shukri al-Mabkhout); militante di STRADE-CGIL. Segnalo Dispersi, dell'irachena Inaam Kachachi, Brioschi, traduzione dall’arabo di Elisabetta Bartuli. Un libro che racconta con straordinaria delicatezza l’altro lato della migrazione, quello a cui non pensiamo quasi mai, il punto di vista di chi è costretto a partire e lasciare i propri affetti. Maria Turchetto ha insegnato Storia del Pensiero Economico ed Epistemologia delle Scienze Sociali all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia. È presidente dell’associazione culturale “Louis Althusser” e dirige le collane “Althusseriana” ed “Epistemologia” presso la casa editrice Mimesis. Tra i suoi libri ci limitiamo a ricordare: Per una teoria della società capitalistica (1994, con E. De Marchi e G. La Grassa), Carognate, cazzate e consigli (2005) e Economia e società. Otto lezioni eretiche (2017). Collabora a vari periodici fra cui Historical Materialism, Actuel Marx e Il Vernacoliere. Voto ovviamente per Louis Althusser, Le vacche nere, Mimesis (tradotto con Fabio Bruschi e Andrea Cavazzini) e, con un pizzico di anticlericalismo, Marco Marzano, La chiesa immobile, Laterza. Infine Jonathan Silvertown, A cena con Darwin. Cibo, bevande ed evoluzione, Bollati Boringhieri (traduzione di Andrea Migliori). di Pavlov Dogg
60 anni fa, il 20 dicembre del 1958, giungeva nelle sale cinematografiche italiane Dracula il vampiro, versione doppiata di The Horror of Dracula, diretto da Terence Fisher. Questo film è uno dei maggiori classici del cinema dell’orrore e rimane tutt’ora tra i 4-5 migliori in assoluto nel genere strettamente “vampirico”: sicuramente inferiore, a parere di chi scrive, soltanto all’inarrivabile La stirpe dei vampiri, un film messicano diretto l’anno prima da Fernando Méndez, con il supremo Germán Robles nel ruolo del Conte Karol de Lavud. Il successo del film dell’inglese Fisher confermò definitivamente due cose tutt’altro che scontate prima dell’uscita (nel 1956) di La maschera di Frankenstein, dello stesso regista: 1) che i film horror si potevano girare a colori; e 2) che non sapevano farli solo gli americani. Come se non bastasse, Dracula il vampiro lanciò definitivamente la “coppia di fatto” [ovvero non ‘istituzionalizzata’, e certamente non contrassegnata da una ‘&’ commerciale] formata da Peter Cushing (1913-1994) e Christopher Lee (1922-2015). Cushing e Lee avevano già partecipato insieme a ben tre pellicole, senza però interagire nelle prime due, e con una presenza ‘asimmetrica’ – come vedremo – nella terza. Qui invece hanno finalmente pari dignità, essendo rispettivamente l’Eroe e il Cattivo della storia, e con risultati eccezionali. Nella maggior parte dei successivi film girati in coppia, Cushing di norma interpreta il ruolo di un intellettuale ‘europeista’ se non proprio continentale di nascita, alfiere della Razionalità e del Progresso; mentre Lee incarna tendenzialmente l’Oscurantismo e la Reazione, che vesta i panni di un Conte transilvano, di un imprenditore golpista o di un ottuso, piccoloinglese detentore del Potere Culturale. E poco importa che nella vita reale i “ruoli” dei due amici quasi s’invertissero: abbastanza conservatore (beninteso con la ‘c’ minuscola) e strettamente legato al cinema anglo-americano Cushing; giramondo e dalle frequentazioni spesso sinistrorse (in Italia Ciprì, Maresco e Pippo Bisso, nonché il cugino archeologo marxista Andrea Carandini) Lee. Se non li avete mai visti in azione insieme non posso che invidiarvi, dacché vi aspettano ore ed ore di piacevolissime sorprese. Per il Sessantesimo di Dracula il Vampiro ho deciso di rendere omaggio alla più grande coppia horror di tutti i tempi con una Top Ten ragionata, scegliendo in mezzo ai 22 film in cui Cushing e Lee appaiono entrambi. Su questo argomento peraltro esistono già ben tre monografie: il solido, informativo, indispensabile Christopher Lee and Peter Cushing and Horror Cinema di Mark A. Miller (1995) ed il frizzante, stimolante, irresistibile Peter & Chris. I Dioscuri della notte di Franco Pezzini e Angelica Tintori (2010): a questi due libri vi rimando senz’altro per tutte le curiosità e gli approfondimenti del caso, mentre purtroppo non ho letto Los caballeros del terror británico di Juan Manuel Corral (2008). Quanto ai 12 titoli della filmografia del duo che non ho incluso nella mia Top Ten, diciamo che le altre tre regie di Terence Fisher, e cioè La furia dei Baskerville del 1959 (ma il vero Sherlock Holmes “secondo Peter Cushing” è quello della serie televisiva del 1968), Lo sguardo che uccide del 1964 e Demoni di fuoco del 1967, sono guardabilissime, anche se l’utilizzo della coppia Cushing-Lee è in genere asimmetrico e sempre infelice, come pure in La vera storia del Dottor Jekyll di Stephen Weeks (1971), Horror Express di Eugenio Martin (1972) e Il terrore viene dalla pioggia (1973) di Freddie Francis. In Terrore e Terrore di Gordon Hessler (1970) e Il cervello dei morti viventi di Peter Sasdy (1972) si anticipa – ma in maniera meno efficace, sempre per via di un uso errato della coppia Cushing/Lee – il tema della “rivolta delle élites” che sarà proprio dei I satanici riti di Dracula. Mi sento invece di dispensare tranquillamente dalla visione di Controfigura per un delitto (diretto nel 1970 da Jerry Lewis, nel quale i due pronunziano una battuta a testa), Avventura araba di Kevin Connor (1979) e La casa delle ombre lunghe di Pete Walker (1983) chi non si ponesse il problema della completezza assoluta. Un caso a parte è quello di La dea della città perduta di Robert Day (1965) in cui c’è una fortissima “autorialità” indiretta della coppia Cushing-Lee, nel senso che in una sceneggiatura fedelissima al romanzo originale di H. Rider Haggard i personaggi di Holly e Billali furono invece reinventati di pianta per sfruttare la dinamica della coppia, facendone rispettivamente uno scanzonato stoico (Cushing) cui nulla importa dell’immortalità ed un tartufo religioso (Lee) che dissimula un interesse di carattere angustamente personale nei confronti della Vita Eterna. Memorabili gli scontri dialettici tra i due, ma – dopo tanta fatica – l’ultima battuta pronunziata dal personaggio di Cushing (che non svelo) mi sembra rovinare un po’ tutto, facendo scivolare l’equilibrio del film sulla proverbiale buccia di banana. Ed ecco la TopTen, in ordine cronologico (con l’avvertenza che nei primi due film Cushing e Lee non formavano ancora una ‘coppia’ cinematografica neppure a livello informale; ma sono troppo belli per lasciarli fuori): 1. Amleto (1948, di Laurence Olivier) Cushing fa Osric, Lee fa un alabardiere che si unisce a Re Claudius nel reclamare “Luci!!”quando la rappresentazione a corte de La trappola per topi diventa troppo imbarazzante. I due ad ogni modo non hanno neppure una scena insieme. 2. Moulin Rouge (1952, di John Huston) Splendida biografia di Toulouse-Lautrec, che Oswald Morris fotografò nei colori del grande pittore e illustratore. Cushing fa Marcel de la Voisier (rivale in amore di Toulouse) e Lee fa il puntinista Seurat, ma nemmeno stavolta i due si incontrano sul set. 3. La maschera di Frankenstein (The Curse of Frankenstein, 1957, di Terence Fisher) Frankenstein resta l’ambiguo eroe dei “suoi” film, quello per cui “teniamo”, attratti dal connubio di grandezza demoniaca e crudeltà villana… Emanuela Martini, Storia del cinema inglese 1930-1990 (1991) Primo capitolo della trilogia che reinventa il cinema dell’orrore: qui – come poi in Dracula il vampiro e La mummia – l’“autorialità” spetta a tutta quanta l’equipe della Hammer Film (con menzione particolare per i produttori Anthony Hinds e Michael Carreras e per lo scenografo Bernard Robinson), saldamente capitanata da un formidabile triumvirato: il regista Fisher (demiurgo dell’Horror a colori), lo sceneggiatore Jimmy Sangster (grande stravolgitore dei miti del gotico letterario e cinematografico, 50 anni prima che diventasse di moda parlare di rebooting e cose del genere) e l’indiscusso capocomico Peter Cushing (all’epoca divo della TV) che disegna un Frankenstein a metà strada fra un “aristocratico giacobino” e il Dottor Knox, il celebre anatomo-patologo scozzese polemicamente anticlericale, uno di quegli uomini di scienza che “avrebbero potuto essere Darwin”, e che invece incappò nel cosiddetto scandalo dei Resurrectionists (pare si rifornisse di cadaveri presso i tombaroli nonché assassini Burke ed Hare). Cushing (interprete proprio del ruolo di Knox tre anni dopo, in Le jene di Edimburgo di John Gilling) sembra peraltro voler intervenire (con qualche anno di anticipo!) in favore di E.P.Thompson, che in The Peculiarities of the English (1965) cita Darwin e la temperie intellettuale che rese possibile il darwinismo a riprova della valenza rivoluzionaria della cultura borghese britannica, in forte e diretta polemica con la cosiddetta “tesi Nairn-Anderson”. Restando pur sempre Barone, questo Prometeo-Cushing è l’alfiere di una scienza che si fa beffe dell’anima, dell’aldilà e della divinità creatrice; e dopo aver tagliato di persona due o tre teste nel corso del film, finisce egli stesso sulla ghigliottina, come Robespierre. Notevolissimo anche l’apporto di Christopher Lee, che non si lascia schiacciare dal confronto “improponibile” con la Creatura di Boris Karloff e – in un film in cui il protagonista è il Barone/Dottore, ed il “Mostro” ha un peso assai minore rispetto al Frankenstein del 1932 – riesce comunque a commuovere e terrorizzare mimando le movenze di uno spastico. 