LONTANO DA DIO, VICINO AL FMI
23/11/2017
di Vincenzo Scalia
I dati macroeconomici ostentati dal governo messicano e dalle istituzioni economiche internazionali presentano il Messico come un paese dinamico, emergente. La quindicesima economia del mondo, la seconda dell’America Latina, ottavo produttore di automobili, decimo di tecnologia aerospaziale. Dati che rinforzano l’orgoglio nazionale, già sufficientemente rinsaldato dalla rappresentazione di Paese politicamente più stabile del sub-continente latino americano e di unico Stato, insieme a Cuba, generato da una rivoluzione sociale riuscita. In realtà, il contesto messicano si connota per una grande complessità, all’interno della quale albergano almeno quattro principali contraddizioni. La prima è quella relativa alla distribuzione delle risorse. Il decollo economico tanto decantato è il frutto degli accordi del NAFTA (North America Free Trade Agreement) del 1992, che vennero siglati sulla scia delle politiche restrittive imposte al Messico in seguito alla crisi del debito del 1982, la prima di un paese debitore, che inaugurò l’epoca dei cosiddetti “aggiustamenti strutturali”. Il Messico è diventato la catena di montaggio delle maggiori case automobilistiche mondiali. Non solo Ford, Chrysler e Jeep, ditte statunitensi che beneficiano del NAFTA, ma anche Nissan, Samsung, Volkswagen, Porsche, hanno trovato convenienza a stabilirsi in Messico, forti della detassazione e di una nuova legislazione sindacale sul modello statunitense, che prevede la sindacalizzazione solo qualora un quarto dei lavoratori lo richieda. Inoltre, gli aggiustamenti strutturali si sono tradotti in un ri-calibro della spesa pubblica secondo le esigenze degli investimenti stranieri. Ad esempio, nello stato di Tlaxcala la Audi sta costruendo una fabbrica che darà lavoro a 3000 persone. Il governo tlaxcalteco sta investendo risorse cospicue nella realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria necessarie ad allacciare i collegamenti tra la fabbrica e le vie di comunicazione principali, per agevolare il flusso produttivo e della circolazione delle merci. In cambio, ha ridotto i finanziamenti pubblici alle scuole locali e alle strutture sanitarie, rendendo vane le proteste dei lavoratori e degli utenti del settore. Fino agli anni Ottanta, in Messico esisteva un settore sanitario unico, adesso ne esistono tre: per gli impiegati del settore pubblico, per gli operai, per gli impiegati del settore privato, ognuno secondo la capacità contributiva dei propri iscritti, creando una disuguaglianza di fatto tra i cittadini rispetto all’accesso alla sanità. Lo smantellamento del trasporto pubblico, tipica misura dei paesi che hanno subito le politiche di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, fa sì che esista un sistema ferroviario per il flusso delle merci ma non più per la circolazione delle persone. A parte Città del Messico, le metropoli messicane non dispongono di una rete di tram o di metropolitane, soffocando nell’inquinamento, anche per incentivare l’acquisto di auto prodotte in loco. Lavoro sottopagato e disuguaglianze sociali incentivano una massiccia emigrazione. 35 milioni di cittadini americani hanno origini messicane, 9 milioni di loro sono nati in Messico, creando una dipendenza politica, economica e culturale dal grande fratello nordamericano che si esplicita in altri aspetti. Ad esempio, sebbene il Messico vanti un’autosufficienza energetica grazie al petrolio, non dispone della tecnologia per raffinarlo, per cui deve rivolgersi alle raffinerie situate a nord del Rio Bravo. L’assunto del dittatore Porfirio Diaz, secondo cui il Messico è troppo lontano da Dio e troppo vicino agli USA, è ancora oggi attuale. Sulla contraddizione di classe si innesta quella tra centro e periferia. I campesinos avevano rappresentato una colonna portante della rivoluzione avvenuta tra il 1910 ed il 1917. Negli anni Trenta del Novecento, il presidente Lazaro Cardenas aveva redistribuito 170 milioni di ettari di terre ai contadini, rinforzando il sostegno rurale al Partido Revolucionario Institucional (PRI), che governò il paese ininterrottamente dal 1929 al 2000. Le politiche neo-liberiste hanno incentivato solo le colture da esportazione, privando di adeguato sostegno quelle orientate all’autoconsumo e al mercato interno, con la conseguenza di catalizzare i processi migratori o di spingere frange della società contadina tra le pieghe dell’economia illegale, in particolare quella che gravita attorno ai narcos. Inoltre, la struttura federale del Paese si intreccia con le differenze di classe, favorendo la riproduzione di gruppi di potere locali che alimentano le catene clientelari che si dipartono dal centro. Jefes e caudillos imbastiscono reti di patronato che cercano di sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda degli equilibri politici nazionali, al fine di assicurare a sé stessi e ai loro protegè un minimo di prebende che ne permetta la sopravvivenza. In questo contesto, i popoli nativi si trovano in una posizione marginale, che li porta ad organizzare proteste che spesso sfociano nella costruzione di movimenti radicali, come nel caso del Chiapas. La terza contraddizione che attraversa la società messicana è quella di genere. Le donne si trovano ancora in una posizione subalterna, che le rende vittime di frequenti episodi di discriminazione e di machismo sul lavoro, in famiglia, nella società. Ogni anno 10.000 donne messicane tra i 14 e i 40 anni vengono sequestrate, per essere uccise, deportate oltre frontiera come prostitute, costrette a matrimoni combinati. Spesso il sequestro si svolge con la complicità attiva degli uomini della famiglia. Negli ultimi anni la società civile messicana ha prodotto movimenti di donne che si battono contro il machismo e le sparizioni, ma si tratta di soggettività che ancora debbono radicarsi, anche per una sovrapposizione marcata tra la sfera legale e quella illegale. È proprio quest’ultima a rappresentare la quarta – ma non la minore – contraddizione messicana. Se in passato la leva della spesa pubblica consentiva, attraverso l’attivazione del clientelismo di massa, di tenere relativamente a freno le disuguaglianze sociali e di regolamentare le attività illegali, per cui il traffico di droga era tollerato e regolamentato dai politici e dalle forze di polizia locali, dagli anni Ottanta in poi la tendenza si è invertita. I tagli alla spesa pubblica hanno ristretto la legittimazione dei politici, e le forze di polizia, coi tagli agli stipendi, si sono rivolte o al mercato della sicurezza privata o a quello dei narcos, finendo per prendere tangenti dai trafficanti, o, addirittura, per essere impiegati tra loro. Uno dei clan più feroci del narcotraffico, Los Zetas, era una divisione speciale dell’esercito impiegata in Chiapas, e trae il suo nome dal codice utilizzato per comunicare via ricetrasmittente. Inoltre, lo sradicamento delle colture di marijuana nel nord del paese in seguito all’Operazione Condor, ha provocato il loro spostamento negli stati centrali, generando la nascita di nuovi cartelli del narcotraffico. La posizione geografica del Messico ha poi favorito la nascita della pista secreta, ovvero del traffico di cocaina dai paesi dell’America del Sud agli USA, in certi casi tollerati da Washington stessa, quando si trattava di ricevere l’aiuto dei narcos di confine per smerciare le armi ai contras nicaraguensi. Lo sfrangiamento delle istituzioni statali, le politiche neoliberiste, la politica di contrasto al traffico di stupefacenti improntata al supply side, ovvero alla repressione dei produttori, hanno provocato la formazione, negli ultimi anni, di ben 120 organizzazioni criminali, dedite al traffico di stupefacenti, alla tratta delle donne, ai furti delle risorse naturali, alla sicurezza paramilitare. La Merida Initiative, accordo imposto dal grande fratello yankee al governo federale messicano nel 2014, ha comportato l’addestramento e l’equipaggiamento di reparti speciali dell’esercito federale finalizzati allo sradicamento delle colture illegali e alla cattura dei principali capi-clan. Ne è conseguito un aumento della pressione sui contadini e sulla società civile messicana, stretti nella morsa tra le squadre paramilitari private, i gruppi di fuoco dei narcos, i reparti speciali dell’esercito federale. Giornalisti, studenti e membri delle ONG che tentano di denunciare queste situazioni vengono trucidati. Si parla di centinaia di giornalisti che ogni anno perdono la vita nelle zone calde del Messico, in particolare quelle di confine, per denunciare questi gravi abusi. Le elezioni del prossimo anno vedono al momento avvantaggiato Andres Manuel Lopez Obrador, candidato del gruppo di sinistra MORENA (Movimiento de Renacimiento Nacional), contro gli ancora ignoti candidati del PRI e di un’anomala coalizione che vede alleati la destra del Partido de Accion Nacional (PAN) e la sinistra del Partido de la Revoluccion Democratica (PRD), ex-partito di AMLO. Gli Zapatisti presenteranno una candidata propria, una donna tzotzil, per protestare contro l’approssimazione del MORENA, che parla di dare un personal computer ad ogni messicano, ma trascura aspetti come difesa dell’ambiente, servizi pubblici, politiche di contrasto all’economia illegale. Forse, il Messico, più che da Dio, è lontano da sé stesso…
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George Souvlis a colloquio con Kathi Weeks
Tu sei marxista, o sbaglio? In che misura il marxismo ha influenzato il tuo lavoro? Sì, mi considero marxista, tra le altre influenze intellettuali e politiche. Sono stata attratta dal marxismo per la dimensione di impegno che vi è collegata, e per la miriade di strumenti che offre per comprendere il funzionamento delle economie capitalistiche e delle loro formazioni sociali. Probabilmente ciò che mi interessa maggiormente sono quelle versioni del marxismo che si concentrano sul lavoro e in particolare sull’esperienza che i lavoratori fanno di esso – dei suoi ritmi, dell’organizzazione, dei rapporti di potere, dei suoi piaceri e dei suoi dolori – come punto di partenza per lo studio delle società capitalistiche. Per me il marxismo, quindi, è stato particolarmente significativo in quanto luogo collettivo di esplorazione ai fini dello studio critico del lavoro. In quanto femminista marxista, la mia analisi delle identità e delle gerarchie di genere tende a riconoscere nella divisione sessista del lavoro una potente macchina di riproduzione delle differenze e disuguaglianze di genere. Non si tratta dell’unico motore del sessismo, ma ritengo che la divisione di genere nel lavoro di assistenza a bambini e anziani sia una fonte particolarmente potente delle nostre idee e sentimenti, e delle ideologie e istituzioni di genere. Come definiresti il femminismo marxista oggi, nel 2017? Quali sono, secondo te, le idee strategiche di base che il movimento dovrebbe seguire, nell’era del neoliberalismo globale? Ottime domande. Per cercare di rispondere, permettimi di fare una distinzione rozza ma utile tra due periodi del pensiero femminista marxista, uno passato e uno presente. Le femministe marxiste hanno intrapreso un lungo percorso per demistificare le pratiche, le relazioni e le istituzioni cosiddette “private”. Guardiamo innanzitutto al passato. Negli anni ’70, le femministe marxiste anglo-americane si concentrarono sulla mappatura del rapporto tra due sistemi di dominio: il capitalismo e il patriarcato. Si potrebbe considerare questa fase come un tentativo di avanzare una critica marxista del lavoro nel campo del lavoro domestico e delle relazioni familiari di produzione. Esaminando il lavoro basato sulla cura della casa, il lavoro domestico, il lavoro di consumo e il lavoro comunitario come forme di lavoro riproduttivo da cui il lavoro più strettamente produttivo dipende, e considerando la casa come un luogo di lavoro e la famiglia come un regime che organizza, distribuisce e gestisce quel lavoro, le femministe marxiste hanno da tempo demistificato queste pratiche, relazioni e istituzioni cosiddette “private”. Da un lato, ponendosi la questione teorica di come interpretare il rapporto tra capitalismo e patriarcato: meglio concepirli come due sistemi correlati o come un unico sistema completamente interconnesso? Dall’altro, concentrandosi anche sulla questione pratica, e strettamente connessa alla precedente, delle alleanze: i gruppi femministi dovevano essere autonomi o integrarsi con altri movimenti anticapitalisti (e spesso antifemministi)? Oggi ci troviamo in una situazione diversa che offre nuove possibilità per il rapporto tra marxismo e femminismo. Mentre le femministe degli anni ’70 lottavano per applicare l’analisi marxista, originariamente dedicata allo studio del lavoro salariato, a un tipo molto diverso di lavoro non pagato che non veniva considerato come facente parte della produzione capitalista, penso che oggi per comprendere le nuove forme di lavoro salariato dobbiamo guardare alle vecchie analisi femministe sul “lavoro femminile” salariato e non. Alcuni descrivono il momento attuale in termini di “femminilizzazione del lavoro”. Non è la