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      • CONFINDUSTRIA: GLI OPERAI GUADAGNANO TROPPO
      • GLI ANNI TRENTA PROSSIMI VENTURI
      • UN LAVORO DI CHE GENERE?
      • IL MALE OSCURO (MA NON TROPPO) DEL CAPITALE
      • C'E' UNA LOGICA IN QUESTA FOLLIA
      • BENTORNATI AL SUD
      • MOSTRI DI GUERRA DIRIGONO LE SCUOLE
      • QUELL’OSCURO OGGETTO DELLO SFRUTTAMENTO
      • FINCANTIERI: RIEN NE VA PLUS
      • L'INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI
      • LAVORO, REDDITO, GENERE: CHE DIBATTITO SIA...
      • RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA
      • SVENDESI INDUSTRIA ITALIA
      • LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DI MATTEO RENZI
      • NASCE PALERMOGRAD! LUNGA VITA A PALERMOGRAD! >
        • DONAZIONI
    • LONTANI E VICINI >
      • DOPO LE LACRIME. MARADONA E LE FEMMINE
      • LUNGA VITA ALLA SIGNORA (DI FERRO)
      • DOBBIAMO POTER DISCUTERE DI TUTTO
      • DEATH RACE
      • ADDIO A MANOLIS GLEZOS, 1922–2020
      • IL FASCINO DISCRETO DEL MODERATISMO
      • MACCHE' OXFORD, SIAMO INGLESI
      • LO STRANO CASO DI MR BREXIT E DR REMAIN
      • LO SPETTRO DELLA SIGNORA THATCHER
      • IL DECRETO SALVINI E LA LOTTA DI CLASSE
      • ADDAVENÌ JEREMY CORBYN
      • LONTANO DA DIO, VICINO AL FMI
      • LE ROSE CHE SYRIZA NON COLSE
      • DOCCIA SCOZZESE PER I TORY?
      • L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL LABOUR
      • ATTACCO SU TRE FRONTI: LA NUOVA RECINZIONE
      • MAROCCHINI ALLA STAZIONE
      • THE MEANING OF THERESA MAY
      • BERLINO 2016: ANOTHER BRICK IN THE WALL?
      • BREXIT: USCITA OBBLIGATORIA A DESTRA?
      • NO GRAZIE, IL BREXIT MI RENDE NERVOSO
      • BREXITHEART - CUORE IMPAVIDO
      • UN BLUESMAN DELL’INTELLETTO
      • UNA VITTORIA INUTILE?
      • CARO YANIS, TI SCRIVO..
      • ESULI A PALERMO
      • ARALDI CON LE FORBICI
      • TU CHIAMALE SE VUOI, ILLUSIONI
      • GRECIA: LA LOTTA CONTINUA SE C'E' IL PIANO B
      • GRECIA: LA LOTTA DEVE CONTINUARE
      • DALLA SCOZIA CON FURORE
      • NIENTE TAGLI, SIAMO INGLESI
      • CHI NON HA BISOGNO DI ATENE?
      • SO' BONI, SO' GRECI. LA VITTORIA DI SYRIZA E DEL SUO LEADER
    • IN TEORIA >
      • RITORNARE A MARX parte II
      • RITORNARE A MARX
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE (parte 2^)
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE
      • CONFLITTO CRISI INCERTEZZA
      • DAGLI SCIOPERI DELLE DONNE A UN NUOVO MOVIMENTO DI CLASSE: LA TERZA ONDATA FEMMINISTA
      • ANCORA SU DAVID HARVEY, MARX E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • A PARTIRE DA SIMONE WEIL
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE / 2
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • UNA CRISI, TANTE TEORIE
      • MA IL SUO LAVORO È VIVO
      • POSSO ENTRARE?
      • A VOLTE RITORNA. Il dibattito su reddito di cittadinanza e simili, prima della crisi.
      • L’ ORIENTE È L’ORIENTE E L’OCCIDENTE È L’OCCIDENTE, E GIAMMAI I DUE SI INCONTRERANNO ?
      • IL SEME DEL DUBBIO
      • RICOMINCIARE DA KEYNES?
      • DE-ROMANTICIZZARE IL LAVORO (DOMESTICO E NON)
      • CAPITALISMO CONCRETO, FEMONAZIONALISMO, FEMOCRAZIA
      • DAL FEMMINISMO DELL’ÉLITE ALLE LOTTE DI CLASSE NELLA RIPRODUZIONE
      • KARL KORSCH
      • INTRODUZIONE AL «CAPITALE»
      • REDDITO CONTRO LAVORO? NO, GRAZIE
      • PRIMA DI ANDARE OLTRE, LEGGIAMOLO
      • COM’È BORGHESE, QUESTA RIVOLUZIONE…
      • COME L’OCCIDENTE È ANDATO A COMANDARE
      • LO STRANO CASO DEL DOTT ADAM E DI MR. SMITH
      • L'ULTIMO MARX E NOI
      • IL CASO E LA FILOSOFIA
      • DAL PENSIERO DELLA GUERRA FREDDA AL FEMMINISMO INTEGRATO
      • STREGHE, CASALINGHE E CAPITALE
      • 2016: ODISSEA SULLA TERRA
      • DOPO IL SOCIAL-LIBERISMO
      • QUANTO È LUNGO UN SECOLO?
      • BYE-BYE LENIN
      • L'OMBRA LUNGA DEL MILITARISMO
      • NON ESISTONO MEZZOGIORNIFICAZIONI
      • EUROPA E "MEZZOGIORNI". Un intervento di Joseph Halevi
      • PIANIFICARE NON BASTA?
      • IL PRANZO AL SACCO DI MARIO MINEO
      • MARIO MINEO E IL MODO DI PRODUZIONE STATUALE
      • LEGGERE BETTELHEIM NEL 2015
      • CHARLES BETTELHEIM: L'URSS ERA SOCIALISTA?
      • E LA CLASSE RESTO' A GUARDARE
      • LEI NON SA CHI SIAMO NOI
      • RISCOPRIRE IL VALORE-LAVORO
      • FUNERALE GLOBALE
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Prima Parte
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Seconda Parte
      • SRAFFA TRA TEORIA ECONOMICA E CULTURA EUROPEA
    • IL FRONTE CULTURALE >
      • NON NASCONDERSI, NON PROTEGGERSI
      • RIBELLE, MANCINO, ERETICO
      • LIBRI DELL'ANNO 2019
      • DESTINAZIONE APOCALISSE
      • UNO DI NOI?
      • NUOVO IMPERO, STESSO BARDO?
      • SPECCHIO AMBIGUO
      • IL GESTO E IL SISTEMA
      • CONTRO LA MACCHINA DELLA NARRAZIONE
      • NIGHT CLUB INFERNO (NUOVA GESTIONE)
      • E INFINE USCIMMO A RIVEDERCI FUORI FACEBOOK
      • TUTTO QUANTO FA (ANTI)ROMANZO
      • DIO NON RISPONDE, E NEMMENO LA STORIA CI SENTE TROPPO BENE
      • STORIE DI LOTTA QUOTIDIANA
      • IN RICORDO DI SARA DI PASQUALE
      • PICCOLE CITTÀ NON SCHERZANO
      • LIBRI DELL'ANNO 2018
      • ROBESPIERRE CONTRO L'ANGLOFILO
      • DAGHELA INDIETRO UN PASSO
      • L’AFRICA DI MANGANELLI
      • UNA RIVOLUZIONE BORGHESE?
      • IL BUON PADRE DI FAMIGLIA
      • L’ARTE DELLA MATEMATICA
      • PUNK A PALERMO
      • SGUARDI SULLA MORTE E SULLA VITA
      • MA NON SAPPIAMO QUANDO
      • COSE TROPPO VICINE PER ESSERE VISTE
      • IL RACCONTO CHE VISSE DUE VOLTE
      • UN INCUBO ASSURDO E INESORABILE
      • ETICA E/È LETTERATURA
      • ADOLESCENZE FRAGILI NELL’EPOCA DELLA BUONA SCUOLA
      • ABBASTANZA NON E' PIU' ABBASTANZA
      • ÉLITE IN RIVOLTA
      • CHI DI MOSTRA FERISCE
      • LIBRI DELL'ANNO 2017
      • PRO O CONTRO LA SCUOLA PER TUTTI
      • "NON INCOLPATE NESSUNO", MA I REGISTI SI
      • STENDHAL RAZZISTA AL CONTRARIO
      • IL TEMPO INSEGUE LE SUE VIOLE
      • L’UTOPIA DI SCHULZ
      • ADOLESCENZE FRAGILI
      • IL MARCHESE DI VENEZIA
      • “ANNORBÒ TOTÒ”
      • INVISIBILI MA NON TROPPO
      • UOMINI E LUPI
      • “MARIELLA SE N’È DOVUTA SCAPPARE”
      • LA GIUSTA DISTANZA
      • ROLAND IN CAMPO
      • COME SOLO UN AMANTE FA
      • CERTE NOTTI
      • VITA POLITICA DI GIULIANA FERRI
      • LIBRI DELL’ANNO 2016
      • TROPPO BARDO PER ESSERE VERO
      • LA BARBARIE PROSSIMA VENTURA
      • DANIELE CONTRO I BUROSAURI?
      • SWEET BLACK ANGEL
      • DODICI PICCOLI INDIANI (D'AMERICA)
      • VELTRONI VA A HOLLYWOOD?
      • RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
      • POVERI E PICCOLI
      • SENZA RUOLI, SENZA DESTINI
      • REQUIEM PER IL TEMPO LIBERO
      • DICE CH'ERA UN BELL'UOMO
      • GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
      • LA FATICA DI ESSERE BUONI
      • BORGHESIA MAFIOSA E POSTFORDISTA
      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
      • GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA
      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
      • GATTOPARDI BORGHESI
      • LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
      • GESTIONE DEI CONFLITTI NELLA CULTURA GRECA
      • CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'
      • LA STORIA DELL'8 MARZO
    • SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA >
      • SPIE, BUROCRATI ED EZISTENZIALISTI
      • DOPO L'UOMO OMBRA
      • NON HO L'ETA'
      • UN SACCO DI ASTRONAVI IN QUESTA LIBRERIA
      • VIENE AVANTI IL CRETINO
      • IL CAPPELLO NOIR
      • NON CAPISCO PERCHÉ TUTTI QUANTI…
      • UNA VITA MERAVIGLIOSA
      • MA UN GIORNO, CARA STELLA
      • LA LEZIONE È FINITA
      • MARY PER SEMPRE
      • SOLO PER I TUOI OCCHI
      • PERICOLO GIALLO
    • SEMBRA UN SECOLO >
      • GIUSEPPE, ANITA E I COLORADOS
      • QUESTA STORIA NON PUO' FINIRE
      • ACCOGLIENZA DI IERI
      • VIANDANTI NEL NULLA
      • UNO STATO CHE NON ERA UN MOLOCH
      • VIOLENTI DESIDERI
      • LA RIVOLUZIONE RUSSA IN ITALIA
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      • PORTELLA DELLA GINESTRA TRA STORIA E MEMORIA.
      • LA GUERRA CHE DURA SEI GIORNI E CINQUANT'ANNI
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      • GIORGIO GATTEI: CHE COS'E' IL VALORE?
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      • 14. COME HANNO VINTO I BOLSCEVICHI
      • 13. LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
      • 12. IN CAMPAGNA È UN’ALTRA COSA…
      • 11. I DUE GOLPE DI KORNILOV
      • 10. ​COME FARE LA RIVOLUZIONE SENZA PRENDERE IL POTERE...A LUGLIO
      • 9. VIOLENTA, NON TROPPO
      • 8. I BOLSCEVICHI E L’ANTISEMITISMO
      • 7. LE DONNE DEL 1917
      • 6. L’ECCEZIONE ESEMPLARE
      • 5. PRIMA DI OTTOBRE, VIENE FEBBRAIO
      • 4. DALLA STAZIONE DI FINLANDIA
      • 3. LA RIVOLUZIONE CONTRO IL CAPITALE (DI MARX)
      • 2. LE DONNE LANCIANO PALLE DI NEVE
      • 1. PRIMA DEL FEBBRAIO
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    • PROGRAMMAZIONE 2015/2016 >
      • 1° INCONTRO. Sistemi di pianificazione a confronto
      • 2° INCONTRO. Calcolo economico e forme di proprietà
      • 3° INCONTRO. Scritti Teorici - Mario Mineo
      • 4° INCONTRO. Aufheben: What was the USSR ?
      • 5° INCONTRO. Luigi Cortesi: Storia del Comunismo
      • 6° INCONTRO. Storia dell'Unione Sovietica
      • LE FILIERE MAFIOSE. Presentazione libro di V. Scalia
    • PROGRAMMAZIONE 2014/2015
    • CICLO SEMINARI 2014/2015 >
      • Storia del valore-lavoro - prima parte
      • Storia del valore-lavoro - seconda parte
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      • L'accumulazione del capitale - seconda parte
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PALERMOGRAD