4. Dracula il vampiro (Horror of Dracula, 1958, di Terence Fisher) La Gran Bretagna non è certo la sola, tra le nazioni europee, in cui l’identificazione delle diverse classi sociali avviene attraverso i differenti modelli sonori del discorso parlato. Ciò che forse distingue davvero gli inglesi è la misura in cui questi modelli, le convenzioni della pronuncia, predominano sugli altri criteri linguistici di differenziazione sociale. È notevole la relativa debolezza della gerarchia linguistica per quanto riguarda la forma sintattica, le modalità espressive, la sostanza del linguaggio, a paragone della morfologia del suono. L’eloquenza retorica e l’ornamentazione stilistica, ad esempio, nella lingua inglese non ricoprono affatto lo stesso ruolo giocato in quella francese. (…) In verità, (…) la coltivazione dell’inarticolatezza sembra essere una spiccata caratteristica della cultura delle classi elevate britanniche. Ad ogni buon conto, in Inghilterra c’è una lunga tradizione di intenzionale semplificazione ed economia linguistiche (…) che ha ristretto alquanto il raggio della differenziazione sociolinguistica, caricando un peso enorme sulla gerarchia delle pronunzie quale mezzo di affermazione del dominio di classe sul terreno della lingua. Ellen Meiksins Wood, The Pristine Culture of Capitalism (1991) “Non ho nemmeno una battuta!” disse (esagerando un poco) Christopher Lee nel fare irruzione nel camerino di Peter Cushing, il primo giorno delle riprese. Proprio su questa laconicità (dopo avere impiegato un sacco di tempo a leggere e rileggere il libro di Stoker, in cui il Conte tutto sommato qualcosina la dice!) d’altro canto, Lee costruirà la sua magistrale (e secondo molti “definitiva”) incarnazione del personaggio, centrando perfettamente il senso della sceneggiatura scritta da Jimmy Sangster. Il quale, per motivi di budget, fu costretto a eliminare del tutto il trasferimento a Londra del vampiro, che pure è la causa motrice della vicenda del romanzo (ma non di questo film) nonché succosa componente della differentia specifica del personaggio-Dracula rispetto ai succhiasangue della letteratura precedente. Ma il colpo da maestro di Sangster è quello di trasformare la vicenda (ri-ambientata in due staterelli confinanti della Germania preunitaria) in una storia di expats britannici, nemmeno si fosse in un romanzo di Graham Greene. Perché, si badi, in questo film tutti i personaggi sono inglesi: inglesi le “amanti” di Dracula Mina e Lucy Holmwood; inglesi il verboso Arthur Holmwood e l’asciutto Dottor Seward; inglese lo sfortunato Jonathan Harker e anglicizzato il suo collega vampirologo Van Helsing (Carreras disse esplicitamente a Peter Cushing di lasciar perdere l’accento esotico impiegato per il ruolo dagli attori delle versioni cinematografiche precedenti); e pure i personaggi minori, in teoria germanici, sfoderano un accento dell’East End da far tremare le finestre. Ma il più inglese di tutti è in definitiva proprio il Dracula di Christopher Lee, che in poche, sentite e perfettamente pronunziate parole comunica a Jonathan Harker di possedere una gran quantità di volumi ancora da catalogare: la maggior parte dei quali in inglese, è lecito supporre, altrimenti perché far venire un bibliotecario apposta da Albione? Insomma, pare proprio che questo conte anglofilo a Londra ci sia già stato, abbia imparato “l’accento inglese” (era il suo sogno nel romanzo!), abbia già compiuto l’agognata (sempre nel romanzo) immersione nella modernità. E che adesso sia pronto a spiegare ai borghesissimi Holmwood (particolarmente azzeccata, quale contraltare al taciturno aristocratico, l’interpretazione “parolaia” di Michael Gough, un attore che faceva economia di mezzi quando recitava nel cinema d’autore, e al contrario negli horror – specie lavorando per la Hammer e per Herman Cohen – gigioneggiava come un pazzo) come per spadroneggiare e sfruttare il prossimo convenga “non scusarsi mai, non fornire mai spiegazioni” (secondo lo scrittore upper class Evelyn Waugh), dire poche parole, le più significative delle quali sono quelle che non si dicono, in un’attentissima – per dirla appunto con Ellen Meiksins Wood – coltivazione dell’inarticolatezza. 5. La mummia (The Mummy , 1959, di Terence Fisher) Mehemet Bey (George Pastell): “Chi deruba le tombe dell’Egitto muore” Ambientato nel 1898, ma girato appena un paio di anni dopo la mortificante ritirata degli inglesi dal Canale di Suez, il terzo e ultimo dei tre capolavori firmati Fisher-Sangster-Cushing (e con un Lee sempre più decisivo ai fini della riuscita del film) che “misero sottosopra” i miti dell’horror d’oltreoceano (ovvero Frankenstein, Dracula e la Mummia messi in scena dalla Universal negli anni Trenta) fa i conti – e nemmeno troppo obliquamente – con l’Egitto di Nasser e più in generale con il processo di liquidazione dell’Impero Britannico. Nei termini, beninteso, di un cinema profondamente popolare: ma proprio per questo, considerati race, milieu et moment d’origine, è davvero sbalorditiva la distanza del film da una logica imperialista e perfino neocoloniale. Certo, Peter Cushing (nel ruolo dell’archeologo inglese John Banning) fa ancora una volta da portabandiera del razionalismo e Christopher Lee (nel ruolo del titolo) è evidentemente una forza del passato. Ma stavolta la materia del contendere è un’altra: le sacrosante istanze di autodeterminazione nazionale, incarnate con grande forza dalla maiuscola interpretazione di George Pastell (nome d’arte dell’attore cipriota Nino Pastellides), che si presenta pronunziando la battuta citata sopra togliendo ogni enfasi a “le tombe”, talché la frase suona piuttosto come: “Chi deruba l’Egitto muore”. Banning/Cushing vorrebbe liquidarlo inquadrandolo come un fanatico religioso punto e basta; lo provoca affermando che il culto di Karnak è una religione “cretina” (questa l’ho sentita da qualche altra parte), ma Mehemet Bey/Pastell ha buon gioco a dargli dell’“intollerante”, ricordandogli che la forza di un credo religioso sta nell’intensità del sentimento che è capace di suscitare. Si è discusso parecchio sul significato del fatto che Banning è uno zoppo, ma è ovvio a chi veda il film che la menomazione del personaggio interpretato da Cushing è strategicamente fondamentale affinché le simpatie dello spettatore non vadano al 100% al disgraziatissimo, sottomesso, quasi fantozziano Kharis di Christopher Lee (qui più che mai strepitoso nel recitare attraverso l’uso del corpo). Infatti la lesione permanente, che è colpa dello spietato, indifferente padre-padrone, esponente da manuale dell’“imperialismo archeologico” di marca britannica, fa – nell’economia del film – di Banning Jr. un’altra vittima del colonialismo. Se poi pensiamo che ancora nel 1946 l’ambasciatore Lord Killean spiegava che “Gli egiziani sono come i bambini” e che qualche anno dopo la stampa britannica paragonava ritualmente Nasser ad Hitler (anche questa qui l’ho sentita da qualche altra parte) l’onestà di prospettiva di questo film Hammer risulta davvero notevole. Menzione speciale, infine, per l’ammaliante musica di Franz Reizenstein. 