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      • CONFINDUSTRIA: GLI OPERAI GUADAGNANO TROPPO
      • GLI ANNI TRENTA PROSSIMI VENTURI
      • UN LAVORO DI CHE GENERE?
      • IL MALE OSCURO (MA NON TROPPO) DEL CAPITALE
      • C'E' UNA LOGICA IN QUESTA FOLLIA
      • BENTORNATI AL SUD
      • MOSTRI DI GUERRA DIRIGONO LE SCUOLE
      • QUELL’OSCURO OGGETTO DELLO SFRUTTAMENTO
      • FINCANTIERI: RIEN NE VA PLUS
      • L'INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI
      • LAVORO, REDDITO, GENERE: CHE DIBATTITO SIA...
      • RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA
      • SVENDESI INDUSTRIA ITALIA
      • LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DI MATTEO RENZI
      • NASCE PALERMOGRAD! LUNGA VITA A PALERMOGRAD! >
        • DONAZIONI
    • LONTANI E VICINI >
      • DOPO LE LACRIME. MARADONA E LE FEMMINE
      • LUNGA VITA ALLA SIGNORA (DI FERRO)
      • DOBBIAMO POTER DISCUTERE DI TUTTO
      • DEATH RACE
      • ADDIO A MANOLIS GLEZOS, 1922–2020
      • IL FASCINO DISCRETO DEL MODERATISMO
      • MACCHE' OXFORD, SIAMO INGLESI
      • LO STRANO CASO DI MR BREXIT E DR REMAIN
      • LO SPETTRO DELLA SIGNORA THATCHER
      • IL DECRETO SALVINI E LA LOTTA DI CLASSE
      • ADDAVENÌ JEREMY CORBYN
      • LONTANO DA DIO, VICINO AL FMI
      • LE ROSE CHE SYRIZA NON COLSE
      • DOCCIA SCOZZESE PER I TORY?
      • L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL LABOUR
      • ATTACCO SU TRE FRONTI: LA NUOVA RECINZIONE
      • MAROCCHINI ALLA STAZIONE
      • THE MEANING OF THERESA MAY
      • BERLINO 2016: ANOTHER BRICK IN THE WALL?
      • BREXIT: USCITA OBBLIGATORIA A DESTRA?
      • NO GRAZIE, IL BREXIT MI RENDE NERVOSO
      • BREXITHEART - CUORE IMPAVIDO
      • UN BLUESMAN DELL’INTELLETTO
      • UNA VITTORIA INUTILE?
      • CARO YANIS, TI SCRIVO..
      • ESULI A PALERMO
      • ARALDI CON LE FORBICI
      • TU CHIAMALE SE VUOI, ILLUSIONI
      • GRECIA: LA LOTTA CONTINUA SE C'E' IL PIANO B
      • GRECIA: LA LOTTA DEVE CONTINUARE
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      • SO' BONI, SO' GRECI. LA VITTORIA DI SYRIZA E DEL SUO LEADER
    • IN TEORIA >
      • RITORNARE A MARX parte II
      • RITORNARE A MARX
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE (parte 2^)
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE
      • CONFLITTO CRISI INCERTEZZA
      • DAGLI SCIOPERI DELLE DONNE A UN NUOVO MOVIMENTO DI CLASSE: LA TERZA ONDATA FEMMINISTA
      • ANCORA SU DAVID HARVEY, MARX E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • A PARTIRE DA SIMONE WEIL
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE / 2
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • UNA CRISI, TANTE TEORIE
      • MA IL SUO LAVORO È VIVO
      • POSSO ENTRARE?
      • A VOLTE RITORNA. Il dibattito su reddito di cittadinanza e simili, prima della crisi.
      • L’ ORIENTE È L’ORIENTE E L’OCCIDENTE È L’OCCIDENTE, E GIAMMAI I DUE SI INCONTRERANNO ?
      • IL SEME DEL DUBBIO
      • RICOMINCIARE DA KEYNES?
      • DE-ROMANTICIZZARE IL LAVORO (DOMESTICO E NON)
      • CAPITALISMO CONCRETO, FEMONAZIONALISMO, FEMOCRAZIA
      • DAL FEMMINISMO DELL’ÉLITE ALLE LOTTE DI CLASSE NELLA RIPRODUZIONE
      • KARL KORSCH
      • INTRODUZIONE AL «CAPITALE»
      • REDDITO CONTRO LAVORO? NO, GRAZIE
      • PRIMA DI ANDARE OLTRE, LEGGIAMOLO
      • COM’È BORGHESE, QUESTA RIVOLUZIONE…
      • COME L’OCCIDENTE È ANDATO A COMANDARE
      • LO STRANO CASO DEL DOTT ADAM E DI MR. SMITH
      • L'ULTIMO MARX E NOI
      • IL CASO E LA FILOSOFIA
      • DAL PENSIERO DELLA GUERRA FREDDA AL FEMMINISMO INTEGRATO
      • STREGHE, CASALINGHE E CAPITALE
      • 2016: ODISSEA SULLA TERRA
      • DOPO IL SOCIAL-LIBERISMO
      • QUANTO È LUNGO UN SECOLO?
      • BYE-BYE LENIN
      • L'OMBRA LUNGA DEL MILITARISMO
      • NON ESISTONO MEZZOGIORNIFICAZIONI
      • EUROPA E "MEZZOGIORNI". Un intervento di Joseph Halevi
      • PIANIFICARE NON BASTA?
      • IL PRANZO AL SACCO DI MARIO MINEO
      • MARIO MINEO E IL MODO DI PRODUZIONE STATUALE
      • LEGGERE BETTELHEIM NEL 2015
      • CHARLES BETTELHEIM: L'URSS ERA SOCIALISTA?
      • E LA CLASSE RESTO' A GUARDARE
      • LEI NON SA CHI SIAMO NOI
      • RISCOPRIRE IL VALORE-LAVORO
      • FUNERALE GLOBALE
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Prima Parte
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Seconda Parte
      • SRAFFA TRA TEORIA ECONOMICA E CULTURA EUROPEA
    • IL FRONTE CULTURALE >
      • NON NASCONDERSI, NON PROTEGGERSI
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      • LIBRI DELL'ANNO 2019
      • DESTINAZIONE APOCALISSE
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      • ROBESPIERRE CONTRO L'ANGLOFILO
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      • L’AFRICA DI MANGANELLI
      • UNA RIVOLUZIONE BORGHESE?
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      • L’ARTE DELLA MATEMATICA
      • PUNK A PALERMO
      • SGUARDI SULLA MORTE E SULLA VITA
      • MA NON SAPPIAMO QUANDO
      • COSE TROPPO VICINE PER ESSERE VISTE
      • IL RACCONTO CHE VISSE DUE VOLTE
      • UN INCUBO ASSURDO E INESORABILE
      • ETICA E/È LETTERATURA
      • ADOLESCENZE FRAGILI NELL’EPOCA DELLA BUONA SCUOLA
      • ABBASTANZA NON E' PIU' ABBASTANZA
      • ÉLITE IN RIVOLTA
      • CHI DI MOSTRA FERISCE
      • LIBRI DELL'ANNO 2017
      • PRO O CONTRO LA SCUOLA PER TUTTI
      • "NON INCOLPATE NESSUNO", MA I REGISTI SI
      • STENDHAL RAZZISTA AL CONTRARIO
      • IL TEMPO INSEGUE LE SUE VIOLE
      • L’UTOPIA DI SCHULZ
      • ADOLESCENZE FRAGILI
      • IL MARCHESE DI VENEZIA
      • “ANNORBÒ TOTÒ”
      • INVISIBILI MA NON TROPPO
      • UOMINI E LUPI
      • “MARIELLA SE N’È DOVUTA SCAPPARE”
      • LA GIUSTA DISTANZA
      • ROLAND IN CAMPO
      • COME SOLO UN AMANTE FA
      • CERTE NOTTI
      • VITA POLITICA DI GIULIANA FERRI
      • LIBRI DELL’ANNO 2016
      • TROPPO BARDO PER ESSERE VERO
      • LA BARBARIE PROSSIMA VENTURA
      • DANIELE CONTRO I BUROSAURI?
      • SWEET BLACK ANGEL
      • DODICI PICCOLI INDIANI (D'AMERICA)
      • VELTRONI VA A HOLLYWOOD?
      • RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
      • POVERI E PICCOLI
      • SENZA RUOLI, SENZA DESTINI
      • REQUIEM PER IL TEMPO LIBERO
      • DICE CH'ERA UN BELL'UOMO
      • GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
      • LA FATICA DI ESSERE BUONI
      • BORGHESIA MAFIOSA E POSTFORDISTA
      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
      • GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA
      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
      • GATTOPARDI BORGHESI
      • LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
      • GESTIONE DEI CONFLITTI NELLA CULTURA GRECA
      • CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'
      • LA STORIA DELL'8 MARZO
    • SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA >
      • SPIE, BUROCRATI ED EZISTENZIALISTI
      • DOPO L'UOMO OMBRA
      • NON HO L'ETA'
      • UN SACCO DI ASTRONAVI IN QUESTA LIBRERIA
      • VIENE AVANTI IL CRETINO
      • IL CAPPELLO NOIR
      • NON CAPISCO PERCHÉ TUTTI QUANTI…
      • UNA VITA MERAVIGLIOSA
      • MA UN GIORNO, CARA STELLA
      • LA LEZIONE È FINITA
      • MARY PER SEMPRE
      • SOLO PER I TUOI OCCHI
      • PERICOLO GIALLO
    • SEMBRA UN SECOLO >
      • GIUSEPPE, ANITA E I COLORADOS
      • QUESTA STORIA NON PUO' FINIRE
      • ACCOGLIENZA DI IERI
      • VIANDANTI NEL NULLA
      • UNO STATO CHE NON ERA UN MOLOCH
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      • VINCENZO SCALIA: MAFIE DI IERI E DI OGGI
    • IL 1917 DI JACOBIN >
      • 14. COME HANNO VINTO I BOLSCEVICHI
      • 13. LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
      • 12. IN CAMPAGNA È UN’ALTRA COSA…
      • 11. I DUE GOLPE DI KORNILOV
      • 10. ​COME FARE LA RIVOLUZIONE SENZA PRENDERE IL POTERE...A LUGLIO
      • 9. VIOLENTA, NON TROPPO
      • 8. I BOLSCEVICHI E L’ANTISEMITISMO
      • 7. LE DONNE DEL 1917
      • 6. L’ECCEZIONE ESEMPLARE
      • 5. PRIMA DI OTTOBRE, VIENE FEBBRAIO
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      • 3. LA RIVOLUZIONE CONTRO IL CAPITALE (DI MARX)
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    • PROGRAMMAZIONE 2015/2016 >
      • 1° INCONTRO. Sistemi di pianificazione a confronto
      • 2° INCONTRO. Calcolo economico e forme di proprietà
      • 3° INCONTRO. Scritti Teorici - Mario Mineo
      • 4° INCONTRO. Aufheben: What was the USSR ?
      • 5° INCONTRO. Luigi Cortesi: Storia del Comunismo
      • 6° INCONTRO. Storia dell'Unione Sovietica
      • LE FILIERE MAFIOSE. Presentazione libro di V. Scalia
    • PROGRAMMAZIONE 2014/2015
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ANCORA SU DAVID HARVEY, MARX E LA FOLLIA DEL CAPITALE