LIBRI DELL’ANNO 2016

21/12/2016
​Per festeggiare i 2 anni del sito, abbiamo chiesto a 25 persone che pubblicano, collaborano a, o semplicemente leggono, PalermoGrad di nominare i propri Libri dell’Anno. Erano ammessi titoli pubblicati in qualsiasi lingua a partire da novembre 2015, comprese riedizioni se in presenza di una nuova traduzione e/o introduzione. Come vedrete, c’è stato chi si è tenuto sul lapidario e chi invece si è lanciato in delle mini-recensioni. Buon divertimento, buone vacanze e ci rivediamo nel 2017!
​

​Tommaso Baris docente di Storia Contemporanea, Università di Palermo (C’era una volta la Dc, 2011). 
 
Zero calcare, Kobane calling, Bao Publishing; Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve, Einaudi; Valerio Evangelisti, Nella notte ci guidano le stelle (vol. III de Il sole dell’avvenire), Mondadori.
 
Riccardo Bellofiore ordinario di Economia Politica, Università di Bergamo. Con Giovanna Vertova pubblica la pagina FB ‘Economisti di classe’. (La crisi globale, l’Europa, la Sinistra, 2012; quest’anno ha curato con Tommaso Redolfi Riva l’edizione italiana di Ricerche sulla critica marxiana dell’economia di Hans-Georg Backhaus).
 
Consiglio Helmut Reichelt, La struttura logica del concetto di capitale in Marx (tr. it. F.Coppelotti), manifestolibri;  Joseph Halevi, Geoffrey Harcourt, Peter Kriesler, John Nevile, Post-Keynesian Essays from Down Under, 4 vols, Palgrave Macmillan; e Bruce Springsteen, Born to run. L’autobiografia (tr.it. M.Piumini). Su Springsteen avrei in realtà scelto Badlands di Alessandro Portelli, che però è uscito ad agosto 2015.
 
 
Marcello Benfante scrittore e critico (Il sentimento del male, 2014; Autobibliografia del lettore da giovane, 2015)
 
Leonardo Sciascia, Fine del carabiniere a cavallo, Adelphi, una raccolta di saggi letterari che getta uno scandaglio sulla vasta e interessantissima opera sommersa del grande scrittore siciliano; William Hazlitt, I personaggi del teatro di Shakespeare (tr.it. A.Geraci e F.Romeo), Sellerio, che ripara una grave falla e un imperdonabile ritardo nell’editoria e nello studio riguardanti il sommo Bardo. Insieme all’opera di Hazlitt citerei pure Nadia Fusini, Vivere nella tempesta, Einaudi, esempio di una adesione al testo insieme rigorosa e appassionata che diventa un’indiretta autobiografia.
 
 
Salvatore Cavaleri, attivista dei movimenti, educatore, tra i curatori di L’Inutile Fatica (2016)
             
Ippolita, Anime elettriche. Riti e miti social, Jaca Book. "Che la si chiami economia delle identità o comportamentale, economia della condivisione o del dono, si parla sempre della stessa cosa, da diverse angolazioni: estrarre valore economico dalla capacità umana di incontrarsi, comunicare, mostrarsi, generare senso, e articolare la complessità dei legami sociali. Detto così non suonerebbe neanche malvagio, insomma meglio del petrolio, no? La materia prima si cava dell'interiorità umana. Se non fosse che, per produrre denaro, bisogna avere delle merci. E se è gratis allora la merce sei tu!"; Giuliano Santoro, Al palo della morte. Storia di un omicidio in una periferia meticcia, Alegre. Per comprendere un singolo fatto di cronaca occorre muoversi per linee di fuga e ripercorrere la storia di una città. Per comprendere una città si può scavare dentro un singolo avvenimento, per portare alla luce la miriade di storie che si accumulano inquiete; Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav, Einaudi.
Un'Entità si aggira per la Valle. È maligna e minacciosa, e turba la vita dei suoi abitanti, che non se ne stanno con le mani in mano, ma creano ogni possibile alchimia per salvare la propria terra. Non è un romanzo, è una storia vera: quella di una Valle, del suo popolo e di una Grande Opera Dannosa Inutile e Imposta.










                           
  
Domenico Conoscenti scrittore (Quando mi apparve amore, 2016; è dell’anno scorso la riedizione del suo classico La stanza dei lumini rossi) 
 
Oliver Sacks, Gratitudine (tr.it. I.C. Blum) Adelphi; Wislawa Szymborska, Come vivere in modo più confortevole (tr.it. V.Parisi) Adelphi; e la riedizione di Rosario la Duca, I veleni di Palermo, Sellerio.
 

Roberta Di Bella curatrice con Romina Pistone della collana editoriale Femminileoltre (Donne+Donne, 2014; Cambiare (il) lavoro, 2016).
 
Scelgo Tania Toffanin, Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, edizioni Ombre corte/culture. Questo libro fa un’analisi molto lucida su come si è diffuso il lavoro a domicilio dal Veneto a molte altre regioni d’Italia, dalla fine del Novecento ad oggi. Analizza questa forma di produzione che è espressione del capitalismo contemporaneo, manifestatosi con forme di retribuzione e un utilizzo del tempo, al lavoro e nel privato, in cui l’isolamento rappresenta la condizione qualificante delle lavoratrici e dei lavoratori. Il trattamento retributivo delle donne che lavorano per la produzione a domicilio è inadeguato rispetto alla qualità e all’intensità del tempo impiegato; inoltre il luogo di lavoro, la casa, è privo di qualsiasi forma di controllo, sia riguardo gli orari di lavoro, sia per i materiali/strumenti utilizzati. L’autrice, Tania Toffanin, evidenzia come l’invisibilità di questa forma di lavoro porti a un duplice disconoscimento: la lavoratrice perde lo status di lavoratrice per effetto dell’operare nel contesto domestico, non considerato ‘produttivo’ e perde la possibilità del riconoscimento di un ruolo differente nella sfera riproduttiva, visto che la nostra società patriarcale considera ‘naturale’ ricoprire certi ruoli dentro la sfera domestica. Condizione questa che incrementa lo squilibrio di genere nella gestione del lavoro riproduttivo. Si tratta inoltre di un processo che va nella direzione di un incentivo ai tagli alla spesa sociale e di un maggiore assoggettamento delle donne ai bisogni di cura delle famiglie proprie o acquisite. Senza omettere come la perdita di riconoscimento del proprio tempo a lavoro da parte delle donne si sia tradotto nella mancanza di motivazioni a richiedere maggiori garanzie riguardo i salari e le condizioni lavorative tout court.
 
 
Alfonso Geraci lavoratore dell’editoria
 
Considero D.J.Taylor e Richard Bradford rispettivamente il critico militante e il critico accademico (ma sono definizioni riduttive per entrambi) più interessanti nel panorama attuale d’Oltremanica. Quest’anno Taylor ha pubblicato uno dei libri che “aspettavo” da lui: l’imperdibile The Prose Factory. Literary Life in England Since 1918, Chatto&Windus, cento anni di letteratura albionica tra sociologia, critica del gusto, storia dell’editoria. Per quanto riguarda Bradford, Crime Fiction. A Very Short Introduction, Oxford University Press, è qualcosa di formidabile: spiegare le “basi” della materia ai neofiti, aggiungere un sacco di considerazioni personali e scrivere un fondamentale capitolo sul Gender del ‘giallo’, in sole 130 pagine, è un impresa che ha del portentoso. Da ultimo, ma non ultimo, un libro dedicato a Donald Wolfit, personaggio ricordato più che altro per avere inspirato i film Il Servo di Scena e – più indirettamente – Oscar Insanguinato, ma che fu tra i massimi protagonisti del teatro shakespeariano del dopoguerra. Con Theatre of the People. Donald Wolfit’s Shakespearean Productions 1937-1953,Rowman& Littlefield, il luminare degli ‘Adaptation Studies’ Laurence Raw ha ricostruito dodici messe in scena di Wolfit, “come se fosse stato lì”, fornendo ampio materiale alla discussione sul ‘nazional-popolare’, stavolta in salsa britannica.
 