6. Le cinque chiavi del terrore (Dr Terror’s House of Horrors, 1965, di Freddie Francis) Marsh (Cristopher Lee): “E questo… che cosa dovrebbe significare?” Landor (Michael Gough): “Nulla di specifico… lo spettatore dovrebbe reagire al dipinto, creare il proprio significato a partire dalla propria esperienza… ognuno ci vedrà qualcosa di diverso”. Marsh: “In altre parole, non significa assolutamente niente”. Primo film girato in coppia per la Amicus, casa di produzione rivale della Hammer, creata a Londra dagli americani Max Rosenberg e Milton Subotsky. L’ex-montatore Subotsky era la personalità dominante a livello creativo e tutto il suo cinema – vera e propria Apologia della poesia in chiave horror – consiste in una serie di variazioni (più o meno sottili) sul tema del cautionary tale, l’“aneddoto ammonitore”, in cui il male sta tutto nell’anima degli “avvertiti” di turno (ed eventualmente in quella dello spettatore cinematografico), laddove l’elemento “mostruoso” (lettore di tarocchi, teschio maledetto, casa infestata, eccetera eccetera) è in effetti la superficie riflettente delle sociopatie dei protagonisti. Le cinque chiavi del terrore inizia con un apparente rovesciamento dei ruoli abituali all’interno della nostra coppia: Cushing è l’esotico cartomante Dottor Schreck, mentre Lee è Franklyn Marsh, un critico d’arte dell’establishment, freddo razionalista. “I tarocchi? Ve lo dico io che cosa significano: assolutamente niente” annunzia Marsh quando Schreck inizia a leggere nelle carte il futuro dei suoi cinque compagni di scompartimento ferroviario. Ma siccome ci troviamo in un film scritto da Subotsky, il punto è che i tarocchi sono soltanto una provocazione, un accorgimento da psicoterapeuta per convincere i cinque a guardare dentro se stessi e, se ancora possibile, cambiar vita. L’émigré mitteleuropeo Cushing si illude dunque – per adoperare le parole di un Salman Rushdie di tanti anni fa – di poter fare appello, nella persona di Marsh/Lee, a quella cultura inglese “scettica, che si interroga, radicale, riformista, libertaria, non-conformista”: e invece nisba, si ritrova davanti il muro del piccolo-inglese intellettualmente dogmatico e arrogante. Per chi fosse un po’ lento di comprendonio, Subotsky fa ripetere a Christopher Lee la stessa identica battuta (“non significa assolutamente niente”) a mo’ di reazione tanto ai tarocchi di Cushing/Schreck (nella “cornice” del film) che all’action painting di Michael Gough (nell’episodio specificamente dedicato a Marsh). Ma non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere… 7. Il teschio maledetto (The Skull, 1965, di Freddie Francis) Data la presenza nel cast di Peter Woodthorpe (Estragone nella prima rappresentazione inglese del Godot) e di Patrick Magee (l’attore preferito di Beckett, che scrisse apposta per lui L’ultimo nastro di Krapp) questo film della Amicus (che in Francia uscì come Les Forfaits du Marquis de Sade) si potrebbe ribattezzare Waiting for de Sade. E in effetti il Marchese vi appare e non vi appare: diverse scene sono inquadrate dal punto di vista del “suo” teschio (che è però anche il punto di vista dello spettatore “guardone”), ma quando finalmente (in una scena onirica e muta in cui Peter Cushing viene costretto a giocare alla roulette russa, assente dal racconto di Robert Bloch da cui è tratto il film) compare qualcuno che potrebbe proprio essere Sade, questi porta sul capo un’equivoca parrucca, che somiglia tanto a quella di un giudice inglese quanto a quella dell’iconografia del “Divino Marchese”. Una vera beffa di Subotsky ai danni dell’autore de Il giudice beffato; e si aggiunga che, in un film dal cast stellare, in cui per il ruolo di Sade si sarebbe potuto scegliere tra Cushing, Lee (qui nella parte di un nobile inglese che crede nel satanismo), Magee (che proprio in quei giorni faceva il Marchese a teatro, nel Marat/Sade di Peter Weiss), Michael Gough, Nigel Green, Patrick Wymark (qui grandioso nel ruolo del loschissimo antiquario Marco) nonché George Coulouris, questa efficace incarnazione dell’ideologia sadiana dell’arbitrio spetti invece al tutt’altro che celeberrimo caratterista Frank Forsyth, qui nel ruolo della vita. Trattando non di de Sade, quanto piuttosto della fascinazione degli intellettuali degli anni Sessanta nei confronti di de Sade (come a un certo punto Peter Cushing dice a chiare lettere: e non si può dire che Subotsky non spieghi sempre per benino l’intenzione dei suoi film) Francis, Cushing, Lee e la Amicus scansano oltretutto il rischio di fare un film pornografico e/o estremamente violento. Chi si lamenta perché alla fine si vedono i fili che reggono il teschio non ha capito proprio nulla. 8. La casa che grondava sangue (The House That Dripped Blood, 1971, di Peter Duffell) Entra nella Top Ten superando al fotofinish La dea della città perduta per i motivi spiegati prima. In questo film a episodi targato Amicus e scritto da Robert Bloch, Peter Cushing non riesce a tenersi alla larga da un museo delle cere di provincia, in cui è presente la statua di un Dracula-Lee. Nell’episodio con Christopher Lee, ad ogni modo, si scopre che chi di statua ferisce di bambola perisce… 9. 1972: Dracula colpisce ancora! (Dracula A.D. 1972, 1972, di Alan Gibson) Ambientato – non inaspettatamente – nel 1972. Non sarà un capolavoro, ma non vorrete perdervi la scena conclusiva, in cui i due attori ormai ultracinquantenni si inseguono con l’affanno, paonazzi in volto e scarmigliati. 10. I satanici riti di Dracula (The Satanic Rites of Dracula, 1974, di Alan Gibson) Denham:“Il nostro gruppo è certo che la decadenza di questi nostri tempi possa e debba essere fermata. Si è progettato un nuovo regime politico, che dia peso alle nostre ragioni… a volte è necessario esser persuasivi”. Christopher Lee fece di tutto perché non uscisse con il titolo di lavorazione (Dracula is dead and well and living in London), dato che non si tratta di una pellicola comica: ma non è che il titolo definitivo sia gran cosa. Film “lib-lab” se mai ve ne fu uno, potrebbe intitolarsi qualcosa come D, l’orgia del potere oppure El golpe del vampiro, trattandosi della risposta di Cushing e Lee al clima politico di quegli anni, che (dopo i colpi di stato in Grecia e in Cile) minacciava svolte autoritarie un po’ in tutto l’Occidente: Regno Unito compreso, con voci assai insistenti proprio in quel tormentatissimo 1974 delle due elezioni politiche nello stesso anno. La risposta di Enrico Berlinguer allo stesso frangente, per intenderci, fu la tesi del Compromesso Storico. La politica delle alleanze anche nel film all’inizio è eccessivamente ampia; ma il Fronte Popolare capeggiato da Cushing (che, come nel film precedente, interpreta il ruolo di un intellettuale europeista pronipote di Van Helsing, mentre Joanna Lumley rappresenta le masse giovanili e Michael Coles è il poliziotto democratico) ritrova equilibrio allorché vengono fatti morire i due stronzissimi esponenti dei Servizi Segreti che partecipano anch’essi (però con raro cinismo) alla lotta contro il piano di rinascita nazionale – ma che dico, planetaria – del gruppetto di figure dell’establishment strette intorno a Dracula. La scena in cui si incontrano Cushing e Lee mette profondamente a disagio per come fa pensare a Pinochet e dintorni; molto originale poi la sequenza della morte del vampiro. di Marcello Benfante