30/11/2018
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CONGRESSI CGIL: OLTRE IL PENSIERO CONVENZIONALE

24/11/2018
di Marco Palazzotto

​In queste settimane si stanno svolgendo i Congressi delle strutture della CGIL, che si concluderanno con il Congresso nazionale del 22-25 gennaio 2019. Sugli organi di stampa e i social media si sta parlando molto della candidatura di Maurizio Landini, proposto da Susanna Camusso a guidare il sindacato più grande d’Italia per i prossimi 4 anni. Questa candidatura, nelle modalità e nei tempi in cui è stata presentata, ha creato un dibattito molto intenso all’interno dell’organizzazione. Un altro contendente dovrebbe essere Vincenzo Colla, il cui nome non è stato ancora ufficializzato, almeno nelle sedi statutarie opportune. 


A prescindere dal nome che verrà scelto per la guida della CGIL, ciò che ci interessa analizzare sono i contenuti politiciesplicitati nei documenti programmatici e dai dirigenti durante i momenti collegiali, come quello attuale. Oggi la CGIL è un grande sindacato di massa, ultimo baluardo in Italia della lotta di classe, al cui interno ancora sussiste un impianto di regole formali ed informali orientato verso il pluralismo e la democrazia interna. Per questo è importante, per chi si pone come obiettivo la trasformazione della società in senso egualitario, militare in un’organizzazione come questa. 

Nonostante tali caratteristiche, non mancano criticità nelle scelte politiche degli ultimi 30 anni. Oggi la CGIL è ancora un soggetto con cui qualunque formazione governativa deve fare i conti prima di adottare provvedimenti che possano contrastare gli interessi delle classi lavoratrici, ma ha comunque subito – come tutte le formazioni politiche e sociali che sono nate con la seconda Repubblica – l’influenza negativa dell’ideologia neoliberale. 

La crisi identitaria dei partiti e sindacati di sinistra si può far risalire alla fine degli anni ’70. È il periodo delle lotte del ’77, che si concludono in Italia e nel mondo con la cosiddetta “controrivoluzione neoliberale”. Il capitalismo, dopo la crisi economica e l’impassedella fase keynesiana, abbraccia una nuova teoria, quella del monetarismo della “scuola di Chicago”, il cui esponente principale fu il Premio Nobel Milton Friedman. Tale fase durerà pochi anni.

In Italia nel 1981 avviene il divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro. Da quel momento la Banca d’Italia non è più stata tenuta a garantire il collocamento integrale dei titoli del debito pubblico; ciò provocherà un innalzamento della spesa per interessi passivi, mentre si avvierà un lungo periodo di austerità con diminuzione in conto capitale e in conto corrente della spesa pubblica italiana (che tradotto significa meno welfare). Nel 1984 Craxi taglia la scala mobile di 4 punti, nonostante la CGIL reagisca mobilitandosi. Sono gli anni della “Reaganomics”, ovvero l’era Reagan-Thatcher: maggiore intervento dello Stato nell’economia con riduzione della spesa per servizi pubblici, liberalizzazione di oligopoli pubblici, aumento della spesa militare, aumento della spesa per interessi passivi. Il sistema economico e politico dell’URSS va in crisi, perde la guerra fredda e ci si avvia verso la fine del socialismo reale. 
La caduta del muro di Berlino segna anche la fine dell’esperienza comunista in Europa e in Italia. Nel 1991 il PCI si scioglierà per confluire in larga parte nel PDS. 
Nel 1991 Bruno Trentin scioglierà la corrente comunista dentro la CGIL e introdurrà le aree programmatiche. 
Tangentopoli, inoltre, metterà fine al vecchio assetto partitico della prima Repubblica. Inizierà una fase ancora più aspra per le classi lavoratrici, anche a causa delle posizioni ‘riformiste’ che assumeranno le formazioni di sinistra. 

Nel 1992-1993, l’allora governo Amato chiederà ai sindacati sacrifici per evitare una crisi inflazionistica anche a causa degli attacchi speculativi che faranno crollare lo SME. Viene firmato l’accordo anche dalla CGIL per la fine della scala mobile e il tasso di inflazione viene programmato a livello governativo. In seguito alla decisione di firmare tali accordi Bruno Trentin si dimetterà da segretario della CGIL. 
Nel 1996, con la vittoria elettorale del centro-sinistra, verranno chiesti ai lavoratori – grazie anche all’appoggio dei sindacati – ulteriori sacrifici per rispettare i parametri di Maastricht. Ci avviamo verso l’introduzione della moneta unica europea. 
Negli anni successivi la CGIL – benché abbia sempre dichiarato e dimostrato la propria autonomia dai partiti – ha comunque avviato un processo speculare a quello delle formazioni di centro-sinistra nate dopo la svolta della Bolognina. Un processo che ha portato soggetti politici e sindacali a superare le ideologie del ’900, per abbracciare una narrazione che tende comunque ad utilizzare, nella sua interpretazione della realtà, categorie del pensiero neoliberale. 