 
Alice Gerratana traduttrice, dirigente del sindacato STRADE (Un Libro dei Sogni  di Peter Reich, 2014; Il libro nero dell’Impero Britannico di John Newsinger, 2015)
 
Consiglio Una donna insolita di Rose Macaulay, uscito per Astoria nella traduzione di Simona Garavelli. Il titolo originale è Crewe Train e fu pubblicato per la prima volta nel 1926. La donna insolita del titolo è Denham Dobie, figlia di un pastore protestante taciturno il quale, non potendone più di impegni e chiacchiere, decide di abbandonare il lavoro e ritirarsi a vita privata dopo la morte della moglie. Prima si trasferisce con la figlia a Maiorca; quando l'isola comincia a riempirsi di inglesi sempre pronti alla chiacchiera davanti a un tè, si rifugia sui Pirenei, nel principato di Andorra. La figlia Denham non gli è da meno: anche lei taciturna e indipendente, ama scorrazzare nei dintorni della loro casa, tenendosi ben lontana dalla città. Alla morte del padre Denham, dietro insistenze, acconsente a spostarsi a Londra con la famiglia di sua madre, i Gresham, tipi del tutto diversi da lei perché ottimi rappresentanti dei circoli intellettuali e pettegoli della città. Lo sguardo ironico - reso splendidamente da Simona Garavelli - di Rose Macaulay (essa stessa una donna insolita per la sua epoca) evidenzia con lucidità e vividezza lo scarto tra la goffa ed eccentrica Denham che, tutto sommato, prova ad adattarsi a una vita nuova e aliena di cui non comprende i meccanismi, e l'alta società londinese che, per quanto intellettualmente vivace, resta profondamente legata a regole, regolette e regoline.

 
Mario Guarino Associazione WERT
 
Vladimiro Giacchè, La fabbrica del falso (nuova edizione aggiornata), Imprimatur; Rino Messina, La repressione postuma - Palermo 1866: una rivolta breve e il suo epilogo giudiziario,  Ist. Poligrafico Europeo.

 
Letizia Gullo documentarista (Mare Magnum, 2014)
 
Pierre Michon, Vite minuscole (tr.it. L.Carra), Adelphi; Giorgio Vasta, Ramak Fazel, Absolutely Nothing, Quodlibet; Contro il razzismo. Quattro ragionamenti a cura di Marco Aime, Einaudi.
 
 
Ida Laporta Associazione WERT
 
Un libro uscito quest’anno che ho amato molto è Serenata senza nome di Maurizio De Giovanni, ed. Einaudi: genere giallo ma molto sui generis, ambientazione Napoli durante il fascismo.
 
 
Calogero Lo Piccolo psicoterapeuta, tra i curatori di L’Inutile Fatica (2016).
 
Ippolita, Anime Elettriche, Jaca Book; Ta-Nehisi Coates Tra me e il mondo, Codice Edizioni; Atticus Lish, Preparativi per la prossima vita (tr.it. A.Cristofori, Rizzoli)

 
Vincenzo Marineo PalermoGrad
 
Due buoni candidati ad allargare il dibattito critico sull’economia politica: di Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia; di Aldo Barba e Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa. Entrambi pubblicati da Imprimatur.
 
 
Antonio Pagliaro scrittore noir (Il bacio della bielorussa, 2015)
 
Andre Dubus, Voli separati, ed. Mattioli 1885.
 
 
Marco Palazzotto PalermoGrad e Associazione WERT
 
Economia, politica, cultura: Marx oggi, che è il terzo volume della Storia del marxismo curata da Srefano Petrucciani per Carocci. Poi Umberto Santino, La strage rimossa. Nola 11 settembre 1943, Di Girolamo; e Vincenzo Scalia, Le filiere mafiose. Criminalità organizzata, rapporti di produzione, antimafia, Ediesse. Degli ultimi due volumi ho parlato qui e qui.

 
Pavlov Dogg  PalermoGrad
 
Segnalo tre volumi collettanei: innanzitutto Cambiare (il) lavoro, a cura di Roberta Di Bella e Romina Pistone, Qanat. Ce ne vorrebbero 100 l’anno di libri come questo, che riscopre il gusto di “fare inchiesta” sulla condizione lavorativa odierna. Nella fattispecie il lavoro delle donne è qui sviscerato nei suoi aspetti statistici, economici, ideologici ed esistenziali; e la questione di genere “incrocia” quella meridionale. Poi L’Inutile Fatica. Soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneoa cura di Salvatore Cavaleri, Calogero Lo Piccolo e Giuseppe Ruvolo, ed. Mimesis, di cui abbiamo parlato più volte su PalermoGrad (qui, qui, qui, e qui). Infine il terzo volume della Storia del marxismo curata da Stefano Petrucciani per Carocci, che si intitola Economia, politica, cultura : Marx oggi, con menzione speciale per l’appassionante capitolo ‘Il genere del capitale’, scritto da Cinzia Arruzza. 
 
Marilena Riccobono insegnante, delegata CGIL
 
La riedizione di un classico: Luigi Natoli, I Beati Paoli, Sellerio, con una nuova introduzione di Maurizio Barbato.
 
Francesco Romeo  Corrimano Edizioni
 
Don DeLillo Zero K (tr.it. F.Aceto) e Donald Antrim  La luce smeraldo nell'aria (tr.it. C.Mennella), pubblicati entrambi da Einaudi.
 
Roberto Salerno PalermoGrad
 
Innanzitutto Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve, Einaudi. Poi Fabien Nury, Sylvain Valléè Il était une fois en France - Intégrale, Glénat. Conturbante quanto spiazzante la storia incredibile di Joseph Joanovici, ebreo rumeno che diventa ricchissimo durante l'occupazione tedesca in Francia. Quest'anno il primo dei sei volumi di Fabien Nury e Sylvain Valléè è stato tradotto in italiano, ma la Glénat ha appena pubblicato l'edizione integrale dei sei volumi. Una buona ragione per sforzarsi col francese. Infine: Régis Loisel, Jean Louise Tripp Magasin Général Tome 9 - Notre Dame des lacs, Casterman. L'autore di una indimenticabile versione di Peter Pan ha costruito una storia meravigliosa, in cui tutti i personaggi vivranno un personale viaggio di formazione, quale che sia la loro età, grazie all'arrivo in una piccola comunità di un maitre francese omosessuale. Il miracolo è che alla fine tutti sono migliori di quelli che sembrano e il lieto fine vi farà versare fiumi di lacrime. Quest'anno Casterman ha pubblicato il nono e ultimo volume. In italiano è stato pubblicato a puntate dall'Aura Editoriale.    
 
 
Vincenzo Scalia, Senior Lecturer in Criminology, University of Winchester (Le filiere mafiose, 2016)
 
Federico Chicchi, Emanuele Leonardi, Stefano Lucarelli, Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, Ombre Corte.
 
 
George Souvlis PhD candidate in History, European Unversity Institute, Firenze; scrive per Jacobin, ROAR e Salvage
 
Un libro che ho trovato meraviglioso è Lettere dall'interno del PCI a Louis Althusser, di Maria Antonietta Macciocchi: ma vedo che è del 1969! Segnalo invece Richard Seymour, Corbyn: The Strange Rebirth of Radical Politics e Bhaskar Sunkara The ABCs of Socialism, pubblicati entrambi da Verso.
 
Barbara Teresi traduttrice (Frankenstein a Baghdad di Ahmed Saadawi, 2015; premio Appiani per la traduzione)
 
Cristovão Tezza, La caduta delle consonanti intervocaliche (tr. it. di Daniele Petruccioli), Fazi. Un romanzo di struggente, meravigliosa bellezza, capolavoro del presente, classico del futuro, il libro è un miracolo di perfezione stilistica e contenutistica, magistralmente traghettato in italiano dall'impeccabile Petruccioli. Il protagonista Heliseu da Motta e Silva, stimato professore di filologia romanza ormai in pensione, si prepara per andare alla cerimonia in cui gli verrà conferita un'importante onorificenza accademica e, intanto, mentre pensa alle parole da pronunciare in pubblico nel suo discorso di ringraziamento, ripercorre il filo della propria esistenza: la carriera, il matrimonio, l'inizio e la fine di un grande amore, la paternità, le vicissitudini politiche e i cambiamenti sociali del suo Brasile, amarezza e gioia, fallimento e successo. Leggendo si ha la sensazione di assistere a un sortilegio, all'incredibile incantesimo che Tezza è riuscito a compiere con le parole: mettere nero su bianco il senso della vita. Il secondo titolo è Faraj Bayrakdar, Il luogo stretto, Nottetempo (Poesie, traduzione dall'arabo di Elena Chiti). Tristemente, molto tristemente, questi giorni verranno ricordati come i giorni di Aleppo, come una delle pagine più buie nella storia dell'umanità. Parole dalla Siria, dunque. Le splendide poesie del poeta siriano Faraj Bayrakdar nella magistrale traduzione di Elena Chiti, da leggere con la Siria e il popolo siriano nel cuore, perché: "C’è chi si nasconde dietro Dio/e Dio dietro di lui/solo noi teniamo/il cuore alto”. E infine Mathias Enard, Bussola, edizioni e/o (traduzione dal francese di Yasmina Melaouah) Premio Goncourt 2015. Un romanzo-fiume che vi farà ripensare al rapporto tra Oriente e Occidente, tra viaggi, incontri, amori, leggende, composizioni musicali e letture erudite.
 
 
Gilda Terranova insegnante e autrice di 101 cose da fare a Palermo almeno una volta nella vita (2011)
 
Consiglio Benedetta Tobagi, La scuola salvata dai bambini. Viaggio nelle classi senza confine, Rizzoli.
 
Giusto Traina ordinario di Storia Romana, Université Paris IV: Paris-Sorbonne (La resa di Roma, 2010; Il piccolo Cesare, 2014)
 
 
Luciano Canfora, Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio, Laterza.
 
James Tucker a.k.a. Bill James creatore della serie di Harpur e Iles, ovvero il poliziesco “rimesso sui piedi” (First Fix Your Alibi, 2016; per Sellerio uscirà nel 2017 Uccidimi)
 
Pubblicati entrambi in paperback da Bloomsbury: John le Carrè  di Adam Sisman, una biografia del grande spy writer ; e Nabokov in America, on the road to Lolita di Robert Roper. Va bene così? 
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ECONOMIA MALATA,TEORIA CONVALESCENTE 

16/12/2016
di Giorgio Gattei 
(Intervista di Marco Palazzotto)


Abbiamo assistito al fallimento del movimento per Tsipras in Europa e il governo greco oggi non fa che perpetrare una politica di austerità in continuità con i precedenti governi (in teoria) più a destra. Podemos sembra non riuscire a superare l’impronta populista dell’anti-casta in salsa grillina. Idem in Italia in cui il M5S si accinge, probabilmente, ad accrescere il proprio potere, soprattutto se il governo Renzi non riuscirà a superare il voto referendario. Alcuni segnali positivi arrivano dall’Inghilterra, che almeno vede ricompattare una sinistra attorno a Corbyn. Che percorsi occorre intraprendere in Italia e in Europa, secondo te, per costruire un movimento di massa che faccia da contraltare alle politiche di austerità e che tenti di superare il potere dei grandi comitati d’affari europei rappresentati dalle istituzioni UE e dal blocco franco-tedesco?