mia espressione preferita, ma fa capire come nelle economie post-fordiste neoliberali sempre più lavori salariati somiglino alle forme tradizionali di lavoro femminile domestico. Questo è particolarmente evidente nell’aumento di forme occupazionali a basso salario, part-time, informali e precarie, nonché nella crescita del settore dei servizi, che attinge dalle capacità emotive, gestionali e comunicative dei lavoratori che sono sottovalutate e difficilmente misurabili. Per capire questi cambiamenti nel mondo del lavoro, piuttosto che utilizzare la vecchia prospettiva marxista per studiare le forme di lavoro domestico non pagato, dobbiamo attingere alle analisi femministe marxiste sulle forme sessiste, sia del lavoro salariato che di quello non retribuito, per le loro intuizioni su come queste forme vengano sfruttate e vissute. L’implicazione pratica di ciò è che, se vogliamo capire e resistere alle forme contemporanee di sfruttamento, il marxismo non può più ignorare o distaccarsi dalle teorie e dalle pratiche femministe. Per come la vedo io, la teoria femminista non è più “facoltativa” per la critica marxista. In molte tue pubblicazioni fai riferimento al concetto di rifiuto del lavoro. Secondo te questo concetto cosa può offrirci a livello analitico e politico? Ho preso in prestito questo concetto dalla tradizione del marxismo ‘autonomista’. Per come lo intendo, il rifiuto del lavoro è diretto contro il sistema di (ri)produzione organizzato intorno, ma non esclusivamente, al sistema salariale. Ci sono tre specificazioni da fare a questo proposito. La prima è che il rifiuto non è diretto a questo o a quel lavoro specifico, ma al più ampio sistema di cooperazione economica finalizzato a produrre accumulazione di capitale per quei pochi lavori salariati che dovrebbero sostenere il resto della collettività. In secondo luogo, la nozione di rifiuto del lavoro non privilegia alcuna forma di lotta specifica - come ad esempio l’interruzione del lavoro - ma piuttosto aspira a costruire una critica radicale del lavoro che potrebbe includere un elenco molto più lungo di possibili azioni e prese di posizione. Infine, intenderei il rifiuto del lavoro come un progetto politico collettivo a lungo termine e non come un imperativo morale individuale. L’obiettivo è quello di trasformare le istituzioni e le ideologie che ci legano all’attuale mondo del lavoro, salariato e non, attraverso l’organizzazione politica della collettività. La gran parte degli individui, in quanto tali, non possono certo abbandonare la propria occupazione: pertanto non è di questo che stiamo parlando. Penso che il rifiuto del lavoro sia politicamente importante perché ritengo che il lavoro e le relazioni di (ri)produzione siano luoghi particolarmente significativi per lo sviluppo della coscienza politica e della contestazione. Il sistema salariale non funziona più, quasi per tutti. Molti di noi hanno problemi con il lavoro. A seconda dei casi, può trattarsi di sovraccarico, disoccupazione o sottoccupazione: anche se la gravità di tali condizioni varia parecchio col variare del settore economico di riferimento. È nel nostro rapporto col lavoro (inteso in senso ampio, per includervi sia lo svolgimento di occupazioni non salariate sia l’essere esclusi dal rapporto di lavoro in una società che invece lo prescrive) che abbiamo più probabilità di sviluppare una prospettiva critica sul capitalismo e di formulare richieste di cambiamento. Come pensi che il rifiuto del lavoro possa essere utile alla condizione lavorativa delle donne? Può questo rifiuto rappresentare una tattica per l’attuale movimento femminista? Sì, ritengo che il rifiuto del lavoro offra alle femministe una prospettiva di analisi critica e un ordine del giorno per la pratica politica di fondamentale importanza. Per capirne il motivo, dobbiamo ripensare la nostra idea di economie capitalistiche. Il sistema salariale, che rimane il meccanismo chiave della sopravvivenza economica, dipende da una seconda istituzione, ovvero la famiglia privatizzata, che funge da locus primario per il lavoro riproduttivo, quello necessario per riprodurre i lavoratori su base quotidiana e generazionale. Quindi, il sistema lavoro salariato-lavoro domestico include i principali sistemi di produzione incentrati sul lavoro pagato e sulla riproduzione organizzata intorno alla famiglia, tenuti insieme dall’istituzione della famiglia attraverso cui molti di noi vengono reclutati in queste relazioni di riproduzione, solitamente non pagate e divise per genere. Dunque - come le femministe sostengono da tempo - abbiamo bisogno di una più ampia mappatura del sistema economico capitalista in grado di rappresentare tutte le forme di lavoro, salariato e non, che servono a sostentare questo sistema. Resta, tuttavia, la questione di cosa significhi “rifiutare” il lavoro socio-riproduttivo per come è attualmente organizzato e diviso. Come le femministe hanno potuto imparare, rifiutare il lavoro domestico è un progetto molto difficile, potenzialmente gravido di effetti a lungo termine. A mio parere, il rifiuto del lavoro, a questo livello, impone come minimo la critica della famiglia quale cardine istituzionale per le relazioni sociali del lavoro riproduttivo domestico e la critica dell’etica familiare quale suo supporto ideologico. Al suo massimo livello, significa mettere in dubbio l’intera organizzazione del lavoro e della vita. Questo è uno dei tanti motivi per cui mi interessa molto quanto si è scritto negli anni Settanta intorno alla questione Salario per le Casalinghe. Quello a cui puntavano queste teoriche e militanti è, secondo me, una delle manovre più difficili da compiersi per il femminismo marxista: render visibile il lavoro domestico in quanto, per l’appunto, lavoro e in quanto parte del processo di valorizzazione, ma allo stesso tempo, sottolineare che in esso non c’è nulla da celebrare o da venerare. Questa è una cosa molto difficile da fare: riconoscere che il lavoro domestico è un lavoro socialmente necessario (che richiede, tra l’altro, più tempo libero dal lavoro remunerato per essere svolto), ma senza sopravvalutarlo in quanto tale: piuttosto, bisognerebbe demistificarlo, de-romanticizzarlo, de-privatizzarlo, de-individualizzarlo e, naturalmente, eliminare la sua dimensione sessista. Bisogna inoltre lottare affinché il lavoro non diventi tutto nella vita. Secondo me, questo significa lottare contro – per citare solo due o tre cose – la divisione sessista del lavoro, le terribili condizioni in cui si svolge tanto lavoro domestico, nonché forme di intensificazione del lavoro come l’ideologia dell’intensive mothering ovvero della “maternità intensa”. Bisogna anche includere lo sviluppo di nuovi modi di organizzare e condividere il lavoro e renderlo significativo. Nel tuo libro The Problem with Work sostieni fortemente il reddito universale di base garantito. Attualmente sembra che sempre più saggi e articoli di sinistra affermino che i progetti sul reddito di base non siano necessariamente di sinistra ma anzi coerenti con la logica e la ristrutturazione neoliberale (sostanzialmente, si tratta di investire denaro in un problema invece di fornire un qualsiasi tipo di soluzione strutturale). Hai qualche specificazione da fare circa il reddito di base garantito e universale, alla luce di queste nuove critiche di sinistra e del successo di questo concetto presso i conservatori? Interpreto l’interesse crescente nei confronti del reddito di base all’interno di tutto lo spettro politico come uno sviluppo positivo. Ecco come la vedo io: la richiesta di un reddito di base è – stanti determinati termini della richiesta – “di sinistra”; ma le politiche di attuazione di tale richiesta sono fortemente ambigue. Che il reddito di base possa migliorare o meno la vita di un gran numero di lavoratori dipende da molti dettagli, principalmente dal livello del reddito fornito. Se è troppo basso, rischia di favorire ulteriormente i datori di lavoro che pagano poco, offrendo ai loro lavoratori un supplemento salariale. La richiesta che io sostengo è quella di un reddito minimo di sussistenza che, consentendo ai lavoratori di non lavorare per un certo periodo, forzerebbe gli imprenditori ad offrire salari e condizioni migliori. Detto questo, le politiche sul reddito di base possono essere ingannevoli, poiché è probabile che una volta istituito, il reddito di base venga concesso ad un livello basso. La lotta per aumentarne successivamente il livello richiederà ulteriori sforzi. Ma anche qualora esso venisse erogato nella forma di reddito minimo di sussistenza, dovrebbe essere chiaro che il reddito di base non è una proposta per sostituire il sistema salariale, ma solo per allentarne la presa su di noi, fornendo reddito agli esclusi o ai precari e a tutti quelli il cui contributo alla (ri)produzione sociale non è attualmente remunerato. Esso inoltre consentirebbe agli individui di negoziare contratti di lavoro più favorevoli e di fare scelte migliori circa le relazioni intime e familiari da instaurare. Pur trattandosi di vantaggi consistenti, essi non forniscono una visione rivoluzionaria e post-capitalista. Al contrario, credo che il reddito di base sia probabilmente l’unico modo per il capitalismo di sopravvivere materialmente e ideologicamente nel prossimo futuro, visto che il sistema salariale e la famiglia continuano a rivelarsi inadeguati nella distribuzione del reddito e nell’organizzare una produzione cooperativa. Piuttosto, ciò che un reddito di base potrebbe fornire è il supporto materiale al tempo e agli sforzi necessari per richiedere ulteriori riforme e per pensare più criticamente al lavoro e al non-lavoro, e per pensare in maniera più creativa a come essi potrebbero essere ulteriormente trasformati. In questo senso, si tratta di una richiesta piuttosto modesta, ma penso che permetterà ulteriori sviluppi politici ed azioni. Pensi che il concetto di lavoro precario si concentri troppo sul contratto e sui termini di impiego, anziché sullo sfruttamento che si verifica nella valutazione del lavoro? La teoria critica ha forse bisogno di un concetto più forte rispetto a quello di ‘precarietà’, come ad esempio ‘super-sfruttamento’? Intendo la precarietà e lo sfruttamento come due diversi aspetti dell’organizzazione del lavoro salariato. Il concetto di sfruttamento descrive i termini essenziali del rapporto di lavoro capitalistico; lo sfruttamento del lavoro è la linfa vitale del sistema. Lavori diversi possono essere sfruttati in gradi diversi e sotto diversi tipi di regimi manageriali, ma rimane una caratteristica fondamentale del sistema di lavoro salariato nel capitalismo. La categoria di precarietà indica un cambiamento storico di aspetti più specifici del rapporto di lavoro. Ritengo che il termine abbia più senso quando è usato per indicare il passaggio dal modello fordista (ovviamente si tratta di un modello ideale piuttosto che di una descrizione empirica del lavoro) di occupazione a vita, a tempo pieno e sicura, che consentiva ai lavoratori di consumare costantemente i prodotti e servizi che producevano, verso forme di occupazione temporanee, part-time ed insicure in una economia di rete e globalizzata in cui i consumatori possono essere trovati altrove. Penso che il termine sia più significativo per coloro che si trovano fuori dagli Stati Uniti, dove invece il modello fordista era meno diffuso e l’occupazione era storicamente più precaria per un gran numero di lavoratori rispetto, ad esempio, ad alcune economie dell’Europa occidentale. Detto questo, credo che il concetto di precarietà sia un’aggiunta importante anziché un’alternativa al concetto di sfruttamento. Lo trovo più convincente quando non viene utilizzato per difendere o rivendicare il vecchio modello fordista, ma quando viene usato come parte della lotta per rendere più sicuro, sostenibile e vivibile un rapporto con il lavoro in cui esso non domini il resto della vita. [traduzione di Stefano Oricchio] LA RIVOLUZIONE RUSSA IN ITALIA
14/11/2017
di Tommaso Baris