Così arriviamo a questo congresso 2018/2019, i cui dibattiti sono ricchi di spunti di riflessione per capire come si è evoluto il sindacato. Nei discorsi dei dirigenti si percepisce il lavoro di ricostruzione, anche semantica, che si è sviluppato negli ultimi 30 anni. Il termine “ideologia” ormai viene utilizzato con accezione negativa (come fanno ad esempio tutti i partiti che oggi siedono in parlamento), per essere superato dai più moderni “idea” o “visione”. La parola socialismo è bandita. Le lotte per il controllo dei mezzi di produzione sono diventate lotte per i diritti. Le classi sociali sono sparite. Il conflitto politico è diventato concertazione sociale. Il lavoro, nel capitalismo, quale attività eterodiretta di creazione di valore per l’accumulazione, è diventato un diritto. Il profitto, quale espressione monetaria della parte del plusvalore che il capitalista estrae dal lavoro, e che rappresenta lo sfruttamento, è diventato misura dello sviluppo economico da tutelare se esiste un’equa redistribuzione. La lotta al patriarcato è diventata la ricerca delle pari opportunità. 
Come ha evidenziato lo studioso palermitano Umberto Santino durante il suo intervento all’ultimo Congresso della Camera del lavoro di Palermo, svoltosi qualche settimana fa, la CGIL – riferendosi al pensiero delle lotte del ’900 – non deve “buttare il bambino con l’acqua sporca”, ma tentare di salvare il bambino, ovvero la parte buona del paradigma socialista, magari rinnovato, aggiornato, tenendo presenti i cambiamenti avvenuti nel capitalismo del nuovo millennio. 

Nessuna soggettività politica può escludere a priori la componente ideologica del proprio agire. E il capitalismo non è cambiato nella sua struttura sociale di fondo. Negare che esista una rappresentazione della società che orienti un determinato gruppo sociale a difendere i propri interessi (come quello delle classi lavoratrici), rientra nella narrazione utilizzata dall’ideologia dominante. In questo modo le formazioni politiche, anche quelle di centro-sinistra, tendono ad annullare qualsivoglia interpretazione socialista della realtà, tacciandola di vetero-dogmatismo.

La scommessa per il futuro della CGIL sarà quella di rendersi davvero autonoma dal pensiero convenzionale, trovando una propria visione della realtà e una sua proposta politica (senza rinnegare il proprio passato) che faccia egemonia. Speriamo che il prossimo segretario, che uscirà dal congresso di gennaio, rispolveri e ravvivi letture della realtà adeguate a superare la barbarie che caratterizza il nostro tempo. Auspico una segreteria che sappia tenere insieme le varie anime del sindacato, rispettando e garantendo i pluralismi. Un gruppo dirigente che ritrovi e rinnovi una cultura socialista. 
​

Intanto godiamoci i Congressi e viva la CGIL.
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​DOPO IL CONSENSO: L'EUROPA TERRENO DI SCONTRO FRA PARADIGMI

21/11/2018
di Angelo Foscari

​[Non una Recensione, ma una Presentazione dal (mio) punto di vista ‘politico’ del libro di Saraceno, per mettere a fuoco il dibattito in occasione della sua presentazione al circolo ARCI Porco Rosso. Qui le informazioni sulla presentazione: https://www.facebook.com/events/179378389667400/. AF]
 
“Solo la fede nell’esistenza di un equilibrio ottimale e universale propria della teoria neoclassica porta a eliminare l’aggettivo da ‘scienza sociale’; solo che così facendo si svilisce lo studio dell’economia, la si trasforma in scienza inutile”.
 
È soltanto alla penultima pagina del suo nuovo libro (La scienza inutile, pubblicato dalla LUISS University Press) che Francesco Saraceno – vicedirettore dell’OFCE (Observatoire Français des Conjonctures Économiques) di Parigi, dove insegna macroeconomia internazionale ed europea – rende esplicito il senso del titolo; ma tutte e 171 le pagine in cui si sviluppa il suo discorso – rigoroso e insieme perfettamente accessibile al lettore non specialista – sono animate da una polemica contro il ‘Nuovo Consenso’ che tra gli anni Ottanta e Novanta ha prevalso nella comunità degli economisti. In base a tale Consenso – detto in estrema sintesi – il compito della politica economica fondamentalmente consisterebbe nell’eliminare, attraverso “riforme strutturali”, tutte quelle “rigidità” di prezzi e di salari riconducibili agli agenti economici che “non allocano in modo ottimale il proprio consumo su diversi periodi della loro vita”, determinando imperfezioni del mercato che mettono capo ad assetti socio-economici caratterizzati da una persistente disoccupazione involontaria. Le politiche macroeconomiche discrezionali vengono invece considerate inefficaci entro tale schema di pensiero, che privilegia piuttosto l’adozione di regole fiscali e monetarie che rendano la politica economica “prevedibile […] [così da] integrarne gli effetti nelle aspettative e nei piani ottimali degli agenti” (p.103).Non è questo il luogo – né io ne avrei la competenza – per approfondire la problematica di cui sopra; mi limito a consigliare caldamente la lettura del libro e, nelle righe che seguono, a    sottolinearne la grande rilevanza rispetto alle vicende della crisi dell’Eurozona e dell’UE; tenterò infine di ricavare – perché no? – dalla seconda metà della trattazione di Saraceno qualche spunto utile all’attuale polemica a sinistra tra gli (impropriamente definiti) ‘europeisti’ e gli (anche questa etichetta è molto approssimativa) ‘exitisti’. A tal proposito scopro subito le mie carte e dichiaro di ritrovarmi nell’impostazione del problema data da Tommaso Baris qui su PalermoGrad circa tre anni fa, per cui: “non c’è un ‘altrove’, un ‘luogo altro’, in cui rifugiarsi per sfuggire al capitalismo mondiale nelle sue attuali forme. Da qui dovrebbe scaturire un’altra acquisizione di fondo […]: politicamente non si può che restare dentro e, al contempo, restare contro e continuare a combattere contro la presente organizzazione politica ed economica dell’Europa costruita intorno alla moneta unica, allargando lo spazio politico della contrapposizione a tali assetti”[1].

Ciò premesso, veniamo al succo della questione. Nell’ottobre del 2009 il premier Papandreou annunzia che lo Stato greco è a un passo dal fallimento: Atene entra in un tunnel dal quale – nove anni dopo – non è ancora uscita. Il debito pubblico greco viene declassato a “titolo spazzatura” nell’aprile 2010 e un mese dopo i paesi dell’Eurozona e il Fondo Monetario Internazionale approvano un prestito di salvataggio per la Grecia da 110 miliardi di euro, vincolato all’adozione di severissime misure di austerità. La medesima medicina viene in seguito proposta a vari paesi della periferia dell’eurozona: il problema – secondo quella che Francesco Saraceno definisce la ‘Dottrina di Berlino’ (propugnata dalla classe dirigente tedesca, ma fatta propria anche da Commissione Europea e BCE) – starebbe tutto nell’eccesso di spesa pubblica e nell’omissione delle necessarie “riforme strutturali”. Ne consegue che i paesi che non hanno ancora ‘fatto i compiti a casa’ (per dirla con Angela Merkel) per ritrovare dinamismo dovranno far smagrire il settore pubblico [per definizione ‘inefficiente’] e migliorare la competitività a colpi di de-regolamentazione del lavoro [in Italia, leggi Jobs-Act]. “La dottrina di Berlino” – osserva Saraceno a p. 104 – “ha il merito di fornire una spiegazione semplice della crisi, un’identificazione chiara delle responsabilità”. Spiegazione e identificazione che fino a qualche tempo fa sono largamente “passate” e hanno fatto senso comune: chi di noi in questi anni non si è sentito ripetere allo sfinimento che “lo stato sociale greco era troppo generoso”, ovvero che “in Italia bisogna privatizzare il privatizzabile”? Tuttavia, “anche se la dottrina di Berlino ha trionfato […] l’interpretazione della crisi come emanante dal comportamento dei paesi fiscalmente irresponsabili non sembra ritrovarsi nei dati”. E, di fatto, le condizioni in cui versava la Grecia nel 2007 (debito pubblico al 110% del PIL, deficit al 6,8%) non trovavano riscontro nei conti pubblici degli altri cosiddetti ‘PIIGS’, ovvero il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna e (se ci riferiamo al deficit) la stessa Italia. È evidente infine che tale dottrina, dacché limita il ruolo della politica economica all’eliminazione, tramite le suddette ‘riforme strutturali’ – anche a scapito di salario e welfare – degli ostacoli al libero funzionamento dei mercati, si regge in larga misura sul ‘Nuovo Consenso’ economico di cui s’è detto sopra, e ne costituisce in ogni caso una delle “letture” più forti in circolazione.