Sullo stato attuale di ciò che avrebbe dovuto essere una “sinistra eterna” e di cui ha parlato da qualche parte François Furet (ma che adesso proprio ‘eterna’ non può dirsi), al momento la vedo andare alla deriva per la perdita del doppio ancoraggio alla marxiana critica dell’economia politica e alla pratica della lotta di classe che è stata sostituita da una accozzaglia di “scontri di civiltà”, guerre di religione, conflitti geopolitici e quant’altro. Va però detto che questo fallimento della “sinistra” non è proprio tutto colpa sua, perché come si poteva mantenere “marxista” e “classista” dopo lo squagliamento vergognoso (perché senza nemmeno un gemito) dell’URSS e dopo la dimostrazione logica dell’erroneità di quella “trasformazione dei valori in prezzi di produzione” che avrebbe dovuto confermare che il profitto non è altro che sfruttamento del lavoro altrui? A ciò si è poi aggiunto un tale rimescolamento delle classi sociali che ha trasformato il “capitalismo padronale” di un tempo, quando di contro avevamo le altre persone, nell’attuale “capitalismo patrimoniale” in cui di fronte abbiamo le altre cose. E mi spiego.
 

Una volta le posizioni di classe erano nette: da una parte c’erano i proletari, sia di città che di campagna, con il loro salario, e dall’altra i “padroni delle ferriere” con i profitti, i proprietari di terre e di case con le rendite, i possessori di risparmi in banca o in borsa con gli interessi e i dividendi. Insomma, c’eravamo noi e c’erano loro. Ma oggi? Complice la grande “rivoluzione salariale” degli anni ’60-’70, il lavoratore medio ha visto crescere il proprio reddito fino al punto di potersi permettere l’acquisto della propria casa e (caso mai) anche una seconda abitazione, mentre col denaro risparmiato s’è comprato azioni e obbligazioni sia pubbliche che private, e perfino il suo accantonamento pensionistico è affidato a fondi d’investimento il cui rendimento è fatto dipendere dall’andamento volubile di borsa. Per questo nella sua denuncia dei redditi possono arrivare a confluire, oltre al salario, anche rendite, interessi, dividendi e addirittura profitti se nel tempo libero esercita, lui o la sua famiglia, una qualche attività in proprio. Ed è per questo che il suo livello di benessere economico viene ad essere il risultato non soltanto dalla remunerazione che gli paga il suo datore di lavoro, ma pure dalla redditività del patrimonio mobiliare e immobiliare che ha costituito nel tempo, alla stessa maniera (fatta salva la dimensione quantitativa) dei “riccastri” di una volta.
 

È quindi per precisa convenienza economica che pure lui si dimostra contrario a qualsiasi provvedimento fiscale che colpisca i redditi patrimoniali o il patrimonio tout court, inveendo ad esempio contro l’imposta sulla casa (IMU) che gli hanno imposto di pagare. E per evitare altre imposte, invoca uno “Stato al minimo” che nel suo immaginario equivale ad un “Fisco al minimo”, ed è perfino disposto a rinunciare ai vantaggi dell’odioso Welfare State (che dovrebbe pagare con le tasse) perché convinto di potere far meglio e a minor costo a proprie spese richiedendone i servizi ai privati (che comunque su quei servizi ci lucrano). E se poi il reddito adeguato per pagarsi il suo benessere gli venisse a mancare, ha già pronta la ciambella di salvataggio delle mille istituzioni della sussidiarietà che suppliscono ai vuoti della “mano pubblica” e alle quali, finché può, generosamente concede donazioni monetarie e tempo di volontariato pur di sentirsi la coscienza “di sinistra” a posto, senza domandarsi se per caso quelle istituzioni non facciano profitti a sue spese. A suo dire, tutto ciò che guadagna dovrebbe restare in tasca sua, sfuggendo a quella “mangiatoia” dello Stato dove non ci stanno che “rubberie” e “corruzzzione”.

Non sapendo più di economia (il marxismo era anche stato una palestra di educazione economica popolare, ma questa educazione ormai si è persa), non sa più nulla della “natura e le cause della ricchezza delle nazioni” (copyright Adam Smith) e si accontenta di giocare al “libero mercato” sicuro di potersela cavare con quel poco potere di monopolio che possiede quando affitta una seconda casa oppure deposita in banca i propri risparmi o li azzarda in borsa (salvo poi invocare, quando ci rimette, l’intervento “salvifico” dello Stato, come se lo Stato i propri soldi non li ricavasse da quelle imposte e tasse che lui si rifiuta di pagare). Per questo è favorevole, finché gli “affari” vanno bene, anche alle politiche di austerità espansionistica (che tuttavia espansionistiche non sono, ma la spiegazione richiederebbe un discorso troppo lungo), inconsapevole che quelle politiche non sono nemmeno d’origine autoctona, ma gli vengono imposte dall’esterno nell’interesse di affaristi e speculatori finanziari stranieri che trovano la propria ragion d’essere in quella che una volta sarebbe stata chiamata la geometria dell’imperialismo. 

Parlando di crisi non potevamo non chiedere – come abbiamo fatto in altre occasioni su questo sito – un parere sulla crisi europea. Senza entrare nell’inflazionato dibattito “Euro sì - Euro no”, chiediamo come leggi questa nuova fase del capitalismo. Il nuovo secolo è cominciato con una grande crisi proveniente dagli Stati Uniti d’America, la cosiddetta crisi Dot-com, e ancora oggi viviamo nell’onda lunga della grande crisi dei subprime, sempre proveniente dal paese nordamericano. Sembra che oggi, soprattutto in Europa, non si riescano a trovare delle controtendenze che superino questa – come l’hanno definita alcuni economisti – lunga stagnazione. Cosa ci aspetta in Italia e in Europa nel prossimo futuro?

Con quanto appena detto sono già entrato nell’argomento di questa domanda: come sta di salute l’economia di oggi (lo dico subito: male) e quali possono essere le “medicine” da prendere per superare il suo presente stato di malessere?
Si diffidi sempre di chi racconta che le difficoltà economiche attuali sono dovute alla mancanza di risparmio a fronte di un troppo indebitamento, perché è vero il contrario: c’è nel mondo troppo risparmio o, per meglio dire, ce n’è troppo rispetto agli investimenti che vengono fatti. E così quel risparmio in eccedenza viene prestato alle famiglie e agli Stati indebitandoli entrambi, soprattutto gli Stati che “non possono fallire” e che rimborseranno i creditori con imposte e tasse a carico dei propri cittadini (che si presume siano sempre cittadini altrui). Ora di una simile situazione di sovra-risparmio, che si sta cronicizzando, hanno preso a parlare economisti come Larry Summers e Paul Krugman segnalando il pericolo di una stagnazione secolare(ma l’aggettivo è esagerato) quale cifra caratteristica di uno stato di malessere in cui c’è grande capacità di risparmio, perché i profitti, le rendite, gli interessi e i dividendi sono alti mentre i salari sono bassi, ma non c’è convenienza ad investire nella produzione “reale” perché le aspettative di domanda non si prevedono allettanti. Il che si capisce: se si riducono i salari, s’indebolisce la domanda di consumo delle famiglie che ben difficilmente potrà essere compensata da quella dei “riccastri” ed è per questo che le banche hanno provato a sostenere la domanda delle famiglie concedendo loro, con azzardo e dovizia, il “credito al consumo”, ma gli è andata subito male e ci è arrivata addosso la Grande crisi dei mutui subprime!

Ora fronte ad una situazione economica siffatta che fare? Per capirci qualcosa di più c’è bisogno di un po’ di strumentazione analitica quale può essere data dalla teoria dei saldi settoriali a cui si arriva considerando che il Reddito nazionale (chiamiamolo Y) è pari alla somma dei Consumi delle famiglie C, degli Investimenti privati I, della Spesa pubblica G al netto delle Tasse T e dalle Esportazioni X al netto delle Importazioni M, ossia:
Y = C + I + G – T + X – M
Se poi si tiene conto che il Risparmio S non è che il Reddito al netto dei Consumi:
S = Y – C
allora la formula di cui sopra finisce per arrangiarsi così:
(S – I) = (G – T) + (X – M)
da cui si vede che, se a sinistra c’è troppo risparmio rispetto agli investimenti (S > I), bisogna che a destra ci sia spesa pubblica maggiore delle tasse (G > T) e/o più esportazioni rispetto alle importazioni (X > M). In sintesi, a fronte di un sovra-risparmio nel “settore privato”, il rimedio può essere soltanto una economia “trainata dalle esportazioni” (export-led, come si dice) oppure “trainata dalla spesa pubblica” (deficit-led) oppure un mix di entrambe (export-led + deficit-led) – e da qui non si scappa.

Però sarebbe opportuno quantificarlo questo sovrarisparmio. Ho i dati per l’Unione Europea a 19 paesi (che è quanto a noi è più vicino) e da essi si apprende che il “saldo privato” (S – I) è positivo e in crescita essendo passato dai 545 miliardi di euro del 2011 ai 676 mld del 2015, mentre a compensazione il “saldo estero” (X – M) risulta altrettanto positivo e in aumento dai 135 mld del 2011 ai 461 del 2015 ed il “saldo pubblico” (G – T) è positivo ma in calo, essendosi ridotto dal 409 mld del 2011 ai 215 mld del 2015 (questa diminuzione è la conseguenza delle politiche di austerità introdotte con l’accordo di fiscal compact del 2012 in cui si richiede che in un anno prossimo a venire il bilancio pubblico di ogni paese sottoscrittore sia portato “al pareggio o in avanzo”). Abbiamo così conferma che l’Unione Europea soffre di troppo risparmio rispetto agli investimenti, che compensa con l’export-led (a crescere) e col deficit-led (ma a calare). E di questa difficoltà si sono finalmente accorti anche i governatori di Bundesbank e Banque de France che in una lettera congiunta del febbraio 2016 hanno proposto l’istituzione di un Ministro del Tesoro europeo proprio per affrontare “il paradosso di un risparmio abbondante che non viene sufficientemente mobilizzato per investimenti”.

E sulle prospettive future di questi saldi settoriali che si può dire? Intanto che, data la complicata congiuntura geo-politica di quest’anno (Brexit, Trump e referendum) e del prossimo (elezioni in Francia, Austria, Olanda, Germania e fors’anche in Italia) è assai probabile che aumenti quel risparmio precauzionale allergico all’investimento (in caso d’incertezza non è forse meglio accantonare quattrini?), mentre nell’ipotesi che persistano ancora le politiche di austerità di cui tutti si lamentano ma nessuno sembra in grado di correggere, non resta che cercare al di fuori del “saldo pubblico” il rimedio per compensare l’eccedenza del “saldo privato”.