Luciano Bianciardi (Grosseto 1922 - Milano 1971), insegnante elementare, bibliotecario, giornalista, traduttore, scrittore, intellettuale anticonformista, refrattario a qualsiasi omologazione, compresa quella del successo, è stato, da antagonista, da ribelle, daoutsider, una delle figure più significative della cultura italiana negli anni del cosiddetto boom economico. Di Bianciardi, dopo libri controcorrente e di radicale spirito oppositivo come Il lavoro culturale (1957) e La vita agra (1962), era apparso nel 1969, per l’editore Bietti di Milano, Daghela avanti un passo!, singolare manualetto che potremmo definire di divulgazione storica e di agiografia garibaldesca, che ora viene recuperato da Minimum fax con il nuovo titolo di Antistoria del Risorgimento (1), mentre quello vecchio è conservato come sottotitolo. Di “antistoria”, in verità, c’è poco e niente, appena qualche scrupolo di cattiva coscienza nei confronti del Mezzogiorno tradito (mai comunque in termini così espliciti). Per il resto vi troviamo gran parte della tradizionale mitologia del Risorgimento scolastico, ancorché vista in un’ottica schiettamente garibaldina e anti-cavouriana (che è già qualcosa di più accettabile e digeribile, rispetto al punto di vista savoiardo, militarista e coloniale). Nato come libro scritto “per i ragazzi della scuola media”, Daghela avanti un passo! rivela nel suo andamento combattivo l’intento di essere avvincente come un romanzo avventuroso. E tale sembrò al figlio di Bianciardi, Marcellino, che gratificò il padre con uno straordinario complimento: “Sei più bravo di Salgari”. Di salgariano c’è soprattutto un invincibile e irrefrenabile Garibaldi-Sandokan, con i suoi mille tigrotti alla conquista di una Sicilia-Mompracem. D’altronde, Bianciardi parte dal presupposto che “Garibaldi, nel nostro Risorgimento rappresenta l’elemento popolare”, a cui egli guarda con un sentimento di viva simpatia e di incommensurabile ammirazione. A questo benevolo folclorismo, Bianciardi aggiunge l’ammissione apparentemente smitizzante che molti dei più celebri episodi dell’epopea risorgimentale “paiono immaginati da un umorista di acuta fantasia” (e in questa chiave furono narrati, per esempio, da Umberto Domina, uno scrittore e umorista siciliano). Ma Bianciardi, seppure talora tentato da alcune sottolineature comiche, non persegue la strada della parodia, insistendo anzi su una meticolosa ricostruzione documentale. Sennonché, il libro nel suo insieme non funziona, né da un punto di vista propedeutico-didattico, né tanto meno come interpretazione storico-politica del “miracolo” risorgimentale. Non funziona, in primo luogo, perché Bianciardi è troppo preso da un’analisi prettamente bellica, cioè da una descrizione cavillosa dell’andamento delle battaglie, a scapito di una restituzione più ampia delle dinamiche culturali e sociali. Ma soprattutto bisogna dire che la sua presunta “antistoria” non convince perché si basa su una visuale esclusivamente nordista, a senso unico, che compromette la credibilità e l’equanimità del racconto. E ciò fin dall’inizio, ovvero dalla scelta assai opinabile di cominciare la narrazione dalle eroiche cinque giornate di Milano. Ora, se poniamo il ’48 come incipit della questione risorgimentale (e non, per esempio, i moti del 1820-21 o del 1830-31), allora dobbiamo cominciare da Palermo, la cui sollevazione il 12 gennaio del ’48, diede la stura alla “Primavera dei popoli”, cioè a tutte le rivoluzioni europee di quell’anno memorabile (che non a caso è anche l’anno di pubblicazione del Manifesto di Karl Marx e Friedrich Engels). Non si tratta ovviamente di rivendicare un primato regionale o di campanile, bensì di porre l’attenzione su quello spirito indipendentistico e anti-borbonico dei siciliani senza il quale non sarebbe stata mai possibile la spedizione dei Mille, né mai avrebbe potuto riuscire vittoriosa. Con lo sbarco di Garibaldi a Marsala, scrive lo storico Salvatore Lupo nel suo L’unificazione italiana (2), la “rivoluzione siciliana che da quarantacinque anni si confronta con Napoli trova il sostegno di quella pan-italiana”. E viceversa, potremmo aggiungere, la causa italiana trova nei siciliani un alleato determinante al buon esito della spedizione garibaldina. Ma su questo punto cruciale occorrerà tornare appresso con una più accurata disamina. Nella mitografia bianciardiana di un Garibaldi onnipresente e onnipotente, che è un modo superomistico e quasi dannunziano di rappresentare il genio e l’ardimento dell’eroe dei due mondi, stranamente vengono eluse proprio le Memoriedi Garibaldi a vantaggio probabilmente delle Noterelledi Giuseppe Cesare Abba (oltre ovviamente a I Mille, da Genova a Capuadel toscano Giuseppe Bandi). E cioè a conforto di una direzione interpretativa che tende costantemente a escludere o a sminuire il contributo dei meridionali al Risorgimento intero e perfino all’abbattimento stesso del Regno Borbonico. Bianciardi omette di dire, sicuramente in buonafede, ma con una rivelatrice disattenzione, che l’impresa dei Mille, ossia la spedizione in Sicilia alla maniera di Pisacane però con l’appoggio di una rivolta isolana, peraltro già poco prima tentata da Francesco Riso, era un progetto siciliano che prevedeva appunto l’azione congiunta di una sollevazione interna e di un intervento esterno. Questo punto - il chiarimento esplicito di questo punto - è ovviamente fondamentale. Perché la chiave di volta del successo dei garibaldini è proprio in Sicilia, dove, a causa del diffuso risentimento contro i Borbone, era assai improbabile che un corpo di spedizione italiano potesse incorrere nell’ostilità della popolazione e subire l’atroce disfatta di Pisacane a Sapri e dei fratelli Bandiera a Cosenza. La relativa esiguità dei siciliani tra i Mille (45, di cui tre, ossia Crispi, La Masa e Carini, con funzioni di comando) si spiega infatti con la necessità di molti patrioti isolani di preparare in loco le condizioni favorevoli allo sbarco e all’avanzata dei garibaldini (Rosolino Pilo, Giovanni Corrao e Luigi La Porta sono preposti a organizzare le squadre per questo scopo). In Bianciardi, come già in Abba, questo aspetto della questione non emerge. E se Abba apre il suo Da Quarto al Volturno (3) con la canzonatura piuttosto irritante di certe incredibili dicerie secondo cui i rivoluzionari siciliani erano una massa sterminata (“Trentamila insorti accerchiano Palermo: non aspettano che un capo, Lui!”), Bianciardi si tiene sul vago con una certa reticenza: “Così attorno a Garibaldi si affollavano in tanti, a chiedere che finalmente si facesse questa benedetta spedizione. Più di tutti premevano gli esuli siciliani, come Francesco Crispi e Giuseppe La Masa”. I siciliani, dunque, sono soltanto coloro che premono un po’ più degli altri affinché la spedizione avvenga, non gli ideatori e promotori della spedizione medesima, proposta a Garibaldi come un piano che puntava sullo stato endemico in Sicilia della ribellione antiborbonica. Scrive infatti Salvatore Lupo sulle ambasce e dilemmi di Garibaldi alla vigilia della spedizione: “Fu allora che lo contattarono due patrioti siciliani di ispirazione democratica, che avevano avuto un ruolo importante nel ’48, che avevano alle spalle più di un decennio di esilio. Il primo era un aristocratico, Rosolino Pilo, il secondo un avvocato, Francesco Crispi. I due cercarono di convincerlo a organizzare una spedizione in Sicilia, a sostegno di una insurrezione popolare”. Questa espropriazione non è differenza di poco conto. Soprattutto se si considera il resoconto dell’impresa che fa Bianciardi, in cui i siciliani (come poi i meridionali tutti) scompaiono quasi interamente dalla scena o, peggio ancora, sono oggetto di denigrazione. “Il primo incontro coi siciliani fu, com’era prevedibile, una mezza delusione”, dice Bianciardi. Il che sarebbe pure accettabile se la delusione consistesse in una scarsa partecipazione e adesione della plebe, cosa che in effetti si verificò in un primo tempo. Il popolo siciliano, pur non essendo maldisposto nei confronti dei garibaldini, si mantenne dapprima in un atteggiamento di scettico attendismo, che muterà soltanto dopo la clamorosa e inaspettata vittoria di Calatafimi. Ma la delusione a cui accenna Bianciardi è invece etnico-culturale. I siciliani si esprimono in modo incomprensibile: “Parlano una lingua che pare albanese” (e opportunamente Bianciardi commenta che questa osservazione era stata detta da un bergamasco, che “non parlava, dunque, neanche lui, un italiano perfetto”). A sgomentare è pure l’ambiente geografico: “Il paesaggio ricordava l’Africa. Altro che terra dei Vespri e di Cerere!”