Esiste un’alternativa a tutto ciò? È pensabile una mobilitazione sul terreno europeo per un cambio di paradigma, per la spesa sociale, per redistribuire la ricchezza, per contrastare la disoccupazione ?   O, di fronte agli attuali disastri sociali e politici, bisogna viceversa – e nonostante tutto - rassegnarsi allo ‘smontaggio’ dell’UE, se non addirittura promuoverlo?
​
Saraceno – che pure, beninteso, nel libro non si atteggia certo a leader politico, e nemmeno a “produttore di slogan” di carattere agitatorio – sembrerebbe propendere per la prima delle alternative di cui sopra; e ad ogni buon conto propone una serie di modifiche delle ‘regole del gioco’ europee di portata tutt’altro che modesta. Fermiamoci a considerarne un paio.
 
1. Alle pagine 140 e 141 si propone un “Doppio Mandato” per la Banca Centrale Europea: a quello della Stabilità dei Prezzi si aggiungerebbe dunque l’obiettivo della Piena Occupazione, così come avviene per la FED americana. È ovvio che tale cambiamento non ci mette di per sé al riparo da scelte antipopolari, sbagliate o controproducenti: imponendo tuttavia alla BCE di giostrare tra due obiettivi differenti e a volte incompatibili, la obbligherebbe a compiere scelte dichiaratamente politiche, squarciando il velo “tecnocratico” che tuttora ammanta la politica monetaria europea. È chiaro che “la giustificazione ultima del mandato di stabilità dei prezzi può solo poggiare sull’accettazione della visione neoclassica per la quale poteri pubblici […] la cui azione è addirittura nociva, devono limitare al massimo il proprio raggio d’azione” (p.141); ma “una volta che questa visione sostanzialmente platonica viene abbandonata”, ecco invece che le scelte della BCE assumerebbero un volto esplicitamente discrezionale se non partigiano. E si renderebbe oltretutto necessario un profondo ripensamento, nel segno di un maggior coordinamento delle politiche fiscali, di quell’“architettura istituzionale” UE che non pochi – tra i suoi sostenitori come tra i suoi critici – danno pigramente per immodificabile. L’ampiezza e la novità degli scenari che qui si intravedono non dovrebbero sfuggire a chi intende contestare fattivamente il paradigma austeritario.
 
2. Di importanza non minore (e per giunta di grande attualità, spettatori come siamo oggi del minuetto tra governo italiano ed istituzioni europee) è un’altra proposta che figura in La scienza inutile, alle pagine 159-161. Andando oltre la cosiddetta ‘Regola d’Oro’ adottata a suo tempo dall’ex Cancelliere dello Scacchiere britannico Gordon Brown (per cui, se il bilancio corrente dev’essere sempre tenuto in equilibrio, l’investimento pubblico può invece essere finanziato attraverso l’indebitamento), già da qualche anno Saraceno, insieme all’economista turco Kemal Dervish, propone una ‘Regola d’Oro Aumentata’, in base alla quale l’Unione Europea potrebbe periodicamente discutere e definire categorie di spesa pubblica che possono riguardare non solo la capitalizzazione (giusta la ‘Regola d’Oro’ di Brown), ma anche – e qui risiede l’originalità della proposta – le spese correnti, “come ad esempio un programma di spesa per aumentare il tasso di partecipazione sul mercato del lavoro, o un programma d’investimento nella sanità pubblica. Ogni spesa che rientri nelle categorie convenute potrebbe essere esclusa dal calcolo del deficit, ed essere quindi considerata ‘investimento’ ai sensi della regola d’oro aumentata”. Qui l’idea di fondo è quella di uno ‘Stato imprenditore’ che possa investire in capitale sia materiale che immateriale, “nella spesa sociale come nelle infrastrutture tradizionali”, in base a scelte risultanti da un processo democratico. “Soprattutto” conclude Saraceno, l’esito della discussione “non sarebbe l’inevitabile conseguenza di regole la cui motivazione profonda è proprio la negazione della politica economica discrezionale” (p.161, corsivo mio). Nulla di meno di una ri-politicizzazione dell’economia, in definitiva.
 
È evidente che idee e proposte come queste non “camminano” da sole, e non prevarranno in seguito ad un asettico dibattito fra “specialisti”. Occorrerà invece aggregare quelle forze sociali – al momento sparpagliate – che possano mobilitarsi per fare davvero dell’Europa il “terreno di scontro fra paradigmi” opposti (Saraceno a p.163), senza coltivare alcuna illusione riguardo ad ipotetici Tecnocrati Illuminati, per i quali ripeterò la battuta che il filo-giacobino inglese William Hazlitt dedicava ai ‘Sovrani Illuminati’: “meno male che non esistono, perché se fossero illuminati ci fregherebbero meglio”.


[1] http://www.palermo-grad.com/grecia-la-lotta-deve-continuare.html
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IL DECRETO SALVINI E LA LOTTA DI CLASSE

17/11/2018
di Richard Brodie

​Lo scopo del decreto legge Sicurezza è ormai chiaro: creare insicurezza al fine di sostenere la campagna elettorale della Lega. Il contesto sociale che ha amplificato il suo consenso è quello della precarietà e povertà della classe operaia, per lo più classe operaia nera. Per scavalcare il Movimento Cinque Stelle, la Lega deve consolidare il sostegno del blocco sociale razzista, fomentando l’odio razziale dentro l’intera società. Inoltre Salvini sostiene il decreto Pillon, per non spezzare il legame con Forza Italia e con l’elettorato cattolico di destra, quest’ultimo in cerca di un nuovo erede della DC. Il Dl Sicurezza rappresenta un duro colpo alla lotta per la libertà dei cittadini non-Europei combattuta in questi anni: la lotta per la libertà di movimento, per servizi sanitari e scolastici, per un welfare state, contro atteggiamenti razzisti delle questure, contro la detenzione nei CIE.


La clandestinizzazione

L’aspetto più importante è l'inversione di marcia rispetto alla tendenza alla regolarizzazione. Il Pd non sbaglia quando sostiene che questa porta “meno sicurezza, più clandestini”. Visto come minaccia rivolta agli italiani, lo slogan è indubbiamente sbagliato; allo stesso tempo, dal punto di vista dei “clandestini”, descrive lo scopo della legge.

Togliere lo status umanitario determina la perdita di alcuni diritti importanti come la regolarizzazione nel territorio europeo, con la possibilità di entrare ed uscire dall’Europa liberamente. L’irregolarità isola le persone in Europa e in Italia non solo per la libertà di movimento, ma anche per tutte le conseguenze psicologiche. Questa situazione incrementa lo stato di limbo, uno stato “disumanitario”. In più, il maxi emendamento al Dl, aggiunto all’ultimo minuto dalla Lega, restringe i criteri per ottenere lo status di rifugiato, creando “aree interne sicure” dentro paesi altrimenti pericolosi. Il risultato, di nuovo, sarà l’aumento di persone senza documenti.