In occasione del centenario della rivoluzione d’Ottobre sono apparsi nelle librerie diversi volumi: da saggi di riflessione storica appositamente scritti ad importanti classici riproposti ad anni di distanza dalla loro prima uscita, per arrivare a testi finalmente tradotti per il pubblico italiano. In questo quadro assai ampio ed articolato spicca il volume curato da Marco Di Maggio, Sfumature di rosso. La Rivoluzione russa nella politica italiana del Novecento, apparso per la Biblioteca di “Historia Magistra” presso la casa editrice Accademia University Press di Torino (il testo sarà presentato domani a Palermo, qui maggiori informazioni). Come si intuisce dal sottotitolo, il testo, che raccoglie undici saggi di giovani studiosi, più una postfazione di Angelo D’Orsi e una esplicativa introduzione del curatore, non è dedicato tanto alle vicende della Rivoluzione bolscevica in sé, quanto punta invece ad analizzare le ripercussioni di quell’evento nel quadro politico italiano, da intendersi qui come la posizione rispetto a quell’evento delle differenti culture politiche che si svilupparono nel corso del Novecento nel nostro paese. Non un libro dunque sull’Ottobre ma su cosa ha significato, tra seguaci, critici e oppositori in Italia. Inevitabilmente al centro di una simile impostazione finisce il tema della Rivoluzione, evento lungamente evocato e pensato nel corso dell’Ottocento dentro il movimento socialista ed operaio, la cui concreta realizzazione nella Russia zarista in disfacimento nel corso della Grande Guerra apre uno scenario di speranza per alcuni e di angoscia e terrore per altri. Proprio il saggio iniziale, di Leonardo Pompeo D’Alessandro, dedicato al dibattito dentro il socialismo italiano sull’Ottobre, ci dimostra come a contare inizialmente fosse soprattutto il significato simbolico attribuito all’evento, che in gran parte prescindeva da una reale conoscenza dei fatti russi ed anche dell’articolazione interna dentro il movimento socialista di quel paese. Infatuati del “mito russo” considerava infatti Turati sia massimalisti che comunisti, non perché negasse il valore storico del fatto rivoluzionario per quel paese, ma perché li accusava di ritenere quell’evento generalizzabile con le stesse caratteristiche, che a lui sembravano invece tipiche e specifiche di un contesto arretrato e arcaico. Il socialismo in Occidente non poteva che svilupparsi lungo una linea evoluzionistica e gradualista, riproponendo agli occhi di Gramsci proprio il limite maggiore che aveva caratterizzato tutto il socialismo italiano prebellico, massimalisti compresi, incapaci di cogliere i fattori di accelerazione che la guerra totale aveva prodotto, spingendo le masse popolari nella fucina del conflitto ma anche dentro ad un inedito protagonismo politico che era considerato premessa dello scoppio rivoluzionario, ponendo il tema della costruzione della soggettività rivoluzionaria al centro dell’azione politica di un partito capace di ispirarsi ai bolscevichi per prendere il potere. Proprio il farsi Stato da parte della classe operaia è, per certi versi, il centro del saggio di Salvatore Cingari che attraverso l’analisi di alcune figure dell’estrema destra nazionalista e protofascista dell’epoca (da Corradini a Rocco passando per Marinetti e molti altri) sottolinea come l’orrore e la ripulsa per il governo delle masse e l’uguaglianza che sembrava caratterizzarlo si accompagnasse ad un forte interesse e all’aperta rivendicazione dell’azione rivoluzionaria e soprattutto dittatoriale come strumento di organizzazione e controllo della società. Su quest’ultimo aspetto si concentra il saggio di Luca Barufale che, a partire dal giudizio maturato dentro il movimento di Giustizia e Libertà sull’Ottobre, ci ricorda come al positivo riconoscimento, quasi unanime, della rottura rivoluzionaria e dello stesso processo di modernizzazione della Russia si accompagnasse la preoccupazione e la denuncia per l’autoritarismo e la cancellazione del pluralismo politico e sociale nel paese. Senza rinnegare la rottura rivoluzionaria ed anche considerando necessitate dalle contingenze esterne provocate dai nemici della Rivoluzione molte scelte del gruppo dirigente bolscevico, Rosselli insisteva sulla contraddizione che animava quell’esperimento: “Che cosa è allora un socialismo senza libertà, uno Stato socialista che non può vivere se non eternando la dittatura? È un socialismo che dalle cose non è ancora passato nelle coscienze, che anzi per rivoluzionare le cose è costretto ad opprimere le coscienze: è uno Stato che pur proponendosi di liberarla, schiaccia la società” (p. 59). Si trattava di questioni cruciali, destinate a riemergere negli anni Sessanta dopo essere invece scomparse all’indomani della seconda guerra mondiale, quando il prestigio dell’Urss è tale che, come dimostrano i saggi di Chiarotto, Capelli e Hobel, la sinistra italiana, in larga maggioranza, comunisti ma anche socialisti, si reinsedia nel paese sfruttando a proprio vantaggio l’enorme capitale simbolico costituito dall’“internità” (il Pci) o dalla vicinanza all’Unione Sovietica. La Rivoluzione d’Ottobre appare allora, a larghi strati popolari ma anche intellettuali, il momento di genesi e costituzione di un sistema socialista capace di superare le storture del capitalismo. Tratti di questa immagine transitano persino nei campi avversari. In casa missina il rifiuto del comunismo e dell’espansionismo sovietico non disconosce infatti il significato di rinascita “nazionale” che l’Ottobre ha avuto per la Russia, tornata potenza mondiale (saggio di Sorgonà); mentre in campo liberale se da un lato si segnalava il carattere utopico ed irrealistico ab origine dell’esperimento bolscevico, destinato per questo a produrre aberrazioni politiche ed economiche, non mancano passaggi di riconoscimento per una presunta adeguatezza alla profonda “anima russa”, sempre sottolineando il ruolo di grande potenza a cui l’Urss era assurta (si veda il saggio di Ambrosi). Sfugge a questa forma indiretta di fascinazione solo il campo cattolico che invece, insistendo sulla natura materialista del marxismo, e quindi sulla negazione ad ogni forma di spiritualità umana, non poteva che apparire l’alfiere della più coerente condanna del totalitarismo materialista comunista, a cui in verità, per taluni aspetti, Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti studiata qui da Ettore Bucci, associava anche il capitalismo occidentale. Il terzo ed ultimo gruppo di saggi è quello che invece riguarda in qualche modo il declino del mito della Rivoluzione d’Ottobre. Aperto dalle denunce al XX congresso del Pcus, la repressione della Primavera di Praga segna uno spartiacque in questo campo: non solo l’Urss infatti non appare più un modello ma la stessa origine rivoluzionaria appare ora un mito in via di progressivo esaurimento. Il saggio dedicato al rapporto tra “Nuova Sinistra” (in cui stranamente vengono però comprese alcune dissidenze storiche del movimento comunista) e memoria dell’Ottobre ci conferma come sostanzialmente altri siano i riferimenti di quei movimenti, interessati casomai a criticare il Pci per il suo riformismo e ad aprire interrogativi sulla natura del socialismo realizzato oltre cortina. D’altronde lo stesso Pci, come bene dimostra il saggio finale di Di Maggio, appariva allora impegnato in una difficile operazione mirante a non rinnegare il valore positivo dell’Ottobre e del leninismo ma anche a circoscriverlo storicamente ponendo il tema di una diversa via “rivoluzionaria” per il mondo capitalistico avanzato che per molti versi superasse in avanti la tradizione rivoluzionaria codificata all’interno del movimento comunista internazionale, rimasto sostanzialmente legato all’esperienza sovietica e fedele all’Urss anche dopo la rottura con la Cina. Il dibattito sull’Ottobre assume così un chiaro valore politico, dove l’approfondimento delle possibili alternative allo stalinismo prefigurava il tema di una riformabilità interna in senso democratico del sistema sovietico, negata ovviamente da quanti invece insistendo sul nesso meccanico Lenin-Stalin ponevano sotto accusa non solo il campo sovietico ma la stessa azione politica del Pci a livello nazionale ed internazionale. Il duello culturale a sinistra di fine anni Settanta tra intellettuali comunisti e socialisti, ricostruito con attenzione da Di Maggio, si svolse tutto in questa prospettiva, e terminò solo con la scelta del gruppo dirigente del Pci autore della “svolta” di liquidare il patrimonio politico-culturale costruito anche a partire da una relazione assai articolata con l’Ottobre, che si era assunta il compito di ripensare e tradurre in termini originali e specifici nel contesto occidentale. A fare da sfondo ovviamente a questa discussione la crisi stessa del mito rivoluzionario, sempre più evidente dalla fine degli anni Settanta: non solo l’Urss ma anche l’ampio spettro di rivoluzioni nazionali anticoloniali che avevano attraversato Africa, Asia e America Latina talvolta nel decennio precedente mostravano la corda, trasformandosi in regimi autoritari e spesso basati su palesi e lampanti disuguaglianze. LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
10/11/2017
di China Miéville
L’alba del 25 si avvicinava. Kerensky, disperato, lanciò un appello ai cosacchi «in nome della libertà, dell’onore e della gloria del nostro Paese natio […] per venire in aiuto del Comitato centrale esecutivo del soviet, della democrazia rivoluzionaria e del governo provvisorio, e per salvare lo Stato russo morente». Ma i cosacchi volevano sapere se la fanteria stesse arrivando. La riposta del governo fu evasiva, e allora tutti, ad eccezione di pochi fedelissimi, risposero che non erano disposti ad agire da soli «facendo da bersagli viventi». Ripetutamente, in diversi punti della città, il Comitato militare rivoluzionario (Cmr) disarmava senza colpo ferire le guardie fedeli al governo, invitandole semplicemente a tornarsene a casa. Nella maggior parte dei casi, esse obbedirono. Gli insorti occuparono il Palazzo dei genieri semplicemente entrandovi. «Entrarono e si misero a sedere, mentre quelli che erano seduti si alzarono e se ne andarono», secondo un aneddoto. Alle sei del mattino quaranta marinai rivoluzionari si diressero verso la Banca di Stato di Pietrogrado, le cui guardie, del reggimento Semenovsky, si erano dichiarate neutrali: avrebbero difeso la banca da rapinatori e criminali, ma non avrebbero preso posizione tra reazione e rivoluzione, né sarebbero intervenuti. Si fecero allora da parte e lasciarono che il Cmr prendesse il loro posto. Nel volgere di un’ora, mentre la luce acquosa dell’inverno inumidiva la città, un distaccamento del reggimento Keksgolmsky, al comando di Zakharov, un insolito cadetto della scuola militare passato alla rivoluzione, marciò verso la centrale telefonica principale. Zakharov vi aveva lavorato e ne conosceva i sistemi di sicurezza. Quando arrivò lì, non ebbe difficoltà a dirigere le sue truppe per isolare e disarmare i cadetti apatici e impotenti di guardia sul posto. I rivoluzionari staccarono le linee del governo. Ne lasciarono attive due, grazie alle quali i ministri del governo rimasero attaccati ai telefoni intorno alle filigrane bianche e dorate, ai pilastri e ai lampadari della sala Malachite del Palazzo d’Inverno, mantenendo i contatti con le loro esigue forze. Davano inutili istruzioni, litigando a bassa voce mentre Kerensky fissava il vuoto. ✯ A metà mattinata, a Kronstadt, come già era accaduto in precedenza, i marinai armati si imbarcarono su tutto ciò che trovarono di adatto alla navigazione. Da Helsingfors partirono su cinque cacciatorpediniere e guardacoste, tutte decorate con bandiere rivoluzionarie. In tutta Pietrogrado i rivoluzionari stavano ancora una volta svuotando le prigioni. Allo Smolny una figura trasandata piombò nel bel mezzo dei lavori nella sala operativa dei bolscevichi. Gli attivisti fissarono sconcertati il nuovo arrivato, finché Vladimir BonchBruevich urlò correndo verso di lui a braccia aperte. «Vladimir Ilich, nostro padre! Non ti avevo riconosciuto, mio caro!». Lenin si sedette per scrivere un proclama. Fremeva ansiosamente in una disperata lotta contro il tempo per rovesciare definitivamente il governo prima dell’apertura del secondo congresso. Conosceva bene il potere del fatto compiuto. «Ai cittadini di Russia. Il governo provvisorio è stato abbattuto. Il potere statale è passato nelle mani dell’organo del soviet dei deputati operai e soldati di Pietrogrado, il Comitato militare rivoluzionario, che è alla testa del proletariato e della guarnigione di Pietrogrado. La causa per la quale il popolo ha lottato, l’immediata proposta di una pace democratica, l’abolizione della grande proprietà fondiaria, il controllo operaio della produzione, la creazione di un governo sovietico, questa causa è assicurata. Viva la rivoluzione degli operai, dei soldati e dei contadini!». Ormai abbastanza convinto dell’utilità del Cmr, Lenin non firmò il proclama a nome dei bolscevichi, ma a nome di quest’organismo “apartitico”. Il proclama fu in tutta fretta stampato negli spessi caratteri tipici del cirillico. Non appena le copie furono pronte vennero affisse a mo’ di manifesti su un’infinità di muri. Gli operatori dei telegrafi ne inviavano le parole attraverso i cavi. In realtà, non era la verità ma un’aspirazione. ✯ Nel Palazzo d’Inverno, Kerensky usò i suoi ultimi canali di comunicazione per far riunire le truppe che stavano marciando verso la capitale. Raggiungerle ora, tuttavia, non era proprio facile. Avrebbe potuto fuggire, ma il Cmr controllava le stazioni. Gli serviva aiuto. Lo Stato maggiore fece una lunga e sempre più frenetica ricerca, e alla fine trovò una vettura adatta. Implorando riuscì ad assicurarsi l’uso di un’altra automobile dell’ambasciata americana, un veicolo con un’utilissima targa diplomatica. Verso le undici del mattino del giorno 25, proprio mentre il proclama anticipatore di Lenin iniziava a circolare, i due veicoli sfrecciarono davanti ai posti di blocco del Cmr, più animati di entusiasmo che di efficienza. Un Kerensky distrutto fuggiva dalla città col suo piccolo seguito, alla ricerca di soldati fedeli. ✯ Nonostante la sollevazione, a molti cittadini sembrava di vivere quasi un giorno