Che il rimedio possa stare nell’aumento del “saldo estero”? C’è da dubitarne perché al momento la globalizzazione non gode più tanto di buona fama e sempre più si levano inviti ad adottare politiche di “protezione nazionale”. In passato, all’ombra della globalizzazione gli scambi tra le nazioni erano cresciuti in percentuale più velocemente del PIL mondiale, ma ora non è più così: come documenta il WTO, per la prima volta da 15 anni nel 2016 gli scambi sono cresciuti dell’1.7% a fronte di un aumento del PIL globale del 2,2% e questa contrazione dei commerci è dovuta al fatto che grandi economie nazionali, come gli Stati Uniti o la Cina, stanno diventando più “introverse” che “estroverse”. Intanto gli Usa non comperano più petrolio dal resto del mondo perché, con le nuove tecniche del fracking, ne hanno fin troppo in casa propria e addirittura hanno preso a venderlo sul mercato internazionale, mentre la Cina, in via di trapasso ad economia post-industriale e di servizi, punta più sull’espansione della domanda interna, sostenuta dall’aumento programmato dei salari, invece che sulle esportazioni. Così gli scambi internazionali si riducono come fu già durante la Grande Crisi degli anni ’30, e gli economisti, proprio come allora, avanzano suggerimenti protezionistici, come dazi o controlli sui movimenti dei capitali, in caso di crisi nazionali particolarmente accentuate. Con l’elezione di Trump c’è addirittura il caso che gli Stati Uniti possano porsi come un freno a quegli accordi commerciali che “ci rubano occupazione e imprese”, dopo esserne stati i promotori. E c’è chi ne sta già facendo le spese come il TTIP, il grande accordo di libero scambio tra USA e UE che sembra ormai sulla via del ripudio, o come i grandi spedizionieri di container che nel 2016 hanno registrato cali nel trasporto del 30% rispetto all’anno precedente e dell’80% rispetto al 2007.

Se quindi non c’è da sperar troppo di compensare il sovrarisparmio sulla parte destra dell’equazione dei “saldi settoriali”, non resta che affrontarne direttamente il lato sinistro dove spicca la sua forbice con gli investimenti. Ma in che modo? È ovvio: aumentando gli investimenti oppure riducendo il risparmio. E nella prima direzione si è mossa decisamente la BCE con lo strumento classico della politica monetaria, ossia con la riduzione del tasso d’interesse che ormai è stato portato al limite estremo di quasi lo 0,00%. Ciononostante gli investimenti privati non ne hanno affatto risentito, il che è evidente: siccome gli investimenti dipendono dalla differenza delle aspettative di profitto rispetto al tasso d’interesse, se le prime sono negative anche un tasso d’interesse nullo non può rianimarli. Per questo Mario Draghi ha provato a stimolarli con il “bazooka” (come lui stesso l’ha chiamato) del Quantitative Easing, che consiste nell’aumentare la base monetaria europea (la BCE è l’unica istituzione autorizzata a stampare euro) tramite l’acquisto di titoli pubblici e privati in circolazione. Ma, non potendo per statuto acquistarli direttamente dalle imprese e dagli Stati nazionali (come invece è consentito alla Federal Reserve americana), ha dovuto comperarli sul “mercato secondario”, ossia dalle banche che li possiedono nel loro portafoglio. Si riteneva che con il denaro ricevuto in cambio le banche avrebbero generosamente concesso prestiti alle famiglie e soprattutto alle imprese, eppure non è affatto andata così.

Il Quantitive Easing è cominciato di fatto nel marzo del 2015 e fino a dicembre è stata emessa moneta per 658 mld di euro; nello stesso periodo di tempo i prestiti bancari alle famiglie sono aumentati di 102 mld, ma quelli alle imprese si sono ridotti (!) di 42 mld, così che la ricaduta sull’economia “reale” è stata di soli 60 mld. Ma la differenza di moneta emessa dove è andata a finire? In grandissima parte è ritornata alla BCE, nel conto generale di tesoreria che ogni banca vi detiene, che in effetti è aumentato di 515 mld, e ciò nonostante che la BCE, per scoraggiarne il rientro, abbia imposto un tasso d’interesse negativo sui propri depositi dello 0,30% (lo 0,40% dal marzo 2016). Ma tant’è: se non si prevedono prospettive di profitto dalla produzione “reale”, non è più conveniente parcheggiare il contante presso la più che sicura BCE, anche pagando un “pedaggio”, piuttosto che prestarlo ad imprenditori che li investirebbero a rischio e forse malamente?

Però a questo punto che cosa resta per riequilibrare il “saldo settoriale privato” se non quello di aggredire direttamente quel troppo risparmio distruggendolo? E come si fa? Bisogna tornare alle banche, che sono istituzioni intermedie che sono creditrici per i prestiti che concedono ai clienti (famiglie e imprese), ma pure debitrici per le azioni e obbligazioni che hanno emesso e per i depositi che ricevono. Ora si dà il caso che nella congiuntura attuale i debitori non siano più in grado di restituire integralmente i prestiti ricevuti. Qualche cifra: per il sistema bancario italiano si stimavano all’inizio del 2016 almeno 200 mld di euro di crediti “in sofferenza” rispetto ai 44 mld del 2008, e con prevalenza di quelli alle imprese (144 mld) quale conseguenza inevitabile (come ha spiegato il governatore della Banca d’Italia) di 90 mila imprese che nel frattempo sono fallite e di un calo del 20% della produzione industriale. 

Ma se le banche non ricevono indietro i soldi prestati, come potranno ripagare i loro creditori? Non possono e per evitare il fallimento dovranno chiedere agli azionisti di sottoscrivere un adeguato aumento di capitale a copertura di quei crediti “deteriorati” oppure fare intervenire lo Stato ad acquistarli, liberando le banche dal loro ingombro, con i soldi ricavati da maggiori imposte oppure in deficit spending. Però nella Unione Europea della “austerità ad ogni costo” ciò non è più consentito perché dal gennaio 2016 è stata introdotta la nuova procedura del bail-in (in Italia  sperimentata in anticipo, nell’autunno 2015, per il “salvataggio” di quattro banche chiacchieratissime i cui creditori hanno visti ridursi per legge i propri risparmi al 17,8% del valore nominale). Con il bail-in si è stabilito che a copertura dei prestiti “deteriorati” siano i creditori bancari a farne le spese con una svalutazione coatta (nell’ordine) delle azioni di chi ha investito a rischio, delle obbligazioni di chi ha prestato ad interesse e perfino dei depositi oltre i 100.000 euro di chi ha soltanto parcheggiato il contante (in quest’ultimo caso è come se un teatro, di fronte ad un incasso insoddisfacente, trattenesse i cappotti ricevuti in guardaroba per rivenderli). Ma nella nuova Europa della finanza vale il principio che non soltanto è colpevole chi chiede soldi a prestito (nella lingua germanica la parola schuldsignifica sia debito che colpa), ma pure chi li presta, così che, se il risparmio viene affidato a banche incapaci di valorizzarlo, la colpa è del prestatore incauto e non del banchiere incompetente! Né sono valse le proteste avanzate da più parti (anche dal governatore della Banca d’Italia) perché il presidente dell’Eurogruppo ha spiegato che ormai “le regole sono cambiate” e la Corte di Giustizia europea ha sancito con sentenza che la condivisione delle perdite bancarie da parte di tutti i creditori, correntisti compresi, “non viola le regole dell’Unione”. La logica è quella per cui (“La Repubblica”, 25 luglio 2016) anche “il risparmiatore deve imparare a rischiare” e quindi, pur di salvare le banche, che li perda i suoi soldi!

Siamo così giunti al termine del nostro viaggio dentro i “saldi settoriali” dell’economia europea: al povero salariato che, a vario titolo, ha “patrimonializzato” i propri risparmi sfruttando gli anni dorati della “rivoluzione dei redditi”, di fronte ad un “saldo estero” che non tira a sufficienza perché la globalizzazione è stanca e ad un “saldo pubblico” a calare perché la spesa pubblica è vista come il peggiore dei mali, a fronte dell’inerzia degli investimenti privati perché “il cavallo non beve”, non resta, dopo aver perso i propri risparmi in Borsa per colpa del mercato, che vederseli azzerare per forza di legge in Banca. Aveva pensato di poter partecipare pro quota alla nuova dimensione del “capitalismo dei patrimoni” comportandosi da brava formichina che non spende e risparmia, ma la sua è stata soltanto una illusione di essere promosso a rentier (redditiero) come i ricchi di un tempo perché la sua natura resta quella del salariato cosicché alla prima difficoltà del capitale la sua incongrua intrusione nel campo patrimoniale va respinta e quei suoi soldi risparmiati gli devono essere tolti.


Infine un argomento che interessa il nostro percorso di studi. Abbiamo scelto – dopo varie discussioni – di costituirci, come collettivo PalermoGrad, in associazione, chiamandola proprio WERT (cioè “valore”). Riteniamo che sia ancora importante dibattere in ambito accademico, ma soprattutto in ambito politico, di valore-lavoro. L’anno scorso abbiamo discusso un tuo testo sull’argomento (Storia del valore-lavoro, Giappichelli 2011), oltre ad aver organizzato vari seminari su autori come Smith, Ricardo, Marx, Luxemburg, Hilferding, Schumpeter, Sraffa e altri. Ti chiediamo perché secondo te sia oggi importante continuare a discutere di valore-lavoro, anche in un momento in cui in quel po’ di sinistra radicale che esiste, l’argomento è stato messo in soffitta con l’intero impianto teorico del secolo scorso.


Per comprendere lo stato attuale della teoria del valore-lavoro (il mio referto medico è questo: è in convalescenza, perché la malattia è superata, ma ben pochi ancora lo sanno) è necessario ripassarne un po’ la storia. 