Irregolarità significa anche privazione di risorse dello Stato destinate a chi possiede i permessi: sostegno economico, servizi medici, istruzione, graduatorie per i senzatetto. La situazione per le donne, come sempre, risulta ancor più grave in quanto l’irregolarità aumenta il rischio dello sfruttamento sessuale e la spinta ad instaurare rapporti “familiari”, un modo per “guadagnare” il sostegno dello Stato italiano.

Alla fine, questo processo di deregolarizzazione accresce la presenza di una cittadinanza di secondo livello, “deregolarizzati” come privatizzati, privati di sostegno pubblico, mentre la cittadinanza di primo livello continua a fruirne. Quest’aspetto ricomporrebbe la classe operaia nera sotto diversi punti di vista. Primo, riporterebbe un’intera ondata di migranti arrivati prima del 2011 alla stessa situazione di quelli post-2011, in quanto tutti i titolari dello status umanitario (indipendentemente della data di riconoscimento) si trovano di fronte alla necessità di scegliere tra convertire i loro permessi di soggiorno in un permesso per motivi di lavoro, o diventare irregolari. Secondo, impone il bisogno per un milione di persone di ricorrere alla lotta per la sopravvivenza con lo status di clandestino, cioè senza poter appellarsi alle autorità e con l’utilizzo di documenti falsi, comunque dentro circuiti di criminalità.

L'abbandono dei regolari

La riforma del sistema di accoglienza più importante presente nel decreto è la limitazione dell’ingresso ai centri della rete SPRAR ai titolari di protezione sussidiaria e rifugiati, cioè la negazione alle persone che hanno ricevuto lo status umanitario prima dell’applicazione della legge [1]. L’effetto di questa norma è che sempre più persone si trovano costrette a dover scegliere tra l’accattonaggio e la fuga: per esempio, compiendo diciott’anni, i minorenni già titolari dello status umanitario grazie alla loro minor età, si troveranno per strada. Lo stesso problema si presenta per le vittime di tratta ed altre persone vulnerabili, alle quali una Commissione Territoriale o un giudice ha fornito lo status umanitario: godere di questo status ora vuol dire accorciare il tempo di accoglienza. L'impatto è che anche coloro che hanno una forma di protezione si troveranno in una situazione assai simile a quella degli irregolari. Per questo la clandestinizzazione suddetta sarà accompagnata da una perdita dei servizi ai quali anche i cittadini stranieri regolari possono accedere, promuovendo, di nuovo, il ricorso ai circuiti criminali. Molto simile è il diniego all’iscrizione anagrafica prevista dalla nuova legge per i richiedenti asilo, portandoli a una situazione di limbo ancora più grave (senza iscrizione anagrafica non si può certificare un diploma scolastico o accedere, per esempio, a corsi regionali).

Che vuol dire “criminalità”? Per lo più l’utilizzazione di documenti falsi, allo scopo di convertire uno status umanitario in un permesso per motivi di lavoro. In questo caso, infatti, occorre presentare un contratto di lavoro o la prova di un’attività autonoma. Vista la scarsa possibilità di regolarizzare un contratto di lavoro, anche per un cittadino italiano, non c’è dubbio che la nuova legge causerà un incremento di contratti falsi e di commercialisti conniventi, specialmente nei settori agricolo e turistico, in cui tantissimi cittadini stranieri entrati dopo il 2011 sono impegnati. Per questo motivo è errato dire che i migranti “precipitano nei circuiti criminali”, meglio precisare che diventano una parte di un circuito creato a causa di queste dinamiche, spintivi dunque dallo Stato stesso.

Disciplina e punizione

Il decreto rinforza gli strumenti per disciplinare e terrorizzare la classe operaia nera, incrementando i tempi di detenzione in hotspot e CPR (i nuovi CIE) allo scopo, ufficialmente, di identificare e permettere il trattenimento in strutture diverse dai CPR, se si è registrata una mancanza di posti.

Tale modifica risponde ad uno dei maggiori problemi (per lo Stato) rispetto a quello del rimpatrio, cioè la costante chiusura dei CPR grazie agli atti di ribellione, soprattutto da parte dei cittadini tunisini. Questo provvedimento lascia la porta aperta non solo alla carcerazione come risposta alla politica di clandestinizzazione, ma anche come risposta al bisogno della borghesia mafiosa di riciclare denaro e canalizzare fondi tramite appalti pubblici, ora che il numero di centri di accoglienza diminuisce.
In più, i motivi per i quali lo status di rifugiato può essere rifiutato dalla questura sono stati allargati e includono reati contro un pubblico ufficiale, come la minaccia. Questo strumento lascia nelle mani degli agenti – anche non specializzati come i vigili urbani – un’arma di ricatto nei confronti dei clandestini e perfino dei rifugiati, cioè coloro che hanno una forma di protezione internazionale.

Conclusione

​Il decreto Salvini fa parte di una riforma del sistema della cosiddetta politica migratoria che cerca di creare una divisione della popolazione nel territorio italiano, rinforzando la ricattabilità e lo sfruttamento della classe operaia nera per sopperire alla mancanza di miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia bianca. Anche se il decreto riguarderà per lo più i richiedenti asilo e titolari di protezione, cioè coloro che sono entrati in Italia dopo 2011, ci saranno conseguenze per tanti altri. 

Gli effetti più immediati saranno l’aumento dei senzatetto nei centri metropolitani, un’espansione del mercato dei contratti falsi e la fuga di tanti giovani migranti, provocando la distruzione delle comunità non-europee in diverse città. Allo stesso tempo, assisteremo ad un ulteriore abbassamento dei salari nei settori agricolo, edilizio, turistico e potenzialmente anche nella logistica. La società solidale deve affrontare questi problemi, cercando soluzioni allocative ed economiche, altresì continuando a denunciare episodi di razzismo anche istituzionale, monitorando e, si spera, contrastando la fomentazione dell’odio sociale.


PAGINE DA LEGGERE
Scheda Naga:
https://naga.it/2018/10/30/dl-salvini-materiale-di-approfondimento/
Maxi emendamento:
https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/11/08/decreto-sicurezza-senato
ASGI:
https://www.asgi.it/tag/decreto-immigrazione-2018/


1. La retroattività della legge dipende dall’interpretazione in tribunale: alcuni tribunali ritengono che lo status non può essere consentito già; altri riconoscono il diritto dei ricorrenti di essere giudicati secondo la legge in vigore quando la Commissione Territoriale li ha sentiti.
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DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE

9/11/2018
di Giovanni Di Benedetto

​“Una condizione della produzione fondata sul capitale è quindi la produzione di un cerchio della circolazione costantemente allargato […]. La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto del capitale stesso. Ogni limite si presenta come un ostacolo da superare. […] Nei confronti di tutto questo esso è distruttivo e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l’espansione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito.” 
                                                                                                                                                                     
(Karl Marx, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica)



​David Harvey è uno dei più importanti studiosi di Marx. Nel suo lavoro si coniugano il tentativo ostinato, pedagogico si potrebbe dire, di rendere, per quanto è possibile, immediatamente comprensibile la teoria di Marx e la convinzione che la ricerca marxista, per essere davvero produttiva, debba lavorare in campo aperto, superando gli angusti vincoli della tradizione e gli steccati dell’ortodossia e dello specialismo disciplinare. Il taglio peculiare dell’interpretazione di Harvey è costituito dall’interesse per il modo in cui l’accumulazione del capitale si dispiega entro le coordinate geografiche dello spazio e quelle storiche del tempo. Questi tratti caratteristici del suo lavoro, che lo rendono particolarmente efficace nell’illustrare tutta l’eterogeneità e la complessità del capitalismo, possono essere agevolmente rilevati nell’ultimo libro pubblicato in Italia da Feltrinelli, Marx e la follia del capitale (2018).