. I patrioti venuti a liberare la Sicilia e il Meridione dalla tirannide e dal malgoverno dei Borbone, di fronte allo scenario di una miseria primordiale, non sembrano trovare di meglio da dire e da fare che questi sprezzanti commenti. D’altronde, anche per Abba i siciliani sono sostanzialmente dei selvaggi dediti all’ozio. Molto più empatico e cordiale, anche se forse con un pizzico di ipocrisia ideologica, è il tono delle Memorie(4) di Giuseppe Garibaldi: “La popolazione di Marsala, attonita dall’inaspettato evento, non ci accolse male. Il popolo ci festeggiò. I magnati fecero le smorfie. Io trovai tutto ciò molto naturale (…) Il povero popolo all’incontro ci accolse plaudente, e con segni manifesti d’affetto”. Il clima del primo contatto con i siciliani è dunque di una confortante solidarietà. E anche la partecipazione dei volontari non si fa attendere troppo: “Il 13 marciammo a Salemi, ove fummo bene accolti dalla popolazione, ed ove cominciarono a riunirsi a noi le squadre dei S. Anna d’Alcamo, ed alcuni altri volontari dell’isola”, scrive ancora Garibaldi. Non è ancora un’adesione massiccia, ma sarà bene ricordare allora che tutto il Risorgimento fu un movimento minoritario, d’élite, e che anzi proprio la collaborazione dei meridionali all’impresa garibaldina fu uno dei pochi episodi di partecipazione di massa ai moti insurrezionali. Tuttavia, a Calatafimi le forze indigene, se costituiscono ancora un modesto numero, sono già in grado di dare un contributo significativo. Secondo Bianciardi, “le squadre di volontari siciliani, che se n’erano rimaste a guardare sui colli circostanti, solo all’ultimo momento si precipitarono a valle sparacchiando per aria”. Il loro contributo fu dunque tardivo e inefficace, per non dire vile e ridicolo. Intanto, Bianciardi confonde, forse per un mero pregiudizio che non sarebbe del tutto erroneo definire razzista, l’atteggiamento della popolazione, per lo più costituita da pastori o contadini, con quello dei volontari riuniti al corpo dei Mille. In secondo luogo, nelle Memoriedi Garibaldi, il ruolo complessivo dei siciliani all’esito favorevole della battaglia è considerato assai diversamente: Il primo risultato importante fu la ritirata del nemico da Calatafimi, che noi occupammo nella mattina seguente: 16 maggio 1860. Il secondo risultato, molto valevole, fu l’assalto dato dalle popolazioni di Partinico, Borgetto, Montelepre ed altre sul nemico che si ritirava. In ogni parte, poi, si formavano squadre, si riunirono a noi, e l’entusiasmo in tutti i paesi circonvicini giunse veramente al colmo. Il nemico, sbandato, non si fermò fino a Palermo, ove portò lo sgomento nei borbonici, e la fiducia nei patrioti. Questo passo delle Memoriedescrive chiaramente l’assalto spontaneo della popolazione, presumibilmente sprovvista di armi vere e proprie, sui soldati borbonici che ripiegavano. Assalto così impetuoso e feroce, sebbene disorganizzato e privo di strategia, da mettere in rotta l’esercito e causargli lungo la ritirata notevoli perdite. E distingue altresì la popolazione dai volontari riuniti in squadre e arruolatisi nelle schiere garibaldine. Altra cosa ancora erano inoltre i patrioti siciliani che già prima si erano organizzati per preparare la presa di Palermo. Anche la conquista della capitale è occasione per Bianciardi per minimizzare il ruolo dei siciliani, dandone peraltro una raffigurazione grottesca di primitiva goffaggine: “i picciotti correvano per le strade urlando e agitando i fucili, che avevano appiccicata sul calcio l’immagine di Santa Rosalia”. Anziché combattere, corrono e urlano, limitandosi ad agitare i fucili e contando superstiziosamente sul potere taumaturgico della “santuzza”. Anche della sollevazione dei palermitani si fa solo qualche vago cenno: “Mille uomini male in arnese, con l’aiuto determinante della popolazione, avevano disfatto un’armata”, scrive Bianciardi. Ma i Mille non sono più mille. Molti sono morti in battaglia. Molti altri si sono uniti a loro come volontari. E poi, se la popolazione non fosse insorta, la conquista di una grande città come Palermo, tra le maggiori in Italia, con quasi 200.000 abitanti, sarebbe stata un’impresa impossibile per una forza così esigua. Ma il popolo si ribella, erige ovunque un gran numero di barricate e praticamente costringe i ventimila soldati borbonici a ritirarsi dalla città, non rischiando il combattimento per le strade, e ad asserragliarsi nel Castellammare e in altri punti strategici da cui cannoneggiano gli insorti, distruggendo case e massacrando civili. Sull’importanza della sollevazione popolare Garibaldi è chiarissimo: “Non gran contingente di armati ci diede la città di Palermo, giacché i Borbonici avevano avuto gran cura di tenerla assolutamente inerme; ma convien confessare, l’entusiasmo di quei bravi cittadini mai venne meno, né per i sanguinosi combattimenti delle vie, né per il feroce bombardamento della flotta nemica, del forte di Castellamare, e del Palazzo reale. Anzi, molti, per mancanza di fucili, si presentarono a noi armati di pugnali, coltelli, spiedi e ferri di qualunque specie. I picciotti delle squadre si battevano anche loro con bravura, e supplivano al decimato numero dei Mille”. Palermo combatte quindi all’arma bianca, con furore, ma soprattutto innalza una folta serie di barricate per ostacolare le truppe nemiche, intercettare i colpi di cannone, oscurare e proteggere gli obiettivi strategici. Scrive ancora Garibaldi: “Le barricate uscivano da terra come per incanto; e Palermo diventò assiepato di barricate (…) Il valore dei Mille, ed in generale dei difensori di Palermo, era stato grande. Il loro contegno e quello della popolazione non s’erano smentiti un momento. Si era disposti, in fatto, di seppellirsi sotto le ruine della bellissima capitale”. E della violenza dei bombardamenti testimoniano le fotografie di Eugène Sevaistre che mostrano una città devastata e dilaniata. Ma di tutta questa rivoluzione Bianciardi non fa che un rapido e incidentale accenno. E si sofferma invece a ricordare che “molti dei picciotti, una volta liberata Palermo, convinti che la loro guerra, la guerra di liberazione siciliana, fosse finita, se ne tornarono a casa”. Fatto che è anche vero, ma che pone altresì una questione aritmetica. I garibaldini, ormai da intendere in senso lato, infatti crescono costantemente di numero, e non solo grazie a rinforzi esterni. Giunge un contingente dal nord: duemilacinquecento volontari, salpati da Cornigliaro sotto il comando di Giacomo Medici (e Bianciardi lo annota diligentemente, come a sottolineare che la Sicilia, lungi dall’autoliberarsi, è liberata da una serie di interventi extra-insulari). Garibaldi, anche a questo proposito, registra una realtà del tutto differente che precede la decisiva battaglia di Milazzo: “Si aprirono dunque gli arruolamenti in Palermo e in ogni parte dell’isola, sgombra dai Borbonici. Si contrattarono delle armi al di fuori. Si stabilì una fonderia nella capitale; e si lavorò indefessamente a far polvere ed a costruire cartucce. Palermo, piazza d’armi del despotismo, divenne in pochi giorni un semenzajo di militi della libertà. Che bel vedere, nelle ore fresche della giornata, quei vispi giovani figli della Trinacria all’esercitazioni militari con uno slancio, una volontà, da consolare l’anima del veterano, per cui l’Italia redenta fu sogno di tutta la vita”. Le defezioni sono dunque poca cosa rispetto alle adesioni (anche Abba rileva in data cinque luglio l’abbandono di “un mezzo centinaio” di siciliani giunti da Palermo a Caltanissetta). In realtà sta prendendo ormai una precisa fisionomia un vero e proprio “Esercito meridionale” che alla fine della campagna garibaldina, dopo la vittoria sul Volturno, conterà 50.000 soldati, e secondo lo storico Paul Ginsborg addirittura 60.000 (5). Va da sé che questa considerevole massa di combattenti è formata in grandissima parte da uomini del sud disposti a seguire Garibaldi in capo al mondo e fino alla morte. Bianciardi, che è stato capace di definire i fatti drammatici di Bronte “un fastidioso e doloroso impiccio”, si ostina ancora, a conclusione del suo racconto dell’impresa garibaldina, a escludere il concorso delle genti del sud e in pratica l’esistenza stessa dell’Esercito meridionale, che invece è un fenomeno magmatico (tra abbandoni e nuove adesione) ma in continua crescita: “In quattro mesi mille ragazzi avevano sconfitto o disperso un esercito considerato fra i più forti d’Italia, e conquistato un regno di nove milioni di abitanti”. È da questo tipo di miopia politica, per non dire cecità, da questa incapacità perfino a fare di conto, che comincia l’asservimento del Mezzogiorno, la sua annessione autoritaria. Quella sul Volturno è una formidabile battaglia tra due grossi schieramenti. Bianciardi, che fino a questo