Non c’è dubbio che, se le merci fossero prodotte a solo lavoro, il loro valore coinciderebbe esattamente con la quantità del lavoro occorso per produrle. E questa era stata l’opinione avanzata da Adam Smith e confermata da David Ricardo, che però aveva dovuto ammettere che la cosa si complica quando interviene anche un solo bene-capitale perché allora (ma la soluzione sarà di Marx) quel valore dovrà tenere conto, oltre che del lavoro “di oggi”, anche del lavoro “di ieri” che ha prodotto il bene-capitale. Tuttavia (e qui Marx ha sbagliato) nell’imputare il lavoro “di ieri” all’“oggi” esso va capitalizzato secondo il saggio del profitto per il tempo trascorso da ieri a oggi, con il bel risultato che il valore delle merci prodotte con lavoro e beni-capitali supera necessariamente il lavoro “di ieri e di oggi” per una quantità di profitto quale conseguenza di qualcosa d’altro dal lavoro (che so? Una fantomatica produttività del capitale in quanto tale?). Finita la stretta equivalenza del valore al lavoro (il che è stato ufficialmente riconosciuto più o meno in coincidenza con l’involuzione ultima dell’URSS), gli economisti “di sinistra”, orfani dell’una e dell’altra, hanno ripiegato sulla presupposizione di un sovrappiù (da intendersi come il prodotto netto che rimane dopo aver tolto dal prodotto lordo tutti i beni-capitali che sono serviti a produrlo) quale risultato indiscutibile della “tecnica” in uso, il cui valore va soltanto ripartito tra salario e profitto secondo il rapporto di forza tra le classi sociali. È stata questa la ritirata strategica dello “sraffismo” a cui i marxisti “duri e puri” si oppongono perché rifiutano di riconoscere un qualsiasi difetto nella formulazione della teoria del valore-lavoro di Marx.

A ripresa invece della teoria del valore-lavoro si è mossa la New Interpretation (che peraltro adesso sappiamo essere implicitamente presente in Sraffa stesso, sebbene di ciò gli “sraffisti” altrettanto “duri e puri” non vogliano sentir parlare) nella quale si riconduce il valore di quel sovrappiù alla quantità del solo “lavoro vivo” impiegato, non essendoci più bisogno di calcolare il lavoro “di ieri” che ha prodotto i beni capitali che sono stati eliminati dal computo del sovrappiù. È questa la teoria del neovalore-lavoro a cui fanno riferimento all’estero economisti come Duménil e Foley e in Italia Stefano Perri, Riccardo Bellofiore e io stesso. 

Dopo di che è possibile procedere oltre. Utilizzando un suggerimento avanzato dallo stesso Sraffa in alcuni appunti personali recentemente pubblicati, se si considera che il salario monetario pagato all’inizio del periodo di produzione viene poi speso alla fine del periodo traendo i beni di sussistenza dalla massa del sovrappiù, giusta l'equivalenza del suo valore col “lavoro vivo” ne consegue che il valore dei beni-salario acquistati non è altro che la quota di partecipazione dei lavoratori al “lavoro vivo” che hanno erogato in complesso, e cioè quella sua parte che Marx ha chiamato “lavoro necessario”. Dopo di che, per differenza dallo stesso “lavoro vivo”, quanto resta non è che pluslavoro, ossia la parte di “lavoro vivo” di cui i capitalisti si appropriano a titolo di profitto. È così riconfermato che il valore del sovrappiù prodotto non è altro che lavoro (vivo), mentre il profitto è pluslavoro, ossia sfruttamento del lavoro (vivo) altrui.
​

Restano soltanto due ultime considerazioni da fare. La prima è che il profitto, in quanto pluslavoro, dipenderà dalla dimensione del “lavoro vivo” attivato all’inizio del periodo di produzione, ma pure dei prezzi che verranno imputati al sovrappiù quando i lavoratori, spendendo il salario monetario ricevuto, accederanno al valore dei beni-salario a loro necessari, e quindi al loro “lavoro necessario”. E quindi il profitto avrà due variabili di riferimento: lo sfruttamento dei lavoratori nel luogo della produzione e lo sfruttamento dei consumatori sul mercato, potendo compensarsi il calo di uno sfruttamento con l'aumento dell'altro.
La seconda rinvia all’importanza strategica di quel salario monetario pagato all’inizio del periodo di produzione: scomposto nel salario pagato individualmente (contrattato con il sindacato) moltiplicato per la quantità di “lavoro vivo” complessivamente attivato (che è invece a discrezione delle imprese), è dal suo ammontare disponibile all’inizio del periodo di produzione che risulta la quantità del “lavoro vivo” che, in collegamento non soltanto quantitativo ma anche qualitativo con i beni-capitali esistenti secondo il “coefficiente tecnologico” in atto, darà luogo alla quantità del sovrappiù di cui si ricerca il valore-lavoro. E proprio in merito a questo ammontare di salario monetario iniziale possiamo ritrovare un interessante collegamento con la teoria del circuito di Augusto Graziani in cui si attribuisce alle banche il compito di fornire in anticipo alle imprese la quantità di moneta necessaria a pagare il salario ai lavoratori da mettere all’opera per la produzione di quel sovrappiù il cui neo-valore è pari al lavoro vivo contenuto. ​
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LA BARBARIE PROSSIMA VENTURA (con mezzo Ponte sullo Stretto)

13/12/2016
di Alessandro Locatelli 

Ho terminato di leggere qualche ora fa il terzo e ultimo volume della trilogia di romanzi, usciti contemporaneamente, della palermitana, anzi flavese, Germana Fabiano (s'intitolano Tra Scilla e Cariddi, L'ultimo rais, Motya). Li ho bevuti in pochi giorni e, come in fondo prevedevo, mi ritrovo ad essere un tantino - un tantino, eh? - invidioso, e un bel po' seccato. Diciamo pure incazzato, via. Invidioso - un tantino, eh? - perché Germana, della quale ho letto anche tutti i libri precedenti, mi si conferma essere una scrittrice parecchio più talentuosa del sottoscritto. E vabbè, a questo mi sto rassegnando. Seccato - incazzato, via - perché 'sti tre bellissimi romanzi stanno passando fondamentalmente sotto silenzio. E, temo, questa mia recensione - sfogo - sproloquio, non riuscirà a cambiare granché le cose.

Dunque: una trilogia assai meno trilogia di quanto mi aspettassi. Tre romanzi che hanno in comune soltanto la Sicilia, e il mare. Potevano anche essere pubblicati a distanza di anni l'uno dall'altro. In apparenza. Nella realtà, a mio modo di vedere, è giusto che camminino e vivano insieme. Dentro le loro pagine ci sono mondi e destini che cambiano inaspettatamente e tumultuosamente, lasciandosi dietro e dentro di se rimpianti e ingombranti rottami.

Tra Scilla e Cariddi è, quasi, un romanzo di fantascienza. Un brutto giorno si verifica un improvviso e irrimediabile black-out tecnologico. Niente più telefonini, niente più Internet. Puff, dissolti. Si potrebbe, dovrebbe tornare a scrivere con carta e penna, con le vecchie, gloriose macchine da scrivere, ma, ecco, la carta è razionata, anche i nastri inchiostrati, la carta carbone. E poi per strada transitano solo biciclette scassate e vecchi autobus, e poi ancora non c'è più caffè, alcuni cibi scarseggiano...in una situazione del genere, non sarebbe da pazzi volersi intestardire, dando fondo alle residue economie, a completare il Ponte? Si, lui, il famigerato Ponte sullo Stretto, sogno e incubo di generazioni di siciliani e calabresi. Il Ponte, da anni, è interrotto a metà. Mezza campata sospesa nel vuoto (Mi viene un brivido, se tento di immaginarmelo). Ci si potrebbe camminare sopra per chilometri, come fa ogni mattina, ostinatamente, un vecchio centenario, per ritrovarsi sospesi su uno strapiombo, a un passo dal precipitare sul mare. Pericoloso, sì. Ma provare ad opporsi al suo completamento, come fanno, giustamente, un pugno di irriducibili, è ancora più pericoloso.

L'ultimo Rais. Che vita, la vita in una piccola isola. Scandita da ritmi lenti, dove ci si conosce tutti, dove le tradizioni, le convinzioni hanno un grande peso. In quest'isola si vive di pesca, pesca di tonni, quella cosa grandiosa e crudele che avviene una volta all'anno e si chiama mattanza. Il Rais, colui che guida, comanda la mattanza, una sorta di direttore d'orchestra, appartiene da secoli alla stessa famiglia. E se non ci sono eredi maschi, poco male: una donna saprà fare egregiamente questo lavoro "da maschi". Ma non è detto che una tonnara possa vivere in eterno, non è detto neppure che un'isoletta non debba suo malgrado diventare in un certo senso il centro del mondo, quando dovrà accogliere centinaia di disperati fuggenti dalle guerre, dalla fame. Anche un ometto insignificante, e che custodisce un grande segreto, può arrivare ad uccidere, e non una volta, per difendere il suo mondo. Ma non è detto che serva, anzi. E così può capitare che dopo tanti anni una donna, che ha saputo accettare il suo destino fino a renderlo parte integrante di una vita inimitabile, si ritrovi a far da guida turistica tra le stesse mura, ormai diroccate, che fino a dieci, quindici anni prima, l'avevano vista regina.

Motya è, dei tre, il romanzo che ho letto per ultimo, quello che immagino sia costato maggior fatica, almeno per quanto riguarda lo studiare, il documentarsi (la storia narrata inizia nel 399 avanti Cristo). Ed è quello per me più difficile da riassumere.

È un grandioso affresco con al centro la tragica figura del sacerdote Hiram, zoppo, deforme, crudele, disperatamente solo. Ma forse, e senza forse, tutte le figure che popolano questo romanzo - artisti, uomini di potere, schiavi, donne bellissime, guerrieri, ancelle, una ragazza in grado di prevedere il futuro - sono tragiche. Però si legge lo stesso tutto d'un fiato, come del resto gli altri due.

Cos'altro dire? Banalmente: leggeteli, sono belli 'sti tre romanzi, davvero. Anzi, se ne scriveva quattro, o cinque, perché non sei? era pure meglio.
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E allora chiudo non trovando di meglio che ribadire: Germana, ti invidio!
 
 
I tre romanzi di Germana Fabiano sono pubblicati da Robin e fanno parte del trittico CONCERTO SICILIANO.

L’ultimo libro di Alessandro Locatelli è TUTTI QUESTI EDIFICI IN COSTRUZIONE. Del suo TROPPO, TROPPO TARDI abbiamo parlato qui. 
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MA GLI OPERAI VOTANO? 

9/12/2016
di Roberto Salerno (*)

La vittoria del “NO” al referendum ha avuto una lettura prevalente: è il successo di Grillo e Salvini e segna il definitivo trionfo del populismo in Italia. Così come in Gran Bretagna il 
Leave e negli USA Trump hanno certificato un immaginario trionfo del populismo, agevolato dal voto operaio, in Italia una maggioranza, identificata qui come il “ceto medio impoverito” di concerto con una classe operaia incanaglita e incapace di comprendere lo spirito, precario, del tempo, avrebbe trascinato il Paese in una spirale che avrà come sbocco un governo Grillo (magari con Salvini, anche se non si capisce come). Uno sbocco comunque reazionario e questo, dicono, sarà il prodotto (e la responsabilità) di chi ancora illude larghi tratti della popolazione che le garanzie novecentesche, la stabilità del “secolo del lavoro” sia ancora possibile. Qualcosa del genere si era visto appunto dopo l’elezione di Trump e il voto sulla Brexit.
 