Il titolo, come è ovvio, non è casuale. La critica dell’economia politica riesce a produrre, lì dove fallisce la teoria economica mainstream, non solo un di più di conoscenza ma anche gli strumenti concettuali in grado mettere il pensiero e l’azione nelle condizioni di trascendere l’unidimensionalità asfittica e totalitaria della globalizzazione capitalistica. Il flusso generale del capitale come valore in movimento non può essere rappresentato da un circolo perfettamente chiuso, che rimanderebbe a una condizione di equilibrio astratto e niente affatto concreta, ma soltanto da una spirale in costante espansione. Risiede infatti in questa tensione costante e bulimica, volta a fagocitare risorse naturali, forze lavoro e mezzi di produzione, il generale impazzimento che sembra condurre il processo di riproduzione su scala allargata del modo di produzione capitalistico, e con esso tutti noi, verso il disastro.

Il capitale, infatti, si caratterizza per una vocazione totalitaria che tutto assorbe e piega in funzione dell’accumulazione del profitto. Forse anche per questo motivo la grande aspirazione di Marx, secondo Harvey, era quella di rappresentare il capitale nella sua totalità. Nei tre libri de Il Capitale, adottando prospettive differenti, Marx analizza il processo di valorizzazione, di realizzazione e di distribuzione, sottolineando come i contraddittori momenti si articolino come differenze all’interno di un’unità nella quale si presuppongono e si relazionano reciprocamente. “La totalità qui non è quella di un singolo organismo come il corpo umano, ma una totalità ecosistemica con molte specie di attività che competono o collaborano, con una storia evolutiva aperta”(57). Il grande merito di Marx consiste nell’avere elaborato una teoria del cambiamento storico in grado di tenere conto dell’insieme dei rapporti che costituiscono una formazione sociale capitalistica. “Tecnologie, rapporto con la natura, rapporti sociali, modo di produzione materiale, vita quotidiana, concezioni mentali e quadri istituzionali – sono in rapporto, entro la totalità del capitalismo, in un processo di evoluzione continua alimentato dalla circolazione continua del capitale che funge, per così dire, da motore della totalità” (118-119).

Al fine di evitare perniciosi fraintendimenti, questa rappresentazione del capitale come motore della totalità va meglio chiarita. Harvey precisa infatti come Marx debba essere letto senza privilegiare un’unica causa in grado di determinare la trasformazione sociale: “Marx non può e non deve essere letto come un teorico della “pallottola singola”, anche se molte rappresentazioni del suo lavoro lo considerano tale. (…) Nell’ampio lavoro di Marx non esiste un motore primo, ma un groviglio di movimenti spesso contraddittori in e tra diversi momenti, movimenti che devono essere svelati ed elaborati” (119). È evidente che costruire una teoria in grado di tenere insieme un tale approccio multidisciplinare era un compito improbo che Marx non è riuscito a portare a termine. E, in fin dei conti, si può forse ammettere che un tale obiettivo sarebbe stato al di sopra anche delle sue pur straordinarie capacità.

Tuttavia, il filosofo di Treviri una cosa l’aveva chiara, ossia il fatto che “quell’ecosistema organico che costituisce il capitale era attraversato da instabilità che avrebbero potuto produrre crisi, con grande probabilità e in modi complicati”(57). La crisi non interviene mai come un fattore estrinseco allo sviluppo proteiforme del capitale ma è, al contrario, un elemento di natura endogena che esprime l’intima e autodistruggentesi natura dialettica del valore in movimento. L’analisi marxiana della forma di valore, del suo rapporto con il lavoro socialmente necessario da un lato e con la forma di denaro dall’altro, dimostra che il fattore dell’instabilità e della crisi è necessariamente immanente alla rotazione complessiva del capitale. Marx vuole mostrare come il denaro sia una forma di manifestazione necessaria del valore e dunque che il valore si manifesta soltanto nel denaro. Ridurre la teoria del valore a una semplice teoria del valore lavoro significa disconoscere il pregio della sua opera.

Inoltre Harvey invita il lettore a considerare come in Marx si sviluppi l’analisi del valore inteso come un rapporto sociale col quale si definisce il tempo di lavoro socialmente necessario che viene impiegato nella produzione di un qualche bene da collocare in vendita sul mercato. “Mantenere la centralità del concetto di valore permette a Marx di indagare la natura della metamorfosi che converte il valore dalla forma di denaro alla forma di merce”(22) e gli consente, inoltre, di individuare nel processo della metamorfosi la possibilità della crisi. Ma, soprattutto, permette al Moro di riconoscere che nei luoghi della produzione non viene soltanto creato e ricreato valore ma viene anche perpetuato un rapporto sociale che si sostanzia nello sfruttamento della forza lavoro nella forma dell’estorsione di plusvalore: con una pungente ironia Harvey rammenta che “la produzione è il momento magico in cui si verifica quella che Marx chiama la valorizzazione del capitale”(24), a significare che il capitalista, visto che nella sfera della circolazione le merci vengono scambiate tutte al loro valore, fa di tutto per mantenere nascosto l’enigma della valorizzazione del capitale ossia della produzione di ricchezza. Marx svela tale enigma dimostrando che la forza lavoro è l’unica risorsa a creare un ampliamento di valore. Infatti “i capitalisti pagano ai lavoratori il valore della loro forza lavoro e poi li usano per produrre più valore di quello che essi ricevono vendendo la propria forza lavoro per un certo intervallo di tempo. La base della produzione e dell’appropriazione del plusvalore sta nello sfruttamento della forza lavoro viva nel processo di produzione ma, notate bene, non sul mercato”(38).       

Il valore trova nel denaro la sua espressione materiale, la sua abbagliante rappresentazione, ma, proprio perché definibile come un rapporto sociale, esso si distingue innanzitutto per il suo contraddittorio carattere di immaterialità, un carattere, nonostante questo, gravato dalle indiscutibili e spettrali conseguenze materiali e oggettive. “Il materialismo storico riconosce l’importanza di forze immateriali ma oggettive di questo genere” (19) dice Harvey. La nozione di valore in Marx, scrive Harvey, ha la stessa valenza che possono avere concetti come quello di autorità politica, di prestigio sociale o di identità culturale, concetti a cui si ricorre costantemente anche se sono di difficile misurazione e decidibilità. “Marx è molto attento alle parole. Parla del denaro quasi esclusivamente come la “forma di espressione” o come la “rappresentazione” del valore. Evita scrupolosamente l’idea che il denaro sia valore incarnato, o che sia un simbolo arbitrario imposto per convenzione ai rapporti di scambio (idea diffusa nell’economia politica del suo tempo). Il valore non può esistere senza il denaro come suo modo d’espressione. Viceversa, per quanto autonomo possa sembrare, il denaro non può tagliare il cordone ombelicale che lo lega a ciò che rappresenta. Dobbiamo pensare denaro e valore come autonomi e indipendenti l’uno dall’altro, ma dialetticamente intrecciati”(61-62). In che modo, allora, deve essere considerato il rapporto tra il valore e la sua espressione in forma di denaro? Marx riconduce il problema ai rapporti sociali sottostanti che determinano il valore. Sotto questo rispetto non si deve dimenticare, come si è già detto, che Marx rimanda la determinazione del valore allo sfruttamento nella sfera della produzione, lì dove vige la proprietà privata, della forza lavoro. Se il centro del problema è l’estorsione di plusvalore determinata dall’erogazione di un pluslavoro (il lavoro alienato sottoposto allo sfruttamento), allora perseguire l’obiettivo di una liberazione del lavoro dall’oppressione capitalista significa cambiare i rapporti di produzione per permettere al lavoratori associati di impossessarsi del controllo dei mezzi di produzione e di emanciparsi dal dominio di classe. Da questo punto di vista, Harvey sostiene che, secondo Marx, pensare di risolvere il problema prospettando soluzioni che modificano esclusivamente la sfera della circolazione, ossia che riformano soltanto il sistema creditizio e quello monetario, è illusorio.
​
Harvey, a conclusione del libro, scrive che “quel che Marx fa, nel Capitale come nei suoi altri scritti di economia politica, è suggerire una strada per penetrare in mezzo a tutte le confusioni del funzionamento quotidiano di un modo capitalistico di produzione e arrivare alla sua essenza  - le sue leggi interne del moto – attraverso la formulazione di concetti astratti intrecciati in una (…)  teoria dell’infinita accumulazione del capitale”(207). Il testo di David Harvey è un testo prezioso perché si propone di calare questo impianto teorico complessivo entro la dimensione spazio-temporale dell’esistenza quotidiana, dimostrando in tal modo la vitalità prodigiosa dell’opera marxiana. 
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INDIETRO NON SI TORNA… PURTROPPO