normale a Pietrogrado. Certo, era impossibile ignorare una certa confusione e agitazione, ma relativamente poche erano le persone coinvolte nei veri e propri scontri, e solo in zone strategiche. Mentre questi combattenti erano impegnati nelle loro attività insurrezionali o controrivoluzionarie per rimodellare il mondo, la maggior parte dei tram effettuava le proprie corse, la maggior parte dei negozi era aperta. A mezzogiorno alcuni soldati rivoluzionari in armi e marinai arrivarono a Palazzo Mariinsky. I membri del preparlamento discutevano ansiosamente il dramma che si stava consumando e al quale stavano per prendere parte. Un commissario del Cmr fece irruzione nella sala e ordinò al presidente del preparlamento, Avksentiev, di sgombrare il palazzo. I soldati e i marinai, armi in pugno, si fecero strada per entrare, disperdendo i deputati terrorizzati. Avksentiev, in stato confusionale, riunì in tutta fretta quanti più membri poté del comitato dirigente. Sapevano che ogni resistenza sarebbe stata vana, ma abbandonarono la sala protestando formalmente come meglio riuscirono a fare, con l’impegno che la seduta sarebbe stata riconvocata appena possibile. Quando uscirono nel freddo pungente, le nuove guardie del palazzo controllarono i loro documenti, ma non li trattennero. Non era certo il ridicolo preparlamento quel premio che, per la folle esasperazione di Lenin, continuava a sfuggire loro. Quel premio, ormai senza più Kerensky, si trovava nel Palazzo d’Inverno: dove, mentre il mondo crollava intorno, la cupa brace del governo provvisorio ancora brillava. A mezzogiorno, nella grande sala Malachite, il magnate tessile Konovalov, del partito cadetto, convocò il consiglio. «Non so perché sia stata convocata questa riunione», borbottò il ministro della Marina, l’ammiraglio Verderevsky. «Non abbiamo alcuna tangibile forza militare, per cui siamo incapaci di intraprendere qualsiasi azione». Forse, ipotizzò, avrebbero dovuto riunirsi con il preparlamento: ma, proprio mentre parlava, giunse la notizia che era stato sciolto. I ministri ricevevano rapporti e rivolgevano appelli alla sempre più ristretta cerchia dei propri interlocutori. Quelli che non erano presi dal triste realismo di Verderevsky si abbandonavano a fantasticherie. Con gli ultimi brandelli di potere che stavano per essere spazzati via, vagheggiavano di una nuova autorità. Con tutta la serietà di questo mondo, a guisa di fiammiferi spenti che raccontavano truci storie di conflagrazioni che stavano per iniziare, le ceneri del governo provvisorio russo discutevano su chi di loro avrebbe dovuto fare il dittatore. Questa volta, le forze di Kronstadt raggiunsero le acque di Pietrogrado a bordo di un’ex nave da diporto, due posamine, una nave scuola, un’antica nave da battaglia e una falange di piccole chiatte. Un’altra flottiglia pazzesca. Non lontano da dove il governo fantasticava sulla dittatura, i marinai rivoluzionari arrestarono l’ammiragliato e l’alto comando navale. Il reggimento Pavlovsky installò dei picchetti sui ponti. Il reggimento Keksgolmsky prese il controllo della parte a nord del fiume Moika. Mezzogiorno, l’ora in origine fissata per la presa del Palazzo d’Inverno, era scoccato e passato. La scadenza venne rinviata di tre ore, il che significava che l’arresto del governo era fissato per dopo le due pomeridiane, ora dell’inaugurazione del congresso dei soviet: esattamente ciò che Lenin voleva evitare. Sicché, quell’inaugurazione venne rinviata. Ma l’atrio dello Smolny era ormai gremito di delegati dei soviet di Pietrogrado e della provincia che chiedevano notizie e non potevano più essere tenuti all’oscuro. Allora, alle 14:35, Trotsky aprì una seduta straordinaria del soviet di Pietrogrado. «In nome del Comitato militare rivoluzionario – esclamò – dichiaro che il governo provvisorio non esiste più». Le sue parole scatenarono un’ondata di giubilo. Le principali istituzioni erano nelle mani del Cmr, proseguì Trotsky sovrastando il frastuono. Il Palazzo d’Inverno sarebbe caduto «a momenti». Ci fu un’altra enorme acclamazione: Lenin stava entrando nella sala. «Viva il compagno Lenin! – urlò Trotsky – Di nuovo qui con noi!». La prima apparizione in pubblico da luglio fu breve e trionfante. Non fornì dettagli, ma annunciò «l’inizio di un nuovo periodo» ed esortò: «Viva la rivoluzione socialista mondiale!». La maggior parte dei presenti urlò dalla gioia. Ma ci fu qualche dissenso. «Stai anticipando la volontà del secondo congresso dei soviet!», gridò qualcuno. «La volontà del secondo congresso dei soviet è già stata predeterminata dal fatto compiuto dell’insurrezione degli operai e dei soldati», rispose urlando Trotsky. «Ora dobbiamo solo sviluppare questo trionfo». Ma tra i proclami di Volodarsky, Zinoviev e Lunacharsky, un piccolo numero di moderati, perlopiù menscevichi, abbandonò gli organi esecutivi del soviet, avvertendo delle terribili conseguenze che sarebbero scaturite da questa cospirazione. Dopo quasi otto ore di stallo, i delegati dei soviet non accettarono ulteriori rinvii. Un’ora dopo il primo colpo, nella grande sala colonnata delle assemblee dello Smolny si aprì il secondo congresso dei soviet. La sala era avvolta nel fumo delle sigarette, nonostante i ripetuti avvisi – spesso allegramente lanciati dagli stessi fumatori – che era vietato fumare. I delegati, come ricorda Sukhanov con un brivido, perlopiù mostravano «i grigi lineamenti delle province bolsceviche». Sembravano, al suo sguardo raffinato, «cupi» e «primitivi» e «tetri», «crudeli e ignoranti». Dei 670 delegati, 300 erano bolscevichi, 193 socialisti rivoluzionari, di cui più della metà della sinistra del partito; 68 erano i menscevichi e 14 i menscevichi internazionalisti. La restante parte era composta da indipendenti, o membri di piccoli gruppi. Il peso della presenza dei bolscevichi rendeva chiaro che il sostegno al partito andava crescendo tra coloro che eleggevano i propri rappresentanti: ed era anche aumentato per effetto di alcuni permissivi meccanismi organizzativi, grazie ai quali era stato loro attribuito un peso maggiore rispetto al risultato proporzionale. Anche così, senza la sinistra dei socialrivoluzionari, essi non avevano la maggioranza. Ad ogni modo, non fu un bolscevico a suonare la campana dell’apertura dei lavori, ma un menscevico. I bolscevichi giocarono sulla vanità di Dan offrendogli questo ruolo. Ma lui frustrò subito ogni speranza di trasversale cameratismo o amabilità. «Il Comitato esecutivo centrale ritiene superflui i nostri abituali discorsi politici di apertura», annunciò. «Perfino ora, i nostri compagni che disinteressatamente stanno assolvendo i compiti che abbiamo loro affidato sono sotto il tiro dei proiettili nel Palazzo d’Inverno». Dan e gli altri moderati che avevano guidato sin da marzo il soviet abbandonarono i loro seggi per essere sostituiti dal nuovo presidium, distribuito proporzionalmente. Accompagnati da urla di approvazione, quattordici bolscevichi – tra cui Kollontai, Lunacharsky, Trotsky, Zinoviev – e sette socialrivoluzionari di sinistra, compresa la grande Maria Spiridonova, salirono sul palco. I menscevichi, indignati, rifiutarono i loro tre seggi. Un posto era stato tenuto per i menscevichi internazionalisti: in una mossa al contempo dignitosa e patetica, il gruppo di Martov rifiutò di accettarlo, riservandosi il diritto di farlo in seguito. Mentre la nuova direzione prendeva posto e si preparava per dare il via ai lavori, la sala fu illuminata dal bagliore di un altro colpo di cannone. Tutti gelarono. Stavolta, il colpo proveniva dalla Fortezza di Pietro e Paolo. A differenza di quello dell’Aurora, non era a salve. ✯ Il bagliore oleoso delle detonazioni si rifletteva sulla Neva. Le granate schizzavano in aria disegnando archi nel cielo notturno e fischiando mentre cadevano puntando i loro bersagli. Molte di esse, per indulgenza o incapacità, bruciavano rumorosamente, spettacolari e innocue nel cielo. Altre ancora sprofondavano nell’acqua schiantandosi tra gli spruzzi. Le Guardie rosse spararono anch’esse dalle loro postazioni. I loro colpi sforacchiarono le mura del Palazzo d’Inverno. I residui del governo ancora al suo interno si rintanarono sotto i tavoli mentre i vetri andavano in frantumi intorno a loro. Allo Smolny, mentre risuonavano i sinistri echi dell’assalto, Martov, con voce tremante e roca, insisteva perché si trovasse una soluzione pacifica, e fece appello per un cessate il fuoco e per l’inizio di negoziati che portassero a un governo trasversale di tutti i partiti socialisti uniti. Scoppiò un fragoroso applauso dalla sala. Dallo stesso presidium, Mstislavsky, socialrivoluzionario di sinistra, appoggiò con tutto il fiato che aveva la proposta di Martov. Fecero lo stesso a gran voce molti dei presenti, tra cui la maggior parte della base dei bolscevichi. Per la direzione del partito si levò in piedi Lunacharsky, che, clamorosamente, annunciò che «la frazione bolscevica non aveva assolutamente nulla in contrario rispetto alla proposta di Martov». I delegati votarono la mozione di Martov, che ottenne un sostegno unanime. ✯ Bessy Beatty, corrispondente del San Francisco Bulletin, era nella sala. Comprese la posta in gioco che c’era in ciò cui stava assistendo. «Fu un momento critico nella storia della Rivoluzione russa», scrisse. Sembrava che stesse per nascere una coalizione socialista democratica. Ma, mentre quel momento si prolungava, risuonò ancora il rumore delle armi sulla Neva, i cui echi scossero la sala facendo riapparire le divergenze tra i partiti. «Si sta consumando un’avventura politica criminale alle spalle del congresso panrusso», dichiarò Karash, un ufficiale menscevico. «I menscevichi e i socialisti rivoluzionari ripudiano tutto ciò che sta accadendo qui e si oppongono tenacemente a tutti i tentativi di impadronirsi del governo». «Non rappresenta la dodicesima armata!», urlò un soldato infuriato. «L’esercito chiede che tutto il potere vada ai soviet!». Una raffica di interruzioni. Venne il turno dei socialrivoluzionari di destra e dei menscevichi di urlare accuse ai bolscevichi, avvertendo che avrebbero abbandonato i lavori, mentre la sinistra li zittiva gridando. L’atmosfera si fece ancor più tesa. Khinchuk, del soviet di Mosca, prese la parola. «L’unica possibile soluzione pacifica alla crisi attuale sta nel negoziato col governo provvisorio», ribadì. Una bolgia. L’intervento di Khinchuk rappresentò o una catastrofica sottovalutazione dell’odio verso Kerensky, oppure una deliberata provocazione, e scatenò la rabbia di molti altri, oltre che degli increduli bolscevichi. Alla fine, nel frastuono generale, Khinchuk urlò: «Abbandoniamo questo congresso!». Ma tra gli scalpitii di protesta, le urla di disapprovazione e i fischi che accolsero quest’appello, i menscevichi e i socialisti rivoluzionari esitarono. Dopotutto, la minaccia di andarsene era pur sempre l’ultima carta da giocare. Dall’altro lato di Pietrogrado, la Duma discuteva l’apocalittica telefonata di Maslov. «Facciamo sapere ai nostri compagni che non li abbiamo abbandonati, che sappiano che moriremo insieme a loro», dichiarò il socialrivoluzionario Naum Bykhovsky. I liberali e i conservatori si alzarono per votare a favore, per unirsi a coloro che si trovavano asserragliati nel Palazzo d’Inverno e sotto tiro, pronti persino a morire per la salvezza del regime. La contessa Sofia Panina, del partito cadetto, dichiarò che voleva stare «in piedi di fronte al cannone». Manifestando disprezzo, i bolscevichi votarono contro, affermando che sarebbero andati anche loro, ma non al Palazzo d’Inverno, bensì al Soviet. Dopo il voto, i due contrapposti cortei si misero in marcia nell’oscurità. Allo Smolny, Erlich, membro del Bund ebraico, interruppe i lavori per dare la notizia delle decisioni dei deputati della Duma. Era giunta l’ora – disse – per quelli che «non volevano un bagno di sangue», di unirsi alla marcia verso il Palazzo, in segno di solidarietà verso il governo. Ancora una volta, risuonarono le imprecazioni della sinistra, mentre menscevichi, il Bund, i socialisti rivoluzionari e pochi altri si alzarono e alla fine uscirono dalla sala. Rimasero i bolscevichi, i socialrivoluzionari di sinistra e gli sconvolti menscevichi internazionalisti. Camminando a fatica sotto la fredda pioggia notturna, i moderati autoesiliati dallo Smolny raggiunsero la Prospettiva Nevsky e la Duma. Lì si unirono ai loro deputati, ai menscevichi e socialisti rivoluzionari membri del Comitato esecutivo del soviet dei contadini, e insieme si mossero per manifestare la loro solidarietà al governo. Camminarono in fila per quattro dietro il sindaco Shreider e il ministro degli Approvvigionamenti Sergei Prokopovic. Portando pane e salsicce per rifocillare i ministri, trecento persone in gruppo, intonando la Marsigliese, marciavano per andare a morire per il governo provvisorio. Non riuscirono a percorrere un solo isolato che, all’angolo del canale, i rivoluzionari sbarrarono loro la strada. «Vi chiediamo di lasciarci passare!», urlarono Shreider e Prokopovich. «Stiamo andando al Palazzo d’Inverno!». Perplesso, un marinaio si rifiutò di farli proseguire. «Sparateci pure, se