Subito dopo l’imprevista – più o meno – vittoria di Trump alle elezioni statunitensi si è immediatamente alzata la canea diretta verso il solito tradimento della classe operaia, che avrebbe votato l'impresentabile tycoon. Se la maggior parte di queste sbavanti accuse erano – e sono – semplici tentativi di deresponsabilizzazione di quella che incredibilmente viene a volte definita “sinistra” di governo, alcune di esse hanno fatto presa anche su insospettabili e disinteressati commentatori.

La questione è abbastanza nota ed è ormai diventata globale (forse in ossequio alla globalizzazione). In buona sostanza si ritiene che la classe operaia – nonostante da più di un decennio le politiche delle compagini governative che continuano a definirsi, se non di sinistra, “non di destra” abbiano massacrato le fasce più deboli della società – invece di votare per chi questo massacro ha perpetuato e promette di perpetuare, si sposti sempre più a destra, oltrepassando i confini del razzismo. E sia il voto a destra, sia il voto su singole – anche se rilevanti – questioni come la Brexit sarebbero tutti da mettere nello stesso calderone, quello del tradimento – alcuni si spingono fino all’irredimibilità – della classe operaia.
 
Senza voler troppo entrare nel merito della vicenda ci sembra che almeno due elementi vadano quanto meno problematizzati, prima ancora di esprimere una sommessa opinione.
 
La prima riguarda la non banale questione di cosa si parla quando si parla di classe operaia. La seconda se sia lecito fare di tutta le elezioni un fascio: se davvero votare Brexit sia la stessa cosa che votare Trump.
Cercheremo alla fine di dire qualcosa sui dati che abbiamo a disposizione.
 
 
Di cosa parliamo quando parliamo di Classe Operaia?
 
Esistono tante classi operaie quanto sono i commentatori che la evocano. A volte emerge l'idea della fascia di reddito (quelli sotto i 50 mila $ annui nel caso statunitense), ma molto più spesso si è più imprecisi. Si va dagli operai che ancora lavorano nelle fabbriche o comunque hanno a che fare con il settore manufatturiero a quelli della logistica; dai precari generici che fanno tre lavori per avere mezzo salario decente a quelli sottoqualificati; dai lavoratori dei fast food a quelli delle pulizie e all’intero terziario “scoppiato”, forse precariato intellettuale compreso. Molti lamentano che, ad esempio, non abbia senso includere l’agente commerciale nella “classe”, facendo saltare l’idea che la soglia del reddito sia quella determinante per l’appartenenza o meno alla classe stessa.
 
Come si può ben comprendere, questa non è una curiosità e basta. Perché il passaggio da questa identificazione a “chi ha votato chi” diventa un po’ surreale. Tant’è che giustamente a chi dice “in quella zona a redditi medi sotto i 50 si è votato Trump” si contrappone chi invita a guardare l’indice di Gini o chi avverte che il dato scarno della media può far prendere cantonate e magari non sarebbe male accompagnarlo con un’analisi che spieghi come si distribuiscano i valori attorno alla media (una popolazione in cui in due guadagnano 100 e in due guadagnano 10 non è la stessa di una in cui tutti guadagnano intorno ai 50). Insomma dai dati territoriali l’impressione è che sia difficilissimo far discendere troppi ragionamenti sul “comportamento della classe operaia”. Il problema (uno dei) è non sapere bene di chi stiamo parlando – ma solo a grandi linee – e quindi perché utilizzare il concetto di Working Class? Non avrebbe senso – fino a quando almeno non ci si mette d'accordo – scorporare il voto dei disoccupati da quello dei lavoratori della logistica? Dei precari intellettuali da quello dei precari da call center?
 
Votare Brexit e votare Trump.
 
Forse legata a queste nostre difficoltà c’è questa tendenza a identificare le due questioni, fino addirittura ad arrivare a dire che la base elettorale dei due voti è la stessa, sociologicamente parlando. Subito dopo il referendum furono pubblicate tutta una serie di mappe colorate che partivano da “i giovani”, “la Scozia”, “le regioni del nord” e arrivavano al quartiere di Manchester. La disputa era la stessa: per chi ha votato la Working Class? All’interno di analisi abbastanza sofisticate non è raro trovare una curiosa “dissonanza” nella descrizione del voto dei quartieri di Londra: quelli che hanno votato Remain sarebbero quartieri di alta immigrazione e di Working Class. Il punto però è che il voto Leave si è imposto anche in quartieri che hanno le stesse caratteristiche. In questi casi alcuni analisti virano verso una spiegazione “altra”, più o meno in buona fede. Si dice ad esempio che “sì, è Working Class, ma lì è dove aveva sfondato Farage”. Il punto è che una precisazione del genere, ad essere rigorosi, svilisce l’idea che il voto sia “spiegato” dall’appartenenza di classe. Che è quello che in effetti hanno detto in molti, tra cui Torsten Bell, che ha concluso che non è pensabile trovare una qualche forma di relazione tra l’appartenenza di classe e il voto sulla Brexit.

In un contesto simile ancorare il voto operaio ad un comportamento univoco – fosse il Remain o il Leave – ha poco senso. Dire “ma lì c’era la roccaforte conservatrice” equivale a dire “ma là NON c’era la roccaforte conservatrice”. Si tratta di una trasformazione della variabile esplicativa: non è più “l’operaio alle prese con una variazione nel suo tenore di vita” che spiega il voto; ma “l’operaio alle prese con una variazione nel suo tenore di vita E che vota X”.

A margine di questo sia permesso di dire che mettere insieme una scelta come quella della Brexit – che PUÒ essere sbagliata – con quella di Trump, che È un voto dato oggettivamente ad un razzista, non è il massimo della chiarezza e confonde ulteriormente ogni tentativo di analisi non gridata. A sinistra le convinzioni sulla questione dell’Euro, da una parte, ma soprattutto la compagnia con cui si finisce col trovarsi se appena appena si ha voglia di affrontare la questione, dall’altra, offuscano non poco. Una cosa è scegliere di andarsene dall’Europa e un’altra è votare Trump.
 
 
Concludendo. De te fabula narratur
 
Tutto questo considerato, la sensazione (i dati che in genere si hanno sottomano non sono mai soddisfacenti) è che la Working Class che ha votato Trump sia numericamente più consistente della Working Class che ha votato Clinton. Detto altrimenti, sembra che alla fine il gruppo socialdemocratico abbia raggiunto una certa omogeneità, di classe appunto. Il che non significa che l’idraulico nero che vota Clinton non esista, ma che il suo gruppo, la sua classe, è numericamente meno rilevante di quella dell’operaio bianco (e nero) che vota Trump. Stiamo parlando sempre di due minoranze – visto che la cosa pacifica è che la maggioranza sta a casa – ma fatto 100 i votanti della “Working Class” (insistiamo: questo 100 è una frazione piccola della “Working Class” totale) la sensazione è che 85 siano da Trump e 15 da Clinton (a spanne; le % sono inventate, ovviamente: è solo per dire “tanto a poco”).

Quindi mentre sarebbe sacrificabile l’idea di parlare a quei “pochi” clintoniani – con la speranza/pronostico che alla fine anche questi 15 si assottiglieranno e resteranno a casa, in quanto più consapevoli – le forze vanno indirizzate verso gli operai trumpiani, magari non foss’altro che per far rimanere a casa anche loro, unico orizzonte tattico praticabile con questi sistemi elettorali e con questi rapporti di forza.

Forse vale la pena ribadirlo ulteriormente. Il comportamento elettorale prevalente della “Working Class” è l’astensione. È stata la perdita dei voti di Clinton rispetto ad Obama la vera causa della sconfitta dei democratici. Questi voti NON si sono trasferiti su Trump. Le riflessioni di cui sopra valgono per una minoranza di Working Class, non certo per la Working Class nel suo complesso, qualsiasi cosa si intenda con questo termine.
 
Ad occhio anche in Italia succede una cosa del genere ed era sin troppo semplice prevedere che si sarebbe assistito a questo “dibattito” a partire dal 5 dicembre, con il “SÌ” come Clinton e Remain e il “NO” letto come il voto a Trump e al Leave. Del resto, col blocco che rappresenta gli elettori del PD una sinistra appena appena decorosa non ha nulla in comune, ed è quasi fisiologico che non venga neanche la voglia di andare a parlargli. Cosa che non significa che non ci sia anche nel PD qualche idraulico nero. Con gli elettori di Grillo o di Salvini, che sono classe in sé, invece sì.

Questa narrazione è impermeabile a qualsiasi tipo di analisi, ma non bisogna credere che sia un problema di competenza. Il racconto dell’elettorato è lotta politica e serve a costruire una rappresentazione consolatoria. Così se i giovani votano Remainsono l’esempio di come le nuove generazioni vogliano il cambiamento; ma se votano “NO” sono l’esempio di una gioventù ignorante ed egoistica ed il risultato di un sistema formativo da stravolgere. Specularmente gli anziani che votano “SÌ” incarnerebbero la saggezza e quelli che votano Leave bloccano il futuro del Paese.

Non c’è da sorridere su questo, perché il senso comune costruito dalla grande stampa passa da queste contraddizioni, rivolte ad un pubblico che in genere utilizza solo i quotidiani – e magari qualche patinato periodico degli stessi: è incredibile la rozzezza di quello de “Il Sole 24 ore” – e si sorprende che Renzi sia così odiato. Renzi da due anni non riesce a fare un comizio in una qualsiasi piazza d’Italia senza la protezione di poliziotti e carabinieri, circa 150 volte lui o membri del suo governo erano stati costretti ad annullare gli eventi di cui erano protagonisti: ma questo un lettore di “Repubblica” o “Stampa” o “Corriere della Sera” non l’ha mai saputo.

In questo senso – e solo in questo senso – tra due baratri meglio questo. Non è né “tanto meglio tanto peggio” né “il male minore”. È solo cercare di trovare un qualche vantaggio in una situazione oggettivamente disperata.
​
In fondo uno dei problemi della pratica politica di questi anni è stato quello di dover opporsi a compagini governative con un passato più o meno presentabile e con un presente ambiguo, prontissimo a concedere aperture sui diritti civili – o quantomeno a fingerne – e spietato sul versante dei diritti sociali ed economici. Affrontare un nemico finalmente senza maschera non è detto che sia un disastro peggiore.