1/11/2018
​di Alfonso Geraci e Marco Palazzotto

Dopo Nuovo PCI e Sinistra Anticapitalista, anche il PRC ha abbandonato il progetto PAP. Il documento votato dal CPN di Rifondazione non suscita entusiasmi, ma anche noi – che abbiamo condiviso per un anno il cammino di Potere al Popolo – abbiamo lasciato PAP dopo la votazione sui due statuti contrapposti, ritenendo (con motivazioni e preoccupazioni in buona misura diverse da quelle espresse dalla mozione di cui sopra) che si sia giunti a un capolinea, e che PAP abbia costruito e “blindato” un meccanismo di funzionamento sbagliatissimo e che rende molto difficile se non impossibile al singolo militante partecipare coscientemente ed efficacemente alla vita dell’organizzazione. Queste nostre riflessioni intendono avviare un dibattito, per cui auspichiamo che sia i compagni che proseguiranno il percorso di PAP che quelli che l’hanno abbandonato vogliano intervenire. 
[AG, MP]

Potere al Popolo prevede il potere al popolo?
La festa appena cominciata è già finita…
(Sergio Endrigo) 


Lo scorso 9 ottobre si sono concluse le consultazioni svolte nella piattaforma informatica di Potere al Popolo che hanno sancito, secondo il comunicato dello stesso movimento (qui maggiori dettagli https://poterealpopolo.org/concluse-le-operazioni-di-voto-potere-al-popolo-ha-il-suo-statuto/), la vittoria dello statuto 1 – sostenuto dalle componenti dell’Ex OPG occupato “Je so’ pazzo” e Eurostop – sullo statuto 2 – sostenuto invece dal PRC, ritirato all’ultimo momento dagli estensori e rimasto comunque online per il voto dopo la decisione della maggioranza del coordinamento nazionale provvisorio. 

Hanno votato a favore dello statuto 1 circa 3300 persone su più di 9000 iscritti e quindi il 37% circa degli aventi diritto, e pari al 55% degli utenti attivi. 

Non è il caso di soffermarsi molto sul dato numerico. A nostro parere risulta lapalissiana la sconfitta di chi ha sostenuto la bontàdella piattaforma informatica quale strumento democratico. Ancorché il risultato venga sbandierato come positivo, resta il fatto che meno della metà degli iscritti a PaP ha scelto lo statuto 1 in un momento, quello costitutivo, che dovrebbe coinvolgere almeno la maggioranza qualificata degli aventi diritto, come avviene nelle costituzioni di nuovi soggetti politici, ma anche sociali e perfino aziendali. Immaginatevi cosa sarebbe successo in Italia se i nostri padri costituenti avessero votato la Costituzione repubblicana con queste percentuali.

Sorvoleremo anche sui lanci di stracci tra PRC e resto di PAP. Non sottovaluteremmo, invece, l’importanza dello statuto (in questi giorni è stato detto che le regole sono importanti, ma adesso occorre andare avanti con la politica). La scelta delle regole decisorie è bensì fondamentale per la vita democratica del gruppo. Se questo non permette l’esercizio della rappresentanza politica dei territori, allora non ha senso parlare di “potere al popolo”.

Fin dalla sua prima formazione attorno alle assemblee del Brancaccio, e poi alle elezioni del 4 marzo, il leitmotivera stato l’assemblearismo, ovvero una politica non verticistica, sbilanciata verso le assemblee territoriali. All’atto pratico si è verificato uno spostamento in direzione contraria, il verticismo l’ha fatta dimostrabilmente da padrone e l’assemblea nazionale – sempre e comunque a partecipazione del tutto volontaria – è stato sempre un momento molto propagandistico e poco decisionale. Il coordinamento provvisorio, che ha dettato le regole del gioco per la fondazione del nuovo soggetto politico è stato nominato nelle assemblee nazionali, alle quali poteva partecipare solo chi poteva e voleva andare (immaginatevi le difficoltà per gli attivisti di Sud e isole). Inoltre nella scelta del coordinamento le assemblee territoriali non hanno potuto votare delegati o rappresentanti (almeno a Palermo – quinta città d’Italia per popolazione – non è successo). 

Ne è nato un processo – regole della fondazione, gestione della comunicazione, elezione portavoce provvisorio, ecc. – al quale le assemblee territoriali (ripetiamo: sicuramente Palermo, l’unica esperienza diretta che conosciamo) non hanno partecipato. 

Ma in una situazione di incertezza sulle regole nella quale si procede comunque alla fondazione di un nuovo soggetto politico, un certo spontaneismo ci può stare (ci esprimiamo in termini eufemistici per concentrarci sul cuore della questione); laddove le regole certe, ovvero lo statuto che deve disciplinare la vita politica e democratica del soggetto politico, una volta approvato diventa questione fondamentale. Bene: l’art. 1 dello statuto ufficiale recita: “Le Assemblee Territoriali sono il cuore e la struttura di base di Potere al Popolo!”. Questa espressione suona molto contraddittoria rispetto al resto dell’impianto regolamentare, se si pensa che l’Assemblea Territoriale – che rappresenta l’articolazione politica più importante nel territorio in cui opera, che è deputata a “promuovere il conflitto sociale, il mutualismo, il radicamento dell’associazione sul territorio”– non ha potere decisionale, in quanto non vota né direttamente, né per il tramite dei delegati. Infatti, secondo l’art. 2.1: “La forma della partecipazione all’Assemblea Nazionale è quella plenaria degli aderenti, con trasmissione in streaminge con il supporto della piattaforma informatica in caso di votazioni”. Ciò significa che possono verificarsi molteplici scenari. Tra i quali alcuni paradossali come ad esempio il caso che all’Assemblea Nazionale non partecipi fisicamente e con il voto informatico nessuno che di solito svolge attività politica nei territori. O che la maggioranza dei votanti sia composta da soggetti che non abbiano partecipato a nessuna Assemblea Territoriale o comunque non abbiano mai svolto attività politica. In pratica ci potremmo trovare anche nell’ipotesi della “democrazia di rete” del Movimento 5 stelle, superando il tipo di politica che Potere al Popolo dichiara di aver abbracciato, come il mutualismo, il conflitto sociale, il radicamento nel territorio. 

Al netto delle considerazioni sopraesposte sui problemi del voto informatico, ne esiste un altro che si riferisce al CHI gestisce la piattaforma (la quale – si badi – rimane a nostro avviso un utilissimo strumento di confronto e consultazione, ma non decisionale). Ci si affida ad uno strumento che la base non può gestire direttamente. Per dare forza al nostro ragionamento leggiamo lo statuto 1, art. 2: “Sono competenze e obblighi del Coordinamento Nazionale: (…) e.Gestire il sito internet e la piattaforma informatica. A tale incarico sono delegati il/la Webmaster e il gruppo responsabile del funzionamento della piattaforma”.

Andiamo adesso al secondo elemento critico che ci pare allontanare PAP da un progetto di lungo termine per cui valga la pena attivarsi. Ma facciamo una breve premessa. 