punto è stato come ammaliato e abbagliato dalla figura carismatica di Garibaldi, comincia finalmente a denunciare le storture fatali che hanno caratterizzato l’unificazione del paese e la nascita del Regno d’Italia: i brogli dei plebisciti, la pretesa (espressa in una lettera di Pantaloni a Cavour) di possedere un “coraggio più grande”, una “superiore intelligenza” e un “carattere” tale da poter governare e domare le regioni meridionali. Di sottometterle quindi, imponendo l’ordine piemontese alla loro maggiore corruzione con la “forza morale e, se questa non basta, con la fisica” (e queste sono espressioni dello stesso Cavour). Per Bianciardi si tratta di “atteggiamenti sprezzanti, tirannici e perfino razzisti” che non potevano non provocare un profondo conflitto tra le due parti della neonata nazione. Ma troppo tardi se ne accorge, dopo che lui stesso ha esautorato il sud dalla sua grande opera di liberazione ed emancipazione, che certamente non poteva realizzarsi senza l’autorevolezza di Garibaldi, vero e proprio deus ex machina, ma che Garibaldi non avrebbe mai potuto realizzare senza che le masse meridionali credessero nella folliadella rivoluzione (intesa nei più diversi modi) e la inverassero con la loro sollevazione. Ma queste masse sono state defraudate di ogni forma di protagonismo. E quindi condannate a un’infame sudditanza. “Tutto ciò non potremmo spiegarcelo, se non ragionando che l’unità fu fatta male. Contro Garibaldi”, conclude Bianciardi, tornando alla sua ossessione mitopoietica per il condottiero nizzardo. Contro il meridione, piuttosto. E contro l’idea, per quanto improbabile, della Repubblica democratica: il grande spettro da esorcizzare e prevenire. Anche Bianciardi ne è, in una certa misura, consapevole quando afferma: “La verità è che il Risorgimento fece l’Italia quale ce la siam trovata noi italiani, lacerata e divisa. Divisa fra italiani ricchi e italiani poveri. Fra italiani del Nord e italiani del Sud. Fra italiani dotti e italiani analfabeti. Tutte divisioni che oggi noialtri italiani, faticosamente, penosamente, stiamo cercando di colmare”. Che è un giudizio da cui trapela un cauto ottimismo riformista, forse non del tutto infondato, ma certamente ignaro di come la questione meridionale (dopo la repressione dei moti contadini con giustizia sommaria e marziale, l’intervento dei cinquantamila bersaglieri di Cialdini a reprimere manu militariil brigantaggio e le popolazioni meridionali, i tragici eventi di Aspromonte, la rivolta palermitana del sette e mezzo e così via) si sarebbe fatalmente incancrenita e impantanata, fino a essere soppiantata da una sedicente questione settentrionale come in una specie di circolo vizioso. Note bibliografiche 1. Luciano Bianciardi, Antistoria del Risorgimento - Daghela avanti un passo! Minimum fax, Roma, 2018. 2. Salvatore Lupo,L’unificazione italiana, Roma, Donzelli, 2011. 3. Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno, Palermo, Enzo Sellerio editore, 1993. 4. Giuseppe Garibaldi, Memorie, Milano, Rizzoli (BUR), 1982. 5. Paul Ginsborg,Salviamo l’Italia, Torino, Einaudi, 2010. di Cinzia Arruzza
Il 23 ottobre scorso, migliaia di lavoratrici delle pulizie di Glasgow, hanno dato il via alla manifestazione sindacale per la parità salariale organizzata da PSI, Unison e GMB Union con un minuto di silenzio, in ricordo delle lavoratrici morte prima di poter vedere il giorno in cui al proprio lavoro venisse finalmente accordata la stessa dignità e lo stesso valore del lavoro dei propri colleghi uomini. In questo atto si esprimeva piena consapevolezza di una lunga storia fatta di umiliazioni grandi e piccole, di lavoro invisibile, non riconosciuto o sottopagato, di ingiustizie e meschinità, così come dell’enormità della sfida lanciata con lo sciopero delle donne. Parità salariale: un obiettivo ragionevole, quasi banale, e tuttavia così difficile da realizzare. A tal punto che il Forum economico mondialeha calcolato che – sulla base delle tendenze e dei dati attuali – ci vorranno almeno 217 anni perché si possa finalmente colmare il gap salariale tra donne e uomini a livello globale. Ammesso che il mondo sia ancora abitabile tra 217 anni. Una settimana dopo lo sciopero e i picchetti di Glasgow, migliaia di lavoratrici e lavoratori di Google, da Tokyo a New York, hanno abbandonato le proprie scrivanie e postazioni e sono scesi in piazza a protestare in risposta a una serie di rivelazioni pubblicate dal New York Times, concernenti casi di molestie sessuali perpetrate da diversi manager del gigante hi-tech e tenute convenientemente sotto silenzio. Non a caso: Google, al pari di altri giganti dell’economia digitale come Facebook, indossa da anni la maschera del capitalismo progressista, quello che sfrutta, sì, ma senza far discriminazioni tra donne e uomini, trans e cis, gay ed etero, e anzi è contento di pagare i costi di congelamento degli ovuli e tecniche di riproduzione assistita. La protesta, tuttavia, non si è limitata alla denuncia dei casi di molestie sessuali sul lavoro, ma ha articolato una serie di rivendicazioni tra le quali spiccava la richiesta di protezioni e diritti sindacali. Come ha scritto Moira Donegan su The Guardian, la protesta ‘ha puntato il dito con chiarezza ammirevole sull’interdipendenza di ineguaglianze di genere e di classe, e accenna alla possibilità di un tentativo di sindacalizzazione tra gli impiegati del settore digitale.’ Questi due scioperi, gli ultimi di una lunga serie di scioperi aventi donne come protagoniste, dagli scioperi internazionali dell’8 marzo a quelli delle lavoratrici del settore alberghiero e dell’istruzione negli Stati Uniti, ci pone di fronte a un apparente dilemma. Di cosa stiamo parlando, quando parliamo di scioperi delle donne? Di lotta di classe o di una nuova ondata femminista? La terza ondata femminista Dopo più di due anni di mobilitazioni a livello internazionale, due scioperi transnazionali dell’8 marzo, la recente espansione del movimento in Cile, dove un’ondata di occupazioni e scioperi contro le molestie e la violenza sessuale ha investito scuole e università in tutto il paese, e in Brasile, dove l’hashtag #EleNao, lanciato da alcune celebrità femminili in risposta all’ascesa elettorale di Jair Bolsonaro, hainnescato un processo di mobilitazione femminista sfociato in una serie di manifestazioni di massa, è arrivato il momento di dire chiaramente che ci troviamo nel bel mezzo di una nuova ondata femminista. Un’ondata che ha al suo interno articolazioni politiche e su base geografica diverse e anche divergenti, ma che nel suo insieme ha posto questioni come la violenza di genere, le disparità salariali, i diritti riproduttivi e il lavoro di riproduzione delle donne, così come le libertà sessuali, al centro del dibattito politico e culturale di ogni singolo paese investito dalle mobilitazioni. Per cogliere fino in fondo la dirompenza di questo fenomeno, però, è bene fare un po’ di chiarezza sui termini. Quella attuale non è laquartao addirittura la quintaondata femminista. È la terzae arriva dopo ben quarant’anni dalla fine della seconda. Negli scorsi decenni c’è stata una certa tendenza a dare l’etichetta di ‘ondata femminista’ a movimenti di pensiero, che hanno avuto luogo soprattutto all’interno delle aule universitarie e dei loro dintorni. Queste correnti di pensiero hanno dato luogo a momenti di svolta certamente importanti all’interno della teoria femminista, e, tuttavia, non avevano radici in processi di mobilitazione sociale e politica di massa minimamente paragonabili al movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta. Dunque, se con ‘ondata’ si vuole indicare un processo di soggettivazione sociale e politica che ha luogo attraverso un’insorgenza di massa, il termine mal si adatta a indicare correnti di pensiero o svolte del dibattito. Peraltro, le svolte del pensiero femminista a cui si è attribuita l’etichetta di ‘ondata’ fanno riferimento per lo più alla periodizzazione del dibattito femminista anglo-americano: utilizzando la categoria di ‘ondata’ si finisce così per universalizzare indebitamente una particolarità geografica, che andrebbe invece ‘ri-provincializzata’. Questo, ovviamente, non vuol dire che le evoluzioni del dibattito teorico degli anni precedenti non abbiano avuto