(*) Questo articolo nasce originariamente come commento ad una discussione che potete trovare qui ​
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SI PUÒ FARE: ​LA VITTORIA DEL NO 

6/12/2016
di Giovanni Di Benedetto 

Sebbene molto spesso i numeri non dicano tutto, ci sono delle volte in cui la loro evidenza diventa quasi un pugno allo stomaco. È il caso dell’alta affluenza alle urne al referendum costituzionale e della vittoria del fronte dei No, con il suo schiacciante 60%. «Non credevo che potessero odiarmi così tanto», sembra abbia confessato, secondo il “Corriere della Sera”, il capo del governo (ci si augura ancora per poco) ai suoi più stretti collaboratori. «Un odio distillato, purissimo», continua il quotidiano più letto d’Italia, orchestrato non dagli italiani ma dai suoi avversari politici, interni al Partito democratico. Quella minoranza del Partito, per esempio, che ha fatto in modo che «ora Beppe Grillo si senta già al governo».


Dette da Renzi, rimasto celebre per quel «stai sereno» col quale ha ribaltato e mandato a casa Letta e il suo governo, queste parole suonano, a dir poco, paradossali. E testimoniano della distanza siderale che oramai separa i politici della casta, tutti inquadrati nei loro intrighi di potere e nelle loro imboscate di palazzo, dai problemi delle persone comuni, alle prese con bisogni elementari e fondamentali a cui non riescono più a fare fronte. La mobilitazione massiccia, a favore di Renzi, di tutta la sfera della politica istituzionale e degli apparati mass-mediatici, rispecchia un mondo oramai separato dai problemi quotidiani del paese reale, mentre la sconfitta del fronte del Sì, con il dato numerico roboante che sappiamo, ci parla di una protesta e di una avversione eclatanti nei confronti dell’intera classe dirigente del nostro Paese. La classe dirigente di un mondo di lustrini, fantasmagorie e menzogne televisive che ha oramai perso, con Renzi in testa, la percezione della sofferenza di ceti medi impoveriti, della miseria dei settori più umili della società e del malcontento delle classi popolari più svantaggiate. 
Dunque, se il risultato del referendum dovesse essere interpretato solo come il frutto di immaginari intrighi di palazzo, che non c’è dubbio ci saranno pur stati, saremmo fuori strada. La sconfitta di Renzi è, invece, espressione di un voto di protesta, come con la Brexit e come con Trump, che si indirizza contro l’establishment e che segna la sconfitta del disegno strategico che pretendeva di adeguare, con una deriva di tipo autoritario, l’architettura politico istituzionale del Paese ai diktat della tecnocrazia europea e della finanza globalista. Era un progetto che, si badi bene, resta ancora in campo, e che tentava di rispondere con un di più di capitalismo, libero mercato, precarizzazione e deregulation, alla crisi economica di sovrapproduzione scoppiata tra il 2007 e il 2008 e alle conseguenti ricette «modernizzatrici» dettate dall’austerity.

 La scongiurata vittoria del Sì, lo si è ripetuto sulle pagine di questo sito web, avrebbe avuto lo scopo di chiudere, sul piano delle politiche economiche e sociali, il cerchio delle controriforme renziane mettendo dentro, in un’unica combinazione, Jobs act, privatizzazione del pubblico (legge 107 sulla scuola, drastici tagli a pensioni e sanità) e riforma istituzionale e elettorale in chiave cesaristica, plebiscitaria e autoritaria. Sarebbe stato l’atto sanzionatore col quale si sarebbe posta la parola fine a tutele e diritti sociali peraltro già erosi lungo uno svolgimento storico quasi trentennale. In conseguenza di ciò, l’esito esiziale sarebbe stato, allora, quello di immiserire l’esecutivo nazionale facendone, anche dal punto di vista normativo,  una mera camera di compensazione, l’interfaccia tra le direttive della troika di Bruxelles e una collettività ridotta a ricettacolo passivo e privo di qualsiasi aspirazione e tensione alla sovranità. In una fase storica nella quale il malcontento e il disagio sociale si preannunciano più aspri, il progetto del leader di governo e del Partito Democratico aspirava ad assecondare le preoccupazioni dei gruppi dirigenti e delle oligarchie finanziarie del Paese, sempre più preoccupate per la china disastrosa dell’economia e, soprattutto, sempre attente a non vedersi scalfire i propri lauti profitti.

Nel Mezzogiorno e in Sicilia, dove il clima sociale e le condizioni economiche della popolazione si sono, negli ultimi anni, aggravati e deteriorati, il voto lancia un segnale chiaro. Si può ipotizzare che il meccanismo elettorale referendario abbia agevolato l’espressione di un consenso solitamente condizionato, nelle elezioni politiche e amministrative, da meccanismi ricattatori e tipici del voto di scambio. Tuttavia, sembra abbastanza chiaro che, a fronte di una significativa riduzione dei flussi di spesa pubblica erogati con metodi clientelari e corruttivi, la borghesia mafiosa e il suo apparato politico regionale rischiano di perdere, in un processo che è comunque sempre reversibile, la tradizionale capacità di mediazione tra meccanismi decisori centralizzati e bisogni locali e territoriali. È anche per questa ragione se, in modo confuso e indistinto, si leva la protesta contro l’assurdo meccanismo dell’euro che, in modo asimmetrico e squilibrato, integra il Mezzogiorno all’interno dell’economia capitalistica europea, aggravando condizioni di miseria e aumentando, nella versione inedita di un rinnovato sottosviluppo, la divaricazione economico-sociale nei confronti delle regioni del centro.

Le destre, con la spregiudicatezza becera che le contraddistingue, un misto di razzismo, xenofobia, egoismo particolaristico e violenza verbale, hanno sfruttato ogni sorta di malcontento per individuare il capro espiatorio di turno. Cercheranno di capitalizzare il successo del No e di volgere a proprio favore, la Brexit e Trump ce lo ricordano continuamente, il legittimo dissenso dei cittadini. Il rischio può essere quello della Vandea, di un generalizzato ribellismo che cavalchi il fuoco della protesta per imporre soluzioni regressive, egoistiche e antidemocratiche. Ciò non toglie che la finta alternativa tecnocratica e il disegno razionalizzatore del sistema, strutturato sul dispositivo dell’euro, di Renzi e delle burocrazie, delle tecnocrazie e dei poteri finanziari e bancari europei, non funziona.

Ci siamo impegnati, convinti che occorresse farsi parte attiva della mobilitazione che in questi mesi ha lavorato per arrestare il progetto che si coagulava nel Sì referendario. Pensiamo, adesso, che occorra orientare in senso democratico e progressivo la carica di protesta esplosa nel voto e auspichiamo la costruzione di un ampio fronte di forze sociali, sindacali e politiche che possano congegnare punti di resistenza e di forza con i quali mettere a valore il dissenso che, sotto l’apparente apatia, sfiducia e individualismo, cova nelle masse. Occorre costruire spazi di democrazia, accoglienza e solidarietà, inventare campagne di massa contro i poteri criminali e affaristici, lavorare a vertenze che mettano in discussione l’impianto dell’euro, che rivendichino il diritto al lavoro, alla redistribuzione del reddito, alla tutela ambientale, alla cura per i diritti sociali e l’uguaglianza.
​
Alla vigilia del voto, pur nel segno di una incrollabile fiducia, era lecito pensare che la Costituzione, svuotata da tempo del suo carattere propulsivo, almeno dal punto di vista degli effetti della sua, se mai c’era stata, natura materiale, rischiava di scomparire anche dalla prospettiva del valore formale, apparentemente risucchiata dentro la spirale della sua stessa «vuota» retorica. Fortunatamente ci si era sbagliati, l’esito del voto è inoppugnabile. Nell’anno di grazia 2016, in data 4 Dicembre, i cittadini e le cittadine della Repubblica italiana si sono espressi senza lasciare adito a nessun possibile dubbio. La Costituzione, nata dalla sconfitta del nazifascismo, continua a essere il fulcro attorno al quale ruota la nostra traballante e malmessa democrazia. Da qui bisogna ripartire, senza nessuna aspirazione nostalgica, ma declinando in senso nuovo le tensioni e le aspirazioni ideali del tempo che fu.    ​
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UN NO NON BASTA

2/12/2016
di Vincenzo Marineo
​per la Redazione di PalermoGrad


Le conseguenze della riforma costituzionale e della legge elettorale sono semplici, quasi banali: c’è l’obbligo, alla presentazione delle liste, di indicare il capo della forza politica; forza politica che in caso di vittoria avrà 340 seggi (maggioranza assoluta cui può corrispondere una ben minore percentuale di voti nelle urne); il suo capo, una volta avuti l’incarico (una formalità) e la fiducia (scontata), governerà; disponendo del “voto a data certa”, potrà anche condizionare gli ordini del giorno della Camera, la sola assemblea rimasta ad essere legittimata dal voto – e con il peso delle rappresentanze elettive regionali ridimensionato grazie alla “clausola di supremazia”.

Non si vede come si possa chiamare tutto questo se non eleggere insieme il premier e la sua maggioranza, affidando a un partito un indistinto potere insieme legislativo ed esecutivo.

Comunque lo si consideri, sia sotto l’aspetto limitato delle prossime elezioni (e qui sorgerebbe la domanda su quale sarebbe quel partito, chi il suo capo), sia sotto quello più largo della qualità della democrazia, è un cambiamento che non può in alcun modo essere sottovalutato. 

Un cambiamento che peraltro nell’immediato servirebbe a non cambiare niente, ma a continuare anzi con la politica di riforme di stampo neoliberista o social-liberista degli ultimi decenni.

Questo referendum è solo un momento di una storia iniziata con la fine dei cosiddetti “trenta gloriosi”, alla fine degli anni Settanta. 

Ci sono oggi e ci saranno dopo il referendum tutte le difficoltà di una sinistra “scomparsa”, tanto scomparsa da rendere problematica la definizione dei suoi confini, e priva di organizzazioni che promettano di essere inclusive.

Ma non c’è politica senza i partiti, partiti di massa con una forza da far pesare nel conflitto. Se tralasciamo questa semplice verità ci condanniamo all’inconcludenza, trasformando in insolubile dibattito la discussione sui temi della politica. Per fare un riferimento all’attualità, è quel che avviene per l’Unione Europea e l’euro; ma, allargando lo sguardo, è l’analisi dell’attuale capitalismo che non trova una base condivisa. Un partito non sarebbe la fine di quel dibattito: ma darebbe ad esso un senso, costringendo a misurarsi, anche nel suo inevitabilmente lungo processo di formazione, con cosa avviene “là fuori”.

Se questo è lo sfondo, è chiaro che il no non basta; tuttavia quel no è necessario.
​
Sappiamo che il cosiddetto “fronte del no” non esiste, è una trovata della propaganda per il sì.
​

Se, come speriamo, il no ottenesse la maggioranza, non ci sarebbe un no che ha vinto, ci sarebbero tanti no che sommandosi hanno impedito che il sì vincesse. Tanti no nessuno dei quali potrà vantare, da solo, una percentuale pari a quella dei sì.

I problemi restano tutti aperti. Ma, per il momento, potrebbe bastare lasciarli aperti.
​

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