Quando è stato deciso di costituire PAP e presentarsi alle elezioni dello scorso 4 marzo, due erano le caratteristiche che ci spingevano ad aderire. La prima la forma democratica e il coinvolgimento degli attivisti dei territori nel processo decisionale (di questo aspetto abbiamo discusso sopra) e il secondo la volontà di allargare il progetto a più soggetti politici che gravitano nella cosiddetta sinistra radicale, tentando di concentrare le sparute forze di piccole soggettività. Quello che è successo dopo le elezioni però vira verso un percorso contrario. Il nuovo PCI si è defilato già da qualche mese, adesso sono fuori anche Sinistra Anticapitalista ed altri soggetti. Il PRC si è spaccato sulla permanenza, e durante il voto degli statuti si è creata con il resto di PAP una lesione profonda, non più rimarginabile. Rispetto al mondo sindacale, poi, c’è da registrare un’altra chiusura: l’unico interlocutore preso in considerazione è USB; di Cobas, CGIL e altre realtà sindacali di sinistra non si fa menzione. 

Vale la pena infine di spendere qualche altra parola sulla Piattaforma come (preteso) strumento di una democrazia “diretta”, che supererebbe nei fatti il concetto di delega: questa la tesi di chi ha sostenuto lo ‘Statuto 1’ nella controversia interna a Potere al Popolo. 

E domandiamoci subito: che differenza c’è tra A) parteciparefisicamentea un’assemblea e B) connettersi a internet? Essere presenti in carne e ossa a una discussione – una discussione politica, nel caso in oggetto, ma non necessariamentepolitica – comporta due cose: 1) dovere ascoltare gli interventi di chi sappiamo già non pensarla come noi; 2) potere eventualmente ascoltare le ragioni di una terza, se non addirittura di una quartaposizione, le quali forse non avevamo neppure immaginato essere “in ballo”. Nel caso 1) l’ascolto come minimo ci servirà ad affinare dialetticamente la nostratesi, a difenderla, a chiarircela, e magari a calibrarla meglio. Nel caso 2) chissà che non si cambi addirittura idea, o che si modifichi sensibilmente la posizione che davamo per acquisita. Le assemblee servono innanzituttoa questo: e uno strumento migliore a tutt’oggi non si è ancora trovato. Il paragone tra partecipare a un’assemblea e la fruizione di una diretta streaming, inevitabilmente frammentaria, partigiana (sarò portato ad ascoltare soprattutto coloro con i quali immagino una consonanza: è il meccanismo alla base del clickbait, e di gran parte delle interazioni sui social) e in larga misura passivizzante, ci pare del tutto improponibile. Non parliamo poi del voto su Piattaforma come regola, come ‘normalità’ organizzativa, anziché come utilissimostrumentoadatto a circostanze particolari e casi specifici di impedimento a partecipare fisicamente ad una votazione. Tale centralità della Piattaforma ci pare destinata a svuotare prima di significato e poi “materialmente” le assemblee fisiche. A tal proposito speriamo di sbagliarci, ma nulla di quanto abbiamo visto e sentito negli ultimi mesi fornisce elementi in tal senso. 

Nella nostra tradizione politica, infine, dall’assemblea nasce in un modo o nell’altro la delega,anche quando molto semplicemente si affida alla tale compagna o al tale compagno l’incarico di scrivere un documento o di fare un giro di telefonate. La delega è certamente una gran brutta bestia, ed è il primo gradino della formazione di un ceto politico autonomizzato rispetto alla base. La delega permanentealla tale o al talaltro la si combatte attraverso la partecipazione (e la “politicizzazione”, fateci passare l’apparente paradosso) ditutti, attraverso la rotazione delle cariche, attraverso meccanismi garantiti, accessibili ed efficaci di verifica e di revoca del mandato. Non certo attraverso la Piattaforma, che al contrario rende più opachi, se non inafferrabili, tutti i passaggi che portano alla delega stessa. Né i più entusiasti sostenitori della “democrazia diretta” dentro PAP hanno poi rifiutato sdegnosamente le varie cariche di coordinatore, delegato (ehm…) e quant’altro. 

Il PRC, l’Europa e gli Idoli della Piattaforma.
Chissà se finirà/Se un nuovo sogno la mia mano prenderà…
(sempre Sergio Endrigo) 


Scansiamo a questo punto un equivoco: da ormai un lustro frequentiamo regolarmente il Circolo Luxemburg di Rifondazione a Palermo, abbiamo stretti rapporti di collaborazione con i compagni di quel circolo, seguiamo con grande interesse il dibattito nel partito. Ma le complesse divaricazioni interne al PRC non c’entrano molto con quello che noi pensiamo e che riteniamo urgente fare. Non ci interessano i discorsi identitari su “Rifondazione che non si scioglierà mai”: al contrario ci piacerebbe un PRC che superi se stesso in un incontro con esperienze e culture politiche differenti, ma passando inevitabilmenteattraverso una discussione approfondita – e dunque, facciamocene una ragione, una discussione lenta– che investa tutti i nodi teorici, analitici e strategici da sciogliere per una sinistra che oggi è in larga misura dareinventare, e non da “riproporre” in base a improbabili nostalgie e teorie del “tradimento”. Proprio quello che speravamo si potesse fare con Potere al Popolo, e non è stato possibile fare. Né ci entusiasma la costruzione di un Quarto Polo tutta elettoralistica. Ancora meno credibili, tuttavia, ci sembrano gli accanimenti terapeutici – di segno vuoi movimentista vuoi “partitista” – di chi in tutta evidenza spera ancora di trovare in PAP una casa eurofoba ed ‘exitista’. E proprio la questione dell’UE è – anche questa volta, purtroppo– un ottimo esempio di quello che non ha funzionato dentro PAP. Il dilemma tra 2 opzioni di fatto inconciliabili [1) L’UE come terreno al momento ineludibile dello scontro di classe; 2) “Smontaggio” dell’UE (e/o dell’euro) come unica via percorribile] è stato prima sottaciuto, poi sminuito, poi esorcizzato dai dirigenti di PAP (nel migliore dei casi si è usata la formula di compromesso tipica di Rifondazione: “disobbedienza ai trattati”, una “coperta” che ognuno ovviamente ha tirato dalla sua parte, ma alla quale riconosciamo perlomeno un valore pratico, di “tenuta” organizzativa); salvo poi, a partire dall’estate scorsa, sentire da fonti autorevoli che PAP doveva[?] essere per lo “smontaggio”, che “il movimento ha scelto Melenchon” [Quando? Dove? Come?] e che senz’altro avremmo “rotto con Varoufakis” [Per Quale Motivo?]. Tutto questo senza che si fosse mai svolta una discussione politicain merito (c’era invece stata, perlomeno qui a Palermo e per iniziativa del compagno Frank Ferlisi, una bella discussione pubblica di taglio “teorico”, svoltasi al circolo ARCI “Porco Rosso” con la partecipazione di Domenico Moro, Giusto Catania, Vincenzo Marineo ed Alfonso Geraci, nella quale erano emerse – non inaspettatamente – posizioni lontane fra di loro). Ma sicuramente basterà poi la Piattaforma a dirimere la questione.[1]

​E adesso? Adesso PAP non diventa certo un “concorrente” politico per gli scriventi, che oltretutto non militano in nessuna organizzazione partitica: al contrario auspichiamo la prosecuzione dell’attività dei Gruppi di Lavoro che hanno svolto in alcuni casi un lavoro eccellente e prevedono la partecipazione di esterni a PAP: un lavoro del tutto necessario per una sinistra che è stata sconfitta e che (ci ripetiamo) deve reinventarsi, “studiando il Passato – come diceva il grande shakespearologo Terence Hawkes – proprio in quanto è diverso dal Presente”. 

1. Non è questo il luogo per illustrare le rispettive posizioni sulla ‘questione UE’ dei due scriventi, che convergono ma non collimano al 100%. Rinviamo in prima battuta ai nostri interventi più recenti su PalermoGrad: http://www.palermo-grad.com/uneuropa-da-conquistare.html e http://www.palermo-grad.com/sovranismo-malattia-infantile-della-nuova-sinistra.html.
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