alcuna influenza sulle riflessioni e le parole d’ordine del movimento. Al contrario, il transfemminismo e l’anti-essenzialismo del movimento ha certamente un debito con la teoria queer e trans, il suo internazionalismo e antirazzismo sono fortemente influenzati dalle riflessioni su intersezionalità e sul rapporto tra capitalismo e razzializzazione. Tuttavia, la nozione di una proliferazione di ‘ondate’ suggerisce un continuumstorico di mobilitazione femminista dalla seconda ondata a oggi, oscurando la natura d’evento dell’attuale movimento femminista: e dunque la sua potenziale dirompenza politica e sociale. Mentre la seconda ondata femminista, negli anni Sessanta e Settanta, aveva come centri propulsori un nucleo di paesi occidentali a capitalismo avanzato, l’attuale ondata femminista è nata dalla “periferia” – dall’Argentina e dalla Polonia – e si è estesa rapidamente a livello globale, assumendo una dimensione di massa in una serie di paesi tra i maggiormente colpiti dalla crisi e dalle politiche di austerità e contenimento del debito (Italia, Spagna, Brasile, Cile…). L’uso di tecnologie digitali e social media ha contribuito enormemente al carattere immediatamente transnazionale del movimento, favorendo non solo il coordinamento delle azioni di lotta, ma anche la circolazione di documenti, idee, slogan, analisi e informazione, favorendo una dinamica di espansione della mobilitazione e di approfondimento continuo della riflessione teorica. Ma è soprattutto lo sciopero a costituire la novità più rilevante della nuova ondata. Non soltanto perché lo sciopero ha messo al centro del dibattito il lavoro delle donne, il ruolo delle donne nella riproduzione sociale e il rapporto tra produzione di merci e riproduzione, ma perché è diventato il motore principale di un processo di soggettivazione, attraverso cui sta emergendo una nuova soggettività femminista anticapitalista fortemente critica del femminismo liberale (che pure è presente all’interno della nuova ondata: basti pensare alla Women’s March negli Stati Uniti, trasformatasi in un’appendice progressista del Partito democratico, o alle declinazioni carcerarie del #metoo). La portata potenziale dell’attuale processo di soggettivazione femminista emerge più chiaramente quando si prende in considerazione la differenza fondamentale tra questa ondata e le prime due. In termini estremamente schematici, la prima ondata femminista – tra ultimi decenni dell’Ottocento e primi decenni del Novecento – ebbe luogo all’interno del processo di nascita e consolidamento del movimento operaio: dalla nascita della socialdemocrazia tedesca alla formazione di sindacati e partiti socialdemocratici e comunisti in tutta Europa e negli Stati Uniti. All’interno di questo processo storico di politicizzazione di massa e di irruzione della classe operaia sulla scena politica, la prima ondata femminista rivendicò la piena realizzazione della promessa universalistica propria sia del liberalismo democratico che del socialismo attraverso la parola d’ordine dell’uguaglianza: uguaglianza di capacitàedi diritti. La seconda ondata femminista ebbe luogo all’interno di un altro processo di soggettivazione di classe, quello dell’insorgenza della nuova sinistra nei paesi a capitalismo avanzato e delle lotte anticoloniali e di liberazione nazionale. All’interno di questo processo, la seconda ondata si appropriò della parola d’ordine della differenza, presa a prestito dal nazionalismo nero, per denunciare il sessismo all’interno del movimento ed esprimere una parzialità troppo spesso messa a tacere. Il contesto della terza ondata femminista è radicalmente differente, in quanto il nuovo movimento femminista non è l’espressione di una parzialità o di un punto di vista all’interno di un processo di soggettivazione di classe più ampio. L’esplosione del movimento femminista è stata, ovviamente, preceduta da altre mobilitazioni internazionali, la stagione di lotte a visibilità internazionale del 2011-2013 (in particolare, Occupy, Indignados, Taksim Square), con la quale presenta alcuni elementi di continuità. Come questi movimenti precedenti, anche il movimento femminista è nato al di fuori e indipendentemente dall’insieme dei partiti e delle organizzazioni della sinistra tradizionali (o di quel che ne rimane). E come nel 2011-2013, una delle caratteristiche del movimento femminista è la rapidità con cui da rivendicazioni specifiche e parziali – la denuncia dei femminicidi e l’attacco al diritto all’aborto – si è passati a una condanna complessiva del sistema (il modo di produzione capitalista e le istituzioni dello stato). Tuttavia, al carattere anti-sistemico delle mobilitazioni del 2011-2013 non è corrisposta né una capacità di sedimentazione organizzativa né una capacità d’individuazione di pratiche di lotta all’altezza della radicalità dell’analisi e delle aspirazioni. Da questo punto di vista, il movimento femminista è nato dalle ceneridella stagione di movimento precedente, ne ha ereditato alcune caratteristiche, ma al tempo stesso ha compiuto un passo avanti cruciale: l’assunzione e reinvenzione dello sciopero come pratica di lotta principale e condivisa a livello internazionale. Lungi dall’esprimere una parzialità, un punto di vista specifico, all’interno di un processo di soggettivazione di classe più ampio, attraverso gli scioperi delle donne il movimento femminista si sta ponendo sempre di più come il processo di soggettivazione di classe di questa fase. L’arcano della classe La tradizione marxista è attraversata da un paradosso. Da un lato, per il marxismo la nozione di lotta di classe è uno strumento euristico fondamentale per l’interpretazione della natura del capitalismo e dei processi storici capitalistici, e ne costituisce l’orizzonte politico-programmatico. Dall’altro, cosa sia esattamente una classe è forse la questione più controversa e ambigua all’interno non solo del dibattito marxista, ma degli stessi scritti di Marx. In Marx, il termine classe a volte designa un’entità metafisica o un momento di una filosofia della storia che sfocia nella negazione della negazione. Altre volte, indica e definisce la classe operaia industriale sulla base solo di criteri sociologici ed economici oggettivi e non storico-politici. In Miseria della filosofia, Marx distingue tra ‘classe in sé’ e ‘classe per sé’, ma la distinzione è solo accennata ed è tutt’altro che chiara. Infine, in una serie di scritti politici sembrerebbe che un gruppo sociale non possa essere considerato come classe, se non agisce politicamente come una classe, in un rapporto antagonistico con un’altra [1]. Queste ambiguità hanno avuto un peso considerevole nel dibattito marxista successivo e hanno dato luogo a teorie divergenti. Schematizzando, è possibile distinguere tre approcci principali: oggettivista o sociologico, metafisico (dove ‘classe’ è una categoria astratta indicante il soggetto di una storia progressiva), e politico. Per comprendere in che senso il nuovo movimento femminista debba essere inteso come un processo di soggettivazione di classe è necessario far riferimento a quest’ultimo approccio. Per E. P. Thompson, “classe” è una categoria storica prima ancora che teorica, una categoria che deve dunque essere articolata a partire dall’osservazione empirica dei comportamenti individuali e collettivi concreti che – nel corso del tempo – esprimono un carattere di classe e creano delle istituzioni di classe (sindacati, partiti, associazioni, camere del lavoro, ecc.) [2]. Questo vuol dire che la nozione di classe è una nozione dinamica, che fa riferimento a un processo storico piuttosto che esprimere l’essenza di un’entità statica. In altri termini, intesa come categoria storica, la nozione di classe non può essere ridotta alla categorizzazione sociologica di gruppi sociali sulla base di criteri classificatori e quantitativi. Ad esempio, la definizione della classe lavoratrice come l’insieme di tutti i lavoratori salariati oppure di tutti coloro che, impiegati o meno, non hanno altre risorse se non la vendita della propria forza lavoro, per quanto non sia di per sé falsa, è vaga, astratta e incompleta. Insomma, questa definizione contiene un elemento di verità, ma se presa come una definizione completa conduce a malintesi ed errori politici e