volete!» dissero i manifestanti in tono di sfida. «Siamo pronti a morire, se avete il coraggio di sparare a dei russi, a dei compagni … Offriamo il nostro petto ai vostri fucili!». La singolare impasse continuava. La sinistra non voleva sparare, la destra rivendicava il proprio diritto di passare o di essere fermata con le pallottole. «Che farete?», urlò qualcuno al marinaio che si rifiutava ostinatamente di ucciderlo. Il racconto di John Reed, che vide coi propri occhi cosa successe in seguito, è famoso. «Venne fuori un altro marinaio, estremamente irritato. “Vi prenderemo a calci nel sedere!”, esclamò in tono energico. “E se sarà necessario vi spareremo pure. Andatevene a casa ora, e lasciateci in pace”». Non sarebbe stato un destino onorevole per dei campioni di democrazia. In piedi su una cassa, brandendo l’ombrello, Prokopovich annunciò ai suoi seguaci che avrebbero salvato quei marinai da se stessi. «Non possiamo sporcare del nostro sangue innocente le mani di questa gente ignorante! … Non è dignitoso per noi farci sparare addosso» – figuriamoci essere presi a calci – «qui, in mezzo alla strada da dei manovratori. Torniamo alla Duma, e discutiamo sul modo migliore per salvare il Paese e la rivoluzione!». Dopodiché, gli autoproclamatisi morituri per la democrazia liberale girarono i tacchi e presero la strada di un rapido e imbarazzato ritorno, portando con sé le loro salsicce. Martov era rimasto alla riunione generale nella sala delle assemblee. Cercava ancora disperatamente un compromesso. A quel punto propose una mozione di critica ai bolscevichi per avere anticipato la volontà del congresso, suggerendo – ancora una volta – che iniziassero i negoziati per un governo socialista ampio e inclusivo. Era simile alla mozione proposta due ore prima, cui i bolscevichi non si erano opposti, a dispetto della volontà di Lenin di rompere coi moderati. Ma due ore sono un tempo lungo. Mentre Martov si sedeva, ci fu un certo subbuglio, e la rappresentanza bolscevica alla Duma fece il suo ingresso in sala piacevolmente sorprendendo gli altri delegati. Erano venuti, come dichiararono, «per vincere o morire con il congresso panrusso». Quando gli applausi cessarono, Trotsky in persona si levò per rispondere a Martov. «Una sollevazione delle masse popolari non richiede alcuna giustificazione», dichiarò. «Ciò che è accaduto è un’insurrezione, e non già una cospirazione. Noi abbiamo temprato l’energia rivoluzionaria dei lavoratori e dei soldati di Pietroburgo. Abbiamo forgiato alla luce del sole la volontà delle masse per un’insurrezione, non per una cospirazione. Le masse popolari hanno seguito le nostre bandiere e la nostra insurrezione ha vinto. E ora ci viene detto: rinunciate alla vostra vittoria, fate concessioni, compromessi. Con chi? Chiedo: con chi dovremmo fare un compromesso? Con quei gruppi di miserabili che ci hanno lasciato o che stanno avanzando questa proposta? Ma dopotutto sappiamo benissimo chi sono. In Russia non c’è più nessuno che stia dalla loro parte. E si dovrebbe fare questo compromesso, come fossero due parti sullo stesso piano, tra i milioni di lavoratori e contadini rappresentati in questo congresso e chi invece è pronto – e non sarebbe né la prima volta, né l’ultima – a mercanteggiare sol perché la borghesia lo ritiene giusto. No, nessun compromesso è possibile. A coloro che se ne sono andati e a chi ci chiede di fare questo noi rispondiamo: siete dei miserabili falliti, siete fuori dai giochi. Andate dove dovete andare: nell’immondezzaio della storia!». La sala esplose. Tra i fragorosi e prolungati applausi, Martov si alzò in piedi. «E allora ce ne andiamo!», esclamò. Quando fece per voltarsi, un delegato gli sbarrò la strada. Lo fissò con un’espressione a metà tra il dispiaciuto e l’accusatorio. «E noi che pensavamo che almeno Martov sarebbe rimasto con noi», disse. «Un giorno comprenderete», rispose Martov con la voce rotta, «il crimine al quale state partecipando». E uscì. Rapidamente, il congresso approvò una sprezzante risoluzione di denuncia di coloro che si erano ritirati dai lavori, compreso Martov. Queste frecciate risultavano sgradite e inutili ai restanti socialrivoluzionari di sinistra e menscevichi internazionalisti; e così pure a molti bolscevichi. Boris Kamkov fu caldamente applaudito quando annunciò che il suo gruppo, i socialisti rivoluzionari di sinistra, sarebbe rimasto. Cercò di riprendere la proposta di Martov, criticando con garbo la maggioranza bolscevica. Essi non rappresentavano i contadini, o la maggioranza dell’esercito, ricordò all’uditorio. Perciò un compromesso era ancora necessario. Stavolta non fu Trotsky a rispondere, ma il popolare Lunacharsky, che aveva in precedenza concordato con la proposta di Martov. I nuovi compiti erano certamente gravosi, convenne, ma «le critiche che ci muove Kamkov sono infondate». «Se, inaugurando questa sessione, avessimo cominciato a porre in essere qualsiasi atto per rifiutare o eliminare altri esponenti, Kamkov avrebbe ragione», continuò Lunacharsky. «Ma tutti noi abbiamo unanimemente accettato la proposta di Martov di discutere la maniera pacifica di risolvere la crisi. E siamo stati subissati da una valanga di dichiarazioni. È stato condotto un sistematico attacco contro di noi … Senza ascoltarci, senza nemmeno preoccuparsi di discutere la loro stessa proposta, essi [i menscevichi e i socialisti rivoluzionari] hanno voluto separarsi da noi». Si sarebbe potuto rispondere a Lunacharsky che Lenin aveva, per settimane, insistito affinché il suo partito prendesse il potere da solo. Eppure, nonostante tutto quello scetticismo, Lunacharsky aveva ragione. Sia stato per una sincera solidarietà, brutalmente, per confusione, o per qualsiasi altro motivo, tutti i bolscevichi, così come chiunque di ogni altro partito, avevano appoggiato la cooperazione – un governo di unità socialista – quando Martov per la prima volta l’aveva proposta. Bessie Beatty ha ipotizzato che Trotsky non sia riuscito a muoversi rapidamente come avrebbe potuto in risposta a questa proposta, forse a causa di «qualche amaro ricordo di insulti subiti ad opera di questi altri dirigenti». Ma ciò è opinabile, e, se pure fosse vero, i menscevichi i socialrivoluzionari di destra e altri avevano scelto di rinfacciare il voto ai bolscevichi. Erano da ciò direttamente passati all’opposizione, stigmatizzando quelli alla loro sinistra. La domanda di Lunacharsky era ragionevole: come si può collaborare con chi ha respinto la collaborazione? Come per sottolineare il punto, proprio in quel preciso momento i moderati che erano usciti dalla sala etichettavano la riunione come «un incontro privato dei delegati bolscevichi», annunciando che il Comitato centrale esecutivo «riteneva che il secondo congresso non avesse neppure avuto luogo». Nella sala, la discussione sulla conciliazione si trascinò nel momento peggiore. Ma a quel punto l’opinione prevalente era dalla parte di Lunacharsky, e di Trotsky. Al Palazzo d’Inverno si giocava l’ultima partita. Il vento entrava attraverso i vetri rotti. Le grandi sale erano gelide. Soldati sconsolati, privi di ogni scopo, vagavano vicino alle aquile bicipiti della sala del trono. Gli invasori avevano raggiunto la stanza personale dell’imperatore, vuota, e si attardarono a infierire a colpi di baionetta sul dipinto che lo ritraeva mentre egli, calmo, li guardava dalla parete. Sfregiarono il quadro come bestie coi loro artigli, lasciando lunghi squarci che segnarono la figura dell’ex zar dalla testa ai piedi. Delle sagome di uomini apparivano e scomparivano, ciascuno incerto dell’identità dell’altro. Un certo tenente Sinegub era rimasto, incaricato di difendere il governo. In quelle ore confuse aveva sorvegliato i corridoi assediati aspettandosi un attacco, alla deriva in una specie di panico calmo, di estrema e narcotizzante stanchezza, assistendo a scene come scampoli di una qualche storia confusa: un anziano gentiluomo in uniforme da ammiraglio seduto immobile su una poltrona; un centralino spento e abbandonato; dei soldati accovacciati sotto gli sguardi attenti di ritratti in una galleria. Le scaramucce tra gli uomini avvenivano sulle scale. Ogni scricchiolio sulle assi del pavimento poteva essere la rivoluzione. Giunse uno junker diretto da qualche parte, per una qualche missione. Con una calma innaturale, avvisò che la persona vicino alla quale Sinegub era appena passato – sì, era proprio passato vicino a qualcuno – era probabilmente uno dei nemici. «Bene, eccellente», disse Sinegub. «Guardate! Me ne assicurerò subito». Si voltò e lo immobilizzò – effettivamente l’altro uomo era uno degli insorti – tirandogli giù il pastrano come un bambino in una rissa da cortile, così che non potesse più muovere le braccia. Intorno alle due del mattino, le forze del Cmr fecero irruzione in massa nel Palazzo. Fuori di sé, Konovalov telefonò a Shreider. «Non ci resta che una piccola forza di cadetti», disse. «Ci arresteranno presto». La linea cadde. I ministri sentirono colpi inutili provenire dai corridoi. L’ultima loro difesa. Rumore di passi. Un cadetto ansimante entrò correndo per ricevere ordini. «Combattiamo fino all’ultimo uomo?», chiese. «Nessuno spargimento di sangue!», gli risposero urlando. «Dobbiamo arrenderci». Rimasero in attesa. Uno strano disagio. Come era meglio farsi trovare? Certamente, non mentre si aggiravano imbarazzati, con i soprabiti posati sul braccio come uomini d’affari in attesa del treno. Kishkin il dittatore prese il controllo. Diede gli ultimi due ordini del suo regno. «Lasciate i vostri soprabiti», disse. «Sediamoci intorno al tavolo». Obbedirono. E così stavano, come l’immagine congelata di una seduta di governo, allorquando Antonov fece irruzione in modo spettacolare, col suo eccentrico cappello da artista calcato all’indietro sui capelli rossi. Dietro di lui, soldati, marinai e Guardie rosse. «Il governo provvisorio è qui», disse con una straordinaria dignità Konovalev, come se stesse rispondendo a una bussata alla porta piuttosto che a un’insurrezione. «Cosa desiderate?». «Informo voi tutti, membri del governo provvisorio», disse Antonov, «che siete tratti in arresto». Prima della rivoluzione – era passata una vita politica – uno dei ministri presenti, Maliantovich, aveva dato rifugio nella sua casa ad Antonov. I due si scambiarono uno sguardo, ma non dissero nulla. Le Guardie rosse divennero furibonde quando scoprirono che Kerensky era da tempo andato via. Inferocito, uno gridò: «Facciamo fuori tutti questi figli di puttana a colpi di baionetta!». «Non tollererò alcuna violenza contro di loro», replicò con molta calma Antonov. Subito dopo condusse via i ministri, lasciandosi dietro sommarie bozze di proclami, cancellate, incroci senza senso come farneticazioni di dittatura in fantasiosi progetti. Cominciò a squillare un telefono. Sinegub guardava dal corridoio. Quando tutto fu finito, sparito il suo governo, il suo dovere compiuto, si voltò in silenzio e andò via, uscendo sotto la luce dei riflettori. Dei ladri rovistarono nel dedalo di stanze. Ignorarono le opere d’arte e presero vestiti e ninnoli, calpestando fogli sparsi sul pavimento. Quando uscirono, furono perquisiti dai soldati rivoluzionari che confiscarono i loro souvenir. «Questo palazzo appartiene al popolo», li rimproverò un tenente bolscevico. «Questo è il nostro palazzo. Non derubate il popolo». L’elsa di una spada spezzata, una candela di cera. I ladruncoli abbandonarono il loro bottino. Una coperta, un cuscino di un divano. Antonov fece uscire gli ex ministri. Li accolse una folla violenta, eccitata e infuriata. Per proteggerli, egli stette in piedi davanti a loro. «Non li toccate», disse orgogliosamente insieme ad altri esperti bolscevichi. «È da barbari». Ma il ruggito rabbioso della folla non si sarebbe placato così facilmente se non ci fosse stato un colpo di fortuna. Dopo alcuni attimi di tensione, il crepitio di mitragliatrici vicine indusse la gente a disperdersi in preda al panico, sicché Antonov colse al volo l’opportunità per attraversare di corsa il ponte, spingendo e trascinando i prigionieri verso le carceri della fortezza di Pietro e Paolo. Prima che la porta della sua cella si chiudesse, il ministro degli Interni, il menscevico Nikitin, estrasse dalla tasca un telegramma inviatogli dalla Rada ucraina. «Ieri ho ricevuto questo», disse consegnandolo ad Antonov. «Ora è affar vostro». Allo Smolny, fu quell’ostinato pessimista di Kamenev a dare la notizia ai delegati: «I dirigenti controrivoluzionari insediati nel Palazzo d’Inverno sono stati catturati dalla guarnigione rivoluzionaria». Scatenò un caos festante. Erano passate le tre del mattino, ma c’era ancora lavoro da svolgere. Per altre due ore il congresso ascoltò i resoconti che arrivavano: di unità che passavano dalla loro parte, di generali che riconoscevano l’autorità del Cmr. C’era ancora qualche dissenziente. A qualcuno che aveva chiesto il rilascio dalla prigione dei ministri socialrivoluzionari Trotsky rispose rimproverandolo di non essere un vero compagno. Intorno alle quattro, l’uscita del gruppo di Martov registrò un indecoroso epilogo, con una delegazione rientrata a testa bassa per