analitici dalle conseguenze rilevanti [3]. Al contrario, per Thompson la classe è il punto di arrivo e non il punto di partenza di un processo di formazione. Per quanto paradossale possa sembrare, la classe è il prodotto della lotta di classe e non il suo presupposto [4]. Daniel Bensaïd articola una posizione simile a quella di Thompson, in Marx l’intempestif: Mentre la sociologia positivista pretende di trattare “trattare i fatti sociali come cose”, egli [Marx] li tratta sempre come rapporti. Non definisce una volta per tutte il suo oggetto sulla base di criteri e di attributi. Segue la logica delle sue molteplici determinazioni. Non “definisce” unaclasse. Coglie le relazioni conflittuali tra le classi. Non fotografa un fatto sociale etichettato come classe. Mira al rapporto di classe nella sua dinamica conflittuale: Unaclasse isolata non è un oggetto teorico, ma un nonsenso [5]. Se la classe è il prodotto storico e dinamico della lotta di classe, ciò che rimane da chiarire è il rapporto tra questo processo di soggettivazione o di formazione attraverso la lotta e la posizione occupata da gruppi sociali determinati all’interno dei rapporti di produzione capitalistici. I rapporti sociali di produzione strutturano la società collocando gli individui in quelle che Ellen Meiksins Wood chiama “situazioni di classe”, la cui natura è determinata da fattori oggettivi [6]. Nel caso della situazione di classe lavoratrice, bisogna quindi far riferimento all’espropriazione e separazione dai mezzi di produzione (proletarizzazione), all’estorsione del plusvalore attraverso il lavoro salariato, così come alle modalità storicamente specifiche dei processi produttivi, la divisione del lavoro, e così via. Tuttavia, essere collocati in una “situazione di classe” non vuol dire automaticamente appartenere a una classe. Infatti, i rapporti di classe non si presentano mai all’esperienza vissuta in maniera immediata. Ad esempio, scrive Meiksins Wood, il lavoro di fabbrica non unisce gli operai all’interno di una classe, li unisce all’interno di un’unità produttiva determinata: ciò di cui gli operai fanno esperienza diretta è il loro sfruttamento all’interno di un luogo di lavoro determinato, non i rapporti di classe in generale. Ovviamente, la loro collocazione oggettiva all’interno dei rapporti di produzione crea le condizioni di possibilità perché gli operai raccolti in una unità produttiva facciano l’esperienza di un’unità superiore, ad esempio quella con gli operai di altre unità produttive nello stesso territorio, o nella stessa nazione, o a livello mondiale, ma questa unità superiore non è un’immagine fedele della strutturazione e divisione della società attraverso i rapporti di produzione. È piuttosto il prodotto di un processo storico contingente e variabile, che Meiksins Wood chiama “formazione di classe”. Perché gli individui collocati in “situazioni di classe” si costituiscano in classe, è necessario che lottino come una classe, facciano cioè l’esperienza di un antagonismo con altre classi. Per sintetizzare, una classe non è una cosa, un’entità statica, ma un rapporto sociale e un aggregato al tempo stesso politico e sociale, che si costituisce attraverso processi storici contingenti e specifici. Le conseguenze politiche di quest’approccio teorico sono enormi. Infatti, se la classe è il risultato dinamico, variabile e contingente di un processo storico di auto-costituzione attraverso la lotta, uno dei peggiori errori politici che si possano commettere è quello di imporre alla storia modelli astratti già pronti rispetto a cosa conti come lotta di classe e cosa no. Si rischia, infatti, di continuare a crogiolarsi nella nostalgia per le forme e le esperienze del passato (o per quelle che sono mero frutto della nostra immaginazione), anziché riconoscere i processi di soggettivazione di classe che hanno luogo sotto il nostro naso. La nuova classe: femminista, antirazzista, internazionalista La logica dei “movimenti paralleli”, come nota Lise Vogel [7], ha caratterizzato la stragrande maggioranza delle teorizzazioni e strategie politiche della storia del movimento operaio: da un lato c’è la lotta di classe, dall’altro il movimento delle donne, quello per l’ambiente, quello contro il razzismo, quello per le libertà sessuali e così via. All’interno di quest’impostazione, nel miglioredei casi ci si è chiesti come unire questi movimenti tra di loro, nel peggioresi sono accusati i vari movimenti ‘di settore’ di dividere l’unità della classe, di esprimere tendenze liberali, o di distrarre l’attenzione dalla questione veramente centrale: lo sfruttamento. Spesso ci si è lanciati in gerarchizzazioni in base a un presunto ordine d’importanza. La nuova ondata femminista sta offrendo l’opportunità di superare leimpassedi questa impostazione, perché ancor più delle precedenti ondate sta sfumando i confini (reali e immaginari) tra movimento di classe e movimento femminista. Per tornare agli esempi di Glasgow e di Google, la difficoltà nel dare una risposta alla domanda iniziale – si tratta di lotta di classe o di lotta femminista? – risiede nel fatto che la domanda è fondamentalmente sbagliata. Questi scioperi, così come gli scioperi transnazionali dell’8 marzo, e in particolare gli scioperi argentino e spagnolo, sono lotta di classe femminista. Il movimento femminista si sta configurando sempre di più come un processo di formazione di una soggettività di classe dalle caratteristiche specifiche: immediatamente antiliberista, internazionalista, antirazzista, ovviamente femminista e tendenzialmente anticapitalista, in eccesso e in tensione rispetto alle istituzioni tradizionali della sinistra e alle sue pratiche. Ovviamente, questo processo non è lo stesso nei singoli paesi, ed è decisamente più avanzato in alcuni paesi rispetto ad altri. E tuttavia, se si considera il movimento nel suo insieme, è quest’aspetto a rappresentarne la maggiore novità e a incarnare le potenzialità più interessanti. Quando si parla di potenzialità bisogna anche parlare dei rischi di fallimento, delle condizioni necessarie, del lavoro da fare e delle strategie da adottare perché queste potenzialità si realizzino. La realizzazione delle potenzialità create dalla nuova ondata femminista richiede innanzitutto una capacità da parte del movimento di riflettere su se stesso e dunque di pensare strategicamente allo stesso livello in cui si è già posto con la sua prassi: quello di una contestazione anti-sistemica a livello globale. Questioni come il consolidamento di pratiche di lotta condivise – in primo luogo lo sciopero –, la sedimentazione organizzativa a livello non solo nazionale, ma transnazionale, e l’universalizzazione del movimento femminista attraverso la sua espansione a tutta la società e attraverso la sua capacità di parlare per il tutto, o “trasversalità”, per usare le parole di Veronica Gago, sono tra le questioni centrali che il movimento femminista dovrà discutere e affrontare nel prossimo periodo. * L’articolo appare contemporaneamente in spagnolo su Viento Sur e in inglese su Viewpoint Magazine. 1. Per una raccolta di passi sulla classe tratti dagli scritti di Marx, e le tensioni tra le varie definizioni offerte in questi scritti si veda Bertell Ollman, “Marx’s Use of ‘Class’”:https://www.nyu.edu/projects/ollman/docs/class.php. 2. E. P. Thompson, “Eighteenth-Century English Society: Class Struggle Without Class?”, Social History, 3, 2 (1978), pp. 133-165. 3. David McNally, “The Dialectic of Unity and Difference in the Constitution of Wage-Labour: On Internal Relations and Working-Class Formation”,Capital & Class, 39,1 (2015), pp. 131-146. Si veda anche David Camfield, “Re-Orienting Class Analysis: Working Classes as Historical Formations”, Science & Society, 68, 4 (2004-2005), pp. 421-446. 4. E. P. Thompson,“Eighteenth-Century English Society…”, pp. 147-149. 5. Daniel Bensaïd, Marx l’intempestivo. Grandezze e miserie di un’avventura critica, Edizioni Alegre, Roma 2007, p. 152. 6. Ellen Meiksins Wood, “The Politics of Theory and the Concept of Class: E. P. Thompson and his Critics”, Studies in Political Economy, 9, 1 (1982), pp. 45-75. 7. Lise Vogel, Marxism and the Oppression of Women. Toward a Unitary Theory, Haymarket Books, Chicago 2013, p. 139. |
Archivio
Gennaio 2021
|