cercare di ripresentare la mozione per un governo socialista di collaborazione. Kamenev ricordò all’assemblea che Martov aveva caldeggiato un compromesso con chi aveva poi voltato le spalle alla sua proposta. Eppure, moderato come sempre, pose all’ordine del giorno la mozione presentata da Trotsky di condanna dei socialrivoluzionari e dei menscevichi infilandola con discrezione in un limbo procedurale per potersi risparmiare imbarazzi nel caso fossero riprese le trattative. Lenin non avrebbe fatto ritorno alla riunione quella notte. Stava preparando dei piani. Ma aveva scritto un documento che fu Lunacharsky a presentare. Indirizzandolo «Agli operai, ai soldati e ai contadini», Lenin proclamava il potere dei soviet e si impegnava a proporre immediatamente una pace democratica. La terra sarebbe stata trasferita ai contadini. Alle città sarebbe stato assicurato il pane, alle nazioni dell’impero sarebbe stato garantito il diritto all’autodeterminazione. Ma Lenin avvertiva pure che la rivoluzione era ancora in pericolo, minacciata dall’esterno e dall’interno. «I kornilovisti […] tentano di condurre le truppe contro Pietrogrado. […] Soldati, opponete un’attiva resistenza al kornilovista Kerensky! […] Ferrovieri, fermate tutti i convogli di truppe che Kerensky dirige contro Pietrogrado! Soldati, operai, impiegati! Le sorti della rivoluzione e della pace democratica sono nelle vostre mani!». Occorse molto tempo a Lunacharsky per leggere l’intero documento ad alta voce, dato che veniva spesso interrotto da forti grida di approvazione. Una lieve modifica verbale assicurò il consenso della sinistra socialrivoluzionaria. Una minuscola frazione dei menscevichi si astenne, preparando la strada per una riconciliazione tra martoviani di sinistra e bolscevichi. Poco male. Alle cinque del mattino del 26 ottobre, una schiacciante maggioranza approvò il manifesto di Lenin. Ci fu un boato. Quando se ne spense l’eco, la portata di quella risoluzione letta urlando divenne lentamente chiara a tutti. Uomini e donne si guardavano intorno gli uni con gli altri. Era stata approvata. Era fatta. Fu proclamato il governo rivoluzionario. Il governo rivoluzionario era stato proclamato, ed era già abbastanza per quella notte. Sarebbe stato già molto per una prima seduta. Certamente. Esausti, ubriachi di storia, con i nervi ancora tesi come cavi elettrici, i delegati al secondo Congresso dei soviet uscirono vacillando dallo Smolny. Abbandonarono quel collegio femminile per entrare in un nuovo momento della storia, un primo giorno del tutto nuovo, quello del governo degli operai, in un mattino di una città nuova, la capitale dello Stato dei lavoratori. Marciarono nell’aria invernale, sotto un cielo nebbioso ma che si stava rischiarando. [Traduzione di Valerio Torre] China Miéville è l’autore di October: The Story of the Russian Revolution, così come di This Census-Taker, Three Moments of an Explosion, Railsea, Embassytown, Kraken, The City & The City, e Perdido Street Station. Le sue opere hanno vinto il World Fantasy Award, l‘Hugo Award, e l’Arthur C. Clarke Award (tre volte). Vive e lavora a Londra. IL CAPPELLO NOIR
7/11/2017
di Marcello Benfante
La notte in cui tutti i delitti sono noir Potremmo definirla la “logica della pizza”. La pizza, come tutti sanno, è un impasto di farina e acqua spianato e allargato, generalmente in forma circolare, sul quale possono disporsi i più diversi condimenti. Ai tradizionali ingredienti della gastronomia popolare napoletana (pomodoro, mozzarella, basilico) si sono così aggiunte, nel corso del tempo e in una dimensione pressoché planetaria, molteplici e perfino bizzarre integrazioni e variazioni, a seconda dei gusti e delle abitudini alimentari. Ovunque, però, nonostante le più eterodosse digressioni, la pizza resta pizza ed è nota come pizza. Perché tutto può essere pizza, essendo la base, il supporto, insieme al modo in cui è consumata, a fare della pizza ciò che definiamo pizza. Mutatis mutandis, in letteratura il ruolo della pizza è stato assunto, ormai da alcuni decenni, dal romanzo giallo (nelle varianti di poliziesco, mystery, noir, thriller etc.) in modo analogo, per non dire identico. Si prenda una base (un impasto di morte con un po’ di mistero), la si spiani fino a ridurla a uno strato più o meno sottile, vi si aggiunga qualsivoglia elemento (solitamente gastronomia, eros, folclore, paesaggismo turistico, psicologia anche grossolana, un pizzico di cultura citazionista a speziare la pagina…), s’inforni il tutto ed ecco pronta la pizza, cioè il “giallo”. Oggi tutto è giallo (magari altrimenti detto, ma ugualmente ammannito). Più esattamente, tutto è spacciato per giallo, poiché il mercato culturale non sembra voler accogliere (tranne rare eccezioni) altra tipologia letteraria. Accade così, imperando questa noiosissima moda monocromatica, che le opere più eteroclite vengano a forza ricondotte e costrette da una mistificante strategia editoriale nella definizione settoriale del giallo, in cui ovviamente non possono trovare un’adeguata collocazione. E passi pure per quella saggistica storica che, con qualche forzatura non del tutto incongrua, individua i precursori del genere nell’Edipo di Sofocle o nell’Amleto di Shakespeare o nello Zadig di Voltaire. Va da sé che nessun lettore di buon senso si sognerebbe mai di considerare queste opere dei protogialli in senso stretto. Ma è pur vero che il racconto poliziesco non nasce già provvisto di tutto il suo armamentario come Atena dalla mente di Zeus (ovvero come Dupin dalla mente di Poe). Ed è vero soprattutto che in epoche (ormai archiviate) in cui vigeva il discredito assoluto per la cosiddetta letteratura di massa o paraletteratura, era necessario e opportuno ricordare a una sprezzante intellighenzia (invero piuttosto ottusa) che il giallo (come la fantascienza) si nutriva di una ricca e nobile tradizione culturale, rielaborandola in modo creativo e originale. D’altronde, la ricerca delle origini di qualsiasi prodotto culturale corre sempre il rischio di sprofondare fino ai primordi della civiltà (praticamente non c’è invenzione dell’ingegno di cui non si trovino embrioni nella mitologia greca o nella Bibbia). Bisogna allora che in questa regressione si ponga un punto di arresto e di inizio, ovvero l’individuazione di un fattore di relativa novità che giustifichi la nascita di qualcosa di diverso, che prima non si dava, non si coglieva, almeno non in una forma definita e paradigmatica. Fatta salva questa premessa, possiamo avventurarci (e divertirci) a trovare tracce e impronte di romanzo poliziesco nelle Mille e una notte o nelle favole di Esopo: investigazione peraltro molto utile e istruttiva. Altra cosa è però spacciare per gialli, con un fraintendimento totale, romanzi che col giallo hanno pochissimo in comune e si collocano evidentemente su un versante del tutto dissimile. L’esempio classico è Delitto e castigo di Dostoevskij. Basta il delitto, il sangue versato, la colpa di Caino, a fare di una vicenda, per quanto orrenda e tenebrosa, un caso poliziesco? Non occorre nemmeno rispondere a questa domanda retorica. Eppure, una pubblicazione specialistica come il benemerito “Giallo Mondadori” ha nello scorso luglio proposto ai propri lettori (tra cui il sottoscritto) Il cappello del prete di Emilio De Marchi, insieme a I trentanove scalini di John Buchan e I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe, in un volume intitolato “Agli albori del giallo”. Una bellissima trilogia, beninteso. Tuttavia, in questa spericolata operazione ci troviamo di fronte a due fondamentali equivoci: uno di ordine qualitativo e l’altro di ordine cronologico. Cominciamo da quest’ultimo. Un esperimento letterario Il cappello del prete apparve a puntate sul quotidiano milanese “L’Italia” nel 1887, cioè ben quarantasei anni dopo I delitti della rue Morgue di Poe, considerati il prototipo della detective story. Tutt’altro che agli “albori del giallo”, quindi. Ma potremmo dire che è ancora abbastanza presto nella storia del genere. Il 1887 è l’anno dell’apparizione di Sherlock Holmes in Uno studio in rosso. Siamo, insomma, nell’epoca d’oro del giallo deduttivo, del mystery classico. Ma Il cappello del prete non ha nulla in comune con i gialli deduttivi (o abduttivi) di Arthur Conan Doyle (a cominciare dal fatto che nel romanzo di Emilio De Marchi non si deduce granché). Semmai (e la questione è stata più volte dibattuta) può avere come riferimento l’opera di Dostoevskij (per certi versi Delitto e castigo, per altri I fratelli Karamazov). Il problema che a lungo si pose la critica riguardava due possibili opzioni: romanzo psicologico o etico. Dilemma piuttosto sofistico, che tuttavia escludeva derive popolari. E siamo in tal modo pervenuti all’obiezione qualitativa. Non si tratta di una differenza tra alta e bassa letteratura (in questi termini io porrei Poe su un gradino più alto, pur apprezzando l’ottimo scrittore milanese). Bensì di un problema di struttura narrativa: Il cappello del prete non è un giallo, innanzitutto perché si pone fini diversi da quelli generalmente perseguiti dalla letteratura poliziesca. Il problema dei fini che lo scrittore pone a se stesso, alla sua opera e ai suoi lettori, è sempre fondamentale. Ma lo è in modo particolare nel caso di questo romanzo che Emilio De Marchi, nella avvertenza premessa alla prima edizione in volume (Treves, 1888), definisce “d’esperimento”. In che senso l’autore considera sperimentale questo suo lavoro che non presenta particolari oltranze formali o tematiche? In primo luogo nella scelta della modalità frammentaria, a puntate, tipica del romanzo d’appendice che rappresenta una specie di test riguardante l’intera nazione (il romanzo apparve in seconda battuta anche sul “Corriere di Napoli”). De Marchi ha come punto di riferimento il largo seguito del feuilleton, in Francia o in Gran Bretagna, tra le classi popolari. Pensa a Sue, piuttosto che a Poe, e alla possibilità che anche in Italia, magari allargando pure in questo modo la cerchia dei lettori, si riesca a soddisfare i “semplici desideri del gran pubblico”. Per un verso, dunque, si tratta di un esperimento pedagogico, di un tentativo di alfabetizzazione letteraria. Ma c’è anche una rivendicazione anti-accademica, per così dire, e una moderna attenzione alle capacità di ricezione e di comprensione di un pubblico vasto e ingenuo, non tenuto dagli scrittori d’alto profilo in nessuna considerazione, ma che invece è un “signor pubblico” che a un’analisi più spregiudicata appare “meno volgo di quel che l’interesse e l’ignoranza nostra s’ingegnano di fare”. È un pubblico illetterato, talora perfino rozzo, quello a cui specialmente si rivolge De Marchi con Il cappello del prete, ma che ha fame di buona letteratura. Un pubblico vergine da cui si diparte un’energia positiva, a patto che l’autore sappia sintonizzarsi con esso in un rapporto di “comunicazione di spirito”. Sappia, cioè, acconsentire all’attrazione potente che “emana dalla moltitudine”. L’esperimento tentato da De Marchi è dunque un’operazione di rinnovamento complessivo del rapporto tra letterati e lettori, basata su un avvicinamento reciproco che mira a “rinvigorire” la cultura italiana sottraendola alla “tisica costituzione dell’arte nostra”. E in ciò è anche un ribaltamento rivoluzionario del punto di vista: non più la tautologica ed esclusiva circolarità dell’arte per l’arte, intesa come “cosa divina”, ma anche un più laico e disinibito rapporto con il pubblico, in base al principio che “non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori”. E ammettiamo pure che oggi, forse, sarebbe opportuno ribaltare questo ribaltamento, espropriando gli espropriatori e ribadendo che non sarebbe male se di tanto in tanto si scrivesse dimenticando i falsi imperativi del mercato. Resta comunque la modernità della proposta e dell’intuizione di De Marchi col suo Cappello del prete, e il rammarico che non sia stata seguita da molti altri scrittori di talento, timorosi di corrompere la propria arte con il gusto facile della massa non avvezza a raffinatezze poetiche. Laddove invece un meno occasionale bagno di folla (folla peraltro assai relativa in un’Italia di sterminato analfabetismo), cioè di concretezza e vita reale, avrebbe senz’altro giovato alla salute della nostra letteratura e del Paese tutto, entrambi attardati alla fine dell’Ottocento in un difficile processo di sviluppo. De Marchi, dunque, è alla ricerca non tanto di un consenso, quanto invece di una profonda consentaneità con il sentimento popolare. Da qui la scelta della collocazione giornalistica e del taglio sensazionale, ovvero emotivo e viscerale, del romanzo d’appendice. E da qui anche l’opzione per l’ambientazione napoletana, che ovviamente lo esponeva al rischio di un possibile manierismo etnografico. Milano avrebbe offerto un contesto più europeo e metropolitano in cui una storia poliziesca (che in realtà poco interessa a De Marchi) poteva sperare di essere più credibile. Ma per entrare in sintonia con la forza naturale e i semplici desideri della moltitudine sognante gli occorreva la “fantasia rapida e violenta propria dei meridionali”. La passione è infatti l’elemento centrale della trama. Passione per il gioco e l’azzardo, nelle varianti plebee (il lotto) e signorili (le carte, l’alea, la scommessa, la sfida col destino). Passione per il denaro, da tesaurizzare con feticistica perseveranza, o da sperperare con gaudente dissipazione. Il prete e il barone Agli opposti poli di questa divorante passione, De Marchi pone due figure simmetriche e complementari: da un lato il nobile Carlo Coriolano di Santafusca, u barone, esempio perfetto di un parassitismo aristocratico travolto dalla sua inarrestabile decadenza; dall’altro padre Cirillo, u prevete, che presta denaro a usura speculando sul tempo (che è di Dio) e sulla buona fede delle anime semplici che gli attribuiscono il potere di prevedere i numeri che verranno estratti al gioco del lotto, oppio consolatorio di un popolo miserabile per il quale il lavoro, quando c’è, non si converte mai in ricchezza e la ricchezza può essere soltanto frutto del caso e del vaticinio. L’incipit pone immediatamente il racconto nell’ambito dell’apologo morale. Il barone è presentato come uno spirito nichilista che “non credeva in Dio e meno ancora credeva nel diavolo”. Un lettore non digiuno di classici sa già, dopo appena due righi, che una negazione così perentoria verrà sicuramente smentita e senza nemmeno dover ricorrere a particolari epifanie. Il barone peraltro non è del tutto un cinico o un depravato. È un uomo messo alle strette dalla sorte che si trova sul baratro del declassamento a causa di un debito di 15.000 lire che non è in condizioni di onorare. La sua situazione economica è infatti disastrosa. Santafusca ha dilapidato il suo patrimonio ed ora è letteralmente un morto di fame. Ma ha avuto giorni migliori, che inaspriscono il suo orgoglio, e perfino un po’ di gloria a fianco dei garibaldini, allorché “prese una breve e brillante parte nelle ultime scaramucce di quel tempo e fu anche ferito alla fronte”, impresa forse non memorabile di cui gli rimane “una cicatrice sopra il ciglio” (allusivo particolare risorgimentale, o per meglio dire anti-risorgimentale, che forse non è sfuggito a Tomasi di Lampedusa, giacché coincide con l’inizio della carriera politica del Tancredi gattopardiano). Padre Cirillo, se non appartiene alla specie dei Fra Cristoforo, non è nemmeno ascrivibile a quella dei Don Abbondio (a cui il romanzo dedica un inciso). Non che manchi di viltà, beninteso. Aspira anzi a lasciare Napoli, raccolta una bastevole somma di denaro, proprio per sottrarsi alla perenne minaccia di quei Bravi che sono detti guappi e camorristi, i quali una volta l’hanno persino rapito per estorcergli i numeri vincenti. Ma l’attributo caratteristico di Cirillo è piuttosto l’avidità, una spietata bramosia di capitalizzare il suo talento per gli affari mondani. Delle questioni celesti, u prevete si cura così poco che ha adibito una Summa theologica in-folio di Tommaso d’Aquino a registro contabile dei suoi crediti e caveau di “quietanze e boni di pegno, garanzie, piccole ipoteche, cambiali, pagherò”, rintanati in una nicchia scavata, con empia ironia, laddove “il dottor Angelico parla dell’habitus operativus”. La virtus per questo businessman in abito talare non è che questa acquisita facoltà di accumulare ricchezza in transazioni opache che coinvolgono perfino il Banco di Napoli, le rendite di Stato e fondiarie, le ferrovie meridionali e i tramways napoletani, in un lucroso intreccio di spregiudicate speculazioni. L’avarizia è dunque il suo vizio e al tempo stesso la sua strategica mimesis. Veste abiti consunti e polverosi, abita “nei quartieri più poveri” in una misera soffitta perennemente invasa dal “puzzo del pesce, che il popolino frigge sugli usci e nella via”. Anche l’aspetto fisico di questo Arpagone ha qualcosa del rapace e del pirata: le sue mani lunghe e magre hanno “unghie più forti degli uncini che tirano nel porto i barili e i sacchi del merluzzo”. Mettendosi nelle sue mani adunche per ottenere la somma necessaria a sanare il suo debito, il barone sa bene di trasformarsi nella preda di un inesorabile razziatore. Ma ha l’acqua alla gola, e disperatamente decide di vendere il palazzo avito, la cadente e abbandonata Villa di Santafusca, per la modesta cifra di 30.000 lire. Il prete strozzino pensa ovviamente di ricavare un profitto ben maggiore dall’affare che si accinge a chiudere approfittando della situazione di estremo bisogno in cui versa il Santafusca. Ma anche quest’ultimo comincia a fare dei progetti, e uno tra questi, “nero in mezzo ai bigi”, sembra prendere il sopravvento sugli altri. Si fa strada, insomma, nella sua mente sconvolta l’idea di appropriarsi delle 30.000 lire senza dover ricorrere alla vendita della nobile magione, ma utilizzando l’antichissima risorsa del delitto. D’altronde, il barone è in tutto e per tutto un uomo di mondo che non ne conosce altri e ancor meno li suppone. E se Dio non c’è, non è forse tutto ammissibile? Facile a dirsi, ma assai meno a convincersene. Un conto è infatti fare professione di nichilismo e un altro è teorizzare e giustificare un assassinio. Per non dire del praticarlo effettivamente, che è tutt’altra cosa ancora. Santafusca procede allora a identificare padre Cirillo con il suo oro maledetto: “Se gli togli il denaro, che cos’è questo scheletro umano vestito da prete? Egli non è un uomo, ma una somma, un sacchetto”. Reificato e disumanizzato in tal modo, il capro espiatorio è pronto per essere sgozzato sull’altare sacrificale. Santafusca elenca le sue ragioni, in parte egoistiche, in parte sociali e in qualche modo riconducibili a meccanismi naturali di selezione, secondo la lezione che il “celebre dottor Panterre” fa nel suo “Trattato delle cose”. Non dimentica i suoi avi estinti né la fedele istitutrice Maddalena, che ormai vecchia langue in una miseria assoluta, per la quale egli prova un tenero affetto: “Io salvo l’onore dei miei padri, salvo me dalla prigione, salvo Maddalena dalla fame, pago i miei debiti, rendo il pane a tanti bisognosi, fo elemosine, ristabilisco la giustizia, compio una legge di natura”. Ma se davvero tutto è lecito per “un uomo superiore ai pregiudizi”, perché affannarsi a trovare e a sommare gli effetti benefici di un così necessario omicidio? Perché ripetersi ogni giorno che non resta “altro rimedio” al suo problema che l’omicidio e il furto? Il terzo incomodo: la coscienza In realtà Santafusca, proprio mentre si accinge a varcare l’estremo limite del consentito con terribile violenza e scientifico disprezzo d’ogni obbligo compassionevole e solidale nei confronti di un suo simile, sente già il bisogno di costruirsi una morale e di richiamarsi alle ragioni migliori del suo cuore. Comincia cioè a scoprire di avere una coscienza e di non sapere come sbarazzarsene razionalmente. Sarà pure un “lusso” la coscienza, “l’eleganza dell’uomo felice”, ma è un lusso di cui Santafusca scopre infelicemente di non potere fare a meno. Sull’opposto versante, anche padre Cirillo si dibatte con speculare ipocrisia in analoghi dilemmi della coscienza. Davanti al triste spettacolo della miseria del popolo che invoca il soccorso di Dio, egli prova un autentico (ma non sincero) rimorso per le sofferenze che il suo “talento” di usuraio arreca a tante persone disperate e si ripromette di sconfiggere “la forza dell’egoismo” con una condotta più generosa. “Molte limosine egli avrebbe potuto fare colla rendita dei suoi risparmi e avrebbe poi fatto un testamento a favore dei poveri e delle orfanelle”. Ma né il barone né il prete hanno davvero intenzione di mettere in pratica questa loro machiavellismo morale, questo spregiudicato uso del male anche a fin di bene. E infatti, quando Cirillo si reca da Filippino il cappellaio per riscuotere un credito e sente dirsi da costui che ha “la moglie malata di risipola e quattro figlioli che muoiono di fame”, la sua risposta non lascia trapelare la minima pietà, la minima comprensione: “E che ci posso fare io?”. Il tempo delle elemosine e delle elargizioni testamentarie è posto in un futuro ipotetico e lontano, in “un giorno” in cui Dio vorrà “essere pagato coll’oro delle buone azioni”. Per quest’oro, Cirillo non ha talento, né sa che il redde rationem è ormai prossimo e si annuncia simbolicamente con “un bel cappello nuovo” coi nastrini di seta che Filippino ha fatto per monsignor vicario, a cui però “è tornato troppo stretto”. Cirillo se ne impossessa, cedendo alla vanità, senza sapere che d’ora in poi sarà lui a essere posseduto da questo cappello “leggiero come una foglia” che assurge imperiosamente a protagonista del romanzo. L’abile strategia narrativa di Emilio De Marchi a questo punto sottrae il cappello dalla vista (per poi renderlo straordinariamente visibile in un secondo tempo). A villa Santafusca, carcassa esanime di un glorioso passato, il barone, letteralmente affamato e ormai risoluto a uccidere, fissa la testa della sua ignara preda come se vi scorgesse già il cranio di un morto. Il cappello è scomparso dal suo campo visivo. E questa sua sparizione tra non molto, a misfatto compiuto, assumerà la pregnanza di un indizio. “Camminava dietro il prete come fosse l’ombra sua. Un fremito di paura e di ferocia vibrava ne’ forti muscoli, che la volontà più forte dominava, soffocava. L’occhio avido divorava già il prete dietro la nuca, lungo i cordoni del collo, che il prete aveva sottile e gracile”. Il barone è “accecato da una sanguigna vertigine”, ma anche il prete sembra obnubilato “dalla sua avara passione” e non si accorge dell’espressione rapita e feroce del Santafusca, la cui voce risuona come un “tamburo funebre”. È avvenuta, insomma, una sospensione dei sensi e un ottundimento della ragione. L’uno è trascinato da una “forza maligna”, l’altro è dalla sua cupidigia. E in un attimo si compie il destino di entrambi. Unico testimone, nel gran silenzio di uno scenario di morte, una lucertola che pare “affascinata” dal sortilegio del delitto. Se la natura è rimasta “quieta” e impassibile al fatto di sangue (come le capre che guardano “stupidamente” l’assassino, intente a ruminare) sorgono invece i primi dubbi nei confusi pensieri del barone. All’indifferenza del mondo esteriore corrisponde lo smarrimento e l’inquietudine di quello interiore. “Sono sensazioni!”, si dice il barone. E ripeterà tante volte a se stesso questa banale rassicurazione, che tuttavia non riesce a rasserenarlo. La coscienza si risveglia. Torna a mordere, dopo essere stata scacciata. Santafusca avverte subito l’esigenza di compensare l’atto scellerato con un po’ di bene e promette “qualche denaro” al suo vecchio e fedele servitore Salvatore, affinché “possa campare una vita meno da cane”. È un gesto di minima pietà, ma è sufficiente a suscitare nel cuore inaridito del barone “un sentimento tenero e caldo”, a sciogliere la nebbia del suo furore e a fargli sgorgare le prime lacrime di pentimento. D’altronde, il barone inquadra questa sua compassionevole disposizione in una sorta di meccanicismo etico: “Il bene è necessario alla vita quasi come l’olio alla macchina”. Non si tratta soltanto di notazioni psicologiche, magari tese a dare spessore al personaggio. De Marchi qui imprime al racconto una svolta decisiva. Quasi tutto, d’ora in poi, avverrà nel tribunale interiore del barone nelle forme di un crescente delirio. Fin qui è stato mosso dalla necessità, ossia da una specie di determinismo inesorabile in cui ad ogni causa corrisponde un preciso effetto in un contesto storico e sociale in cui le vicende particolari trovano un’oggettiva collocazione. Ora invece subentra una diversa determinazione che attiene alla sfera morale individuale: un “senso di pena”, un che di imponderabile e insopportabile. Il cambio di passo corrisponde a una fuoriuscita da ogni possibile riferimento a una narrazione poliziesca. Il delitto è avvenuto ma nessuno ne fa oggetto d’indagine. Solo il colpevole si tormenta a rievocarlo in una specie di teatro della coscienza. In tal modo De Marchi può sviluppare altri filoni narrativi, a partire dal tema faustiano. Faust, probabilmente La causalità razionale, ancorché aberrante, che ha guidato le azioni del Santafusca lascia il posto alle bizzarrie del caso e ai sortilegi del demoniaco. Ora che la sua anima è gravata dalla colpa più infame, il barone si trasforma in un giocatore infallibile e fortunatissimo che con grande facilità vince una somma assai superiore a quella per la quale ha dovuto uccidere. Il barone deve ripassare come uno scolaro insicuro il suo credo materialista-darwinista, di “inchiodarselo addosso”, per sedare il rimorso lo smarrimento che lo attanaglia. Ma per quanto ribadisca a se stesso che il “cielo non è che una soffitta dove collochiamo le idee che non usiamo più”, egli ne sente addosso il peso insostenibile che lo schiaccia e lo annienta. E sente pure la minaccia mostruosa di quel “grande egoismo sociale che si chiama la legge”. Più sprofonda nel suo io febbrile, proclamando la legge universale dell’egoismo, e più si accorge di non essere solo e di non bastare a se stesso. Nel mentre continua a vincere al gioco, a sfidare la sorte e a uscirne trionfante. Il patto blasfemo funziona a meraviglia: ogni puntata, per quanto avventata, si trasforma in un capitale. E vince pure Filippino, al lotto, con i numeri datigli da Cirillo in cambio del cappello, come se una serie di destini correlati fosse coinvolta indirettamente e diversamente dal patto col diavolo del barone. La buona sorte non porta allegria né serenità. Troppo tardi è venuta. Quando ormai non serve più. E forse è venuta proprio perché ormai non serve più e l’orrore si è consumato proprio a questo prezzo. Un “senso di tristezza” è penetrato inspiegabilmente nel corpo del barone, che si avverte come essiccato dalla fiamma del peccato, nella consapevolezza sconcertante che “è più facile uccidere un uomo, che uccidere un pregiudizio”. De Marchi alterna i modi del racconto gotico con quelli quelli dell’esempio morale. La crime-story, infatti, si è trasformata in una ghost-story e il cappello del prete svolazza imprevedibilmente proprio come una fantasmatica sineddoche. Dapprima la sua dinamica rientra in un ordine logico ricostruibile: rotolato a terra a causa del colpo mortale subito da Cirillo, è stato ritrovato da Salvatore, il custode di Palazzo Santafusca, che lo ha portato nella sua misera abitazione. Anche Salvatore muore, di stenti, di vecchiaia o forse a causa della maledizione scatenata dal suo padrone. Viene dunque a dargli l’estrema unzione il buon Don Antonio, parroco di Santafusca, che si fa scrupolo perfino di nuocere con lo zolfo alle “signore formiche” che invadono il suo giardino. Avviene così che Don Antonio scambi inavvertitamente il cappello di padre Cirillo con il suo. L’equivoco nasce dallo sdoppiamento e dalla sovrapposizione, da un qui pro quo, e darà luogo a tutta una serie di altri disguidi. Il cappello forgiato da Filippino (destinato ad altri e ceduto in cambio di una cabala) proietta sul suolo una diversa e inquietante ombra (anima?) di cui il candido Don Antonio si accorge ben presto con un mortificato senso di colpa. Sprigionato dal luogo del delitto (la scena del crimine, come si usa dire) il “cappello del diavolo” se ne va dunque in giro a destare sospetti e diventa per la folla superstiziosa un numero da smorfiare e per certo giornalismo strillato un mistero tramite il quale alimentare la curiosità popolare. Suggestionato e ossessionato dalle voci di strada e dal tormentone mediatico, il barone vede ormai ovunque il cappello a tre punte (il triangolo divino?) “svolazzare intorno” come un uccello di malaugurio. E tenta follemente di uccidere il cappello (che ormai è tutt’uno col prete). Travestito da cacciatore va dunque sulle sue tracce, seguendo le indicazioni fornite dalla stampa, se ne impossessa e lo affonda in alto mare. Ma il cappello, proprio come il prete, è restio a morire. Se non sette, ha almeno due vite, giacché si è sdoppiato. Riemerge dal suo abisso. Santafusca scopre a sue spese, nonostante i “bagni di filosofia” a cui si sottopone, che uccidere un cappello è impresa più difficile che uccidere un uomo e perfino un pregiudizio. La regressione dal positivismo all’animismo è ormai compiuta: nel cappello è rimasto “un brandello dell’anima del prete”. Il libero pensatore si scopre sentimentale e rievoca con nostalgia e rimpianto le care memorie della giovinezza, ancora pura e perfino sfiorata da un vago misticismo. E prova invidia per i miserabili, i “pitocchi”, che sono felici, pur nella loro estrema povertà, perché almeno non hanno da sopportare il peso della colpa. Un peso che logora, corrode e lentamente uccide indebolendo il cuore (come segnala incidentalmente “un senso di acuta trafittura tra le costole a sinistra”). Poi avverte in sé, come un rabbrividito presagio, “l’abbattimento profondo dell’uomo condannato”. Ma in realtà nessuno ancora lo crede colpevole e nessuno lo accusa. Se non lui stesso, beninteso, che infatti prova orrore quando il casto don Antonio sta per baciargli devotamente la mano. E la ritira con raccapriccio, non per l’atto servile e arcaico, ma per ciò che la sua mano ha fatto, lordandosi irreparabilmente. Turbato dal gesto, immagina per sé un riscatto simile a quello dell’Innominato manzoniano, “anima nera venduta al demonio, che trovò nelle lagrime della compunzione e nelle buone azioni la sua morale rigenerazione”. Ma il suo intento resta un mero esercizio retorico, risolvendosi in un patto segreto e interiore con un Dio buono disposto a perdonarlo in cambio di “una vita di espiazione”. Il patto in realtà è mendace, non solo perché il barone non è affatto disposto a sacrifici o penitenze, ma anche perché il suo vero scopo è dimostrare l’inesistenza di Dio: “Se esiste, non vede che io son sincero nel mio dolore e nel mio proponimento?”. Ergo, non esiste. La conclusione è piuttosto malsicura. Tant’è che la coscienza non ne ha giovamento e persiste nella sua “persecuzione”, ignorando perfino il tentativo del barone di toglierla di mezzo con una teoria del “temperamento eccitabile”: il turbamento deriva “dai nervi e dalla immaginazione”, è una pura illusione, come certi stati allucinatori o come i dolori del cosiddetto arto fantasma. La tesi del barone sembrerebbe ricollocare il romanzo in un quadro psicopatologico. Sul fronte sociologico si verifica intanto il diffondersi della “leggenda” popolare del cappello. Sennonché l’elemento gotico resiste a questa riduzione razionalista. Nel concatenarsi degli avvenimenti pare infatti scorgersi la “mano invisibile” della Provvidenza, e perfino la stampa, con la sua campagna sensazionalistica, svolge il ruolo di una Nemesi vindice (“Maledetti giornali!” - impreca il barone - “Maledette le ciarle stampate! Se io fossi il padrone, vorrei affogarli tutti i giornalisti!”). Qui De Marchi gioca, con sottile ironia metaletteraria, sullo stesso mezzo che diffonde il suo romanzo. E sembra suggerire al lettore di non snobbare né il medium né il messaggio (“Vino e sangue! Che bel titolo per un romanzo d’appendice!”). Senza che ancora si sia avviata un’inchiesta vera e propria, il barone si è già condannato da solo. Sicché quando il magistrato (peraltro un suo amico) lo invita nel suo ufficio per una semplice deposizione, Santafusca perde ogni controllo sulla propria ragione, farnetica, si sdoppia e con schizofrenico dualismo accusa se stesso, nelle vesti di “cacciatore” e di “anticristo”, con una serie di deliranti lapsus rivelatori. Il giallo non ha avuto nemmeno il tempo di iniziare il suo iter, ed è stato subito risucchiato nel vortice di una follia lungamente incubata. Anche il racconto fantastico, nei modi della Scapigliatura, rimane a un livello potenziale o di mera citazione. A De Marchi interessa soprattutto il caso morale, la condizione umana, così diversa da quella della lucertola, perché oberata dal “castigo” di pensare e di dover “conciliare” un “cuore pieno di spaventi” con una “ragione piena di principi”. Il barone di Santafusca, “tradito e punito dalla sua stessa coscienza”, si congeda così sbrigativamente dal romanzo poliziesco e annuncia le macerazioni veriste del Marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana. PERCHÈ DOBBIAMO PRENDERE QUEI PICCIONI
2/11/2017
di Vincenzo Marineo
L’astensione non è il rifiuto della politica – rifiuto, a ben vedere, impossibile –, è invece una seppur indeterminata indicazione: non mi sentirei rappresentato da nessuno di quelli tra cui posso scegliere. Qui, per inciso, si vede quanto sia piccola la distanza tra l’astensione e il voto al Movimento 5 Stelle, con la sua presunta carica di ribellismo antisistema. Ma chi si rende conto della necessità dei partiti deve sapere dare, quando se ne presenta l’opportunità, un segnale chiaro e determinato a chi tenta di organizzare la rappresentanza. Gli attuali tentativi di costituzione di forze politiche di sinistra, va detto, non si sottraggono dal rendere omaggio alle forme della propaganda e della comunicazione del tempo presente. Lo vediamo nella maniera di articolare il rapporto tra i gruppi dirigenti e la base di massa e dei militanti, rapporto che tende ad essere costruito su forme di partecipazione scarsamente strutturate e non prive di sfumature populistiche: i gruppi dirigenti dichiarano di legittimarsi in quanto raccolgono istanze provenienti dal basso, occultando così sia il movimento inverso, altrettanto importante, di proposta dall’alto di una visione da condividere e di un progetto cui aderire, sia la responsabilità che ha chi si propone come gruppo dirigente di fare una sintesi, che è ben più della somma di quanto venuto fuori “dal basso”. Anche sui programmi, sulle cose da fare, si “raccolgono le idee”, presentando ciò come partecipazione democratica, come nel caso delle “Cento piazze per il programma” organizzate dall’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, l’iniziativa che ha come punti di riferimento comunicativi Tomaso Montanari e Anna Falcone. Si stimola la partecipazione, si raccoglie consenso, e questo è necessario, ma, come osserva Sergio Cesaratto, i programmi non si fanno così: “La politica consulta dialetticamente la piazza e gli intellettuali, ma non scaturisce né dall’una né dagli altri. […] Temiamo che questa rinuncia della politica al suo ruolo di guida in un rapporto dialettico con militanti e intellettuali, sia frutto di una fuga dalle responsabilità del ceto dirigente della ‘sinistra’ a fronte delle gravi scelte che il momento storico impone al nostro Paese e dunque alla politica.” (1) Dietro queste difficoltà nei rapporti con la base e nei rapporti con gli intellettuali c’è una doppia assenza, risultato della lunga stagione di arretramento sociale e politico della sinistra. La prima assenza è quella della base di classe cui rivolgersi; se la base è il lavoro, questo si presenta oggi frammentato e diviso da conflitti interni, che oppongono chi ha bene o male (molto spesso male) il lavoro a chi non lo ha, i giovani agli anziani, gli italiani agli immigrati, chi sta male a chi sta peggio. Trionfo della restaurazione di classe messa in atto negli ultimi decenni sotto la feroce copertura ideologica del neoliberismo, in Italia e fuori di essa. La seconda assenza, complementare e simmetrica alla prima, è quella di una visione e di una proposta da offrire quale orizzonte di azione. Il discorso pubblico degli aspiranti gruppi dirigenti della sinistra assume troppo spesso la forma della lamentazione: la deflazione salariale, la disoccupazione, la riduzione del welfare, vengono criticati, ma sembrano essere degli imperscrutabili accidenti storici, o, tuttalpiù, il frutto degli errori degli ultimi governi. Ma non c’è nessun errore: i governi hanno fatto esattamente quello che volevano fare. I problemi non sono riducibili alla contingenza, sono strutturali, e occorrerebbe offrire sia una lettura della realtà che una prospettiva di azione che vedano lontano. Se la situazione della sinistra è questa, non possiamo stupirci dei critici e dei delusi. Ma l’esigenza rimane: non dell’unità della sinistra, ma dell’individuazione e dell’aggregazione di un soggetto sociale e, insieme, della sua rappresentanza politica. La lista “Cento passi per la Sicilia”, con la candidatura alla presidenza di Claudio Fava, è la sintesi e la rappresentazione delle difficoltà della sinistra, ma resta in ogni caso un tentativo di rispondere a questa esigenza. La sua breve storia contiene molte storie, la cui diversità può essere empiricamente misurata dalla distanza di ciascuna di esse dal PD. Misura mai precisa, e neanche sicura: è di questi giorni la notizia della definitiva (sarebbe meglio dire: provvisoriamente definitiva) fine dell’appoggio di MDP al governo. Ciascuno dovrà scegliere all’interno della lista il candidato che gli sembra essere alla distanza giusta dal PD. La conciliabilità o meno di queste tante storie sarà poi messa alla prova dei fatti. Occorrerà infatti vedere quanti saranno gli eletti, e quali saranno, quali saranno i risultati delle altre liste, e del PD in particolare; occorrerà vedere cosa succede dentro e fuori il Parlamento nazionale, e soprattutto vedere come continua la crisi economica e sociale, che può avere imprevedibili e brusche svolte anche per cause esterne, soprattutto a livello europeo. Un buon risultato della lista Fava avrebbe comunque due effetti: quello prossimo di riportare nell’assemblea regionale siciliana una opposizione di sinistra, e quello, più ampio, di dare impulso alla ricerca di una presenza elettorale della sinistra a livello nazionale, premessa alla necessaria ricomposizione del sistema dei partiti. Effetti, questi ultimi, che vanno molto al di là della specifica scadenza elettorale. Tempi lunghi, esiti incerti. Ma un segnale, almeno, possiamo darlo. 1. Sergio Cesaratto, “La sinistra non abdichi alle proprie responsabilità”, http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=23268. CONTRO LE ELEZIONI
2/11/2017
di Roberto Salerno
Da quando il PCI non esiste più, ormai poco meno di trentanni, i richiami al senso di responsabilità verso quelle che sono considerate le frange estreme della sinistra si sono susseguiti senza soluzione di continuità. Complici a volte i vari sistemi elettorali, più spesso la costruzione di un nemico fosco e definitivo, in un tempo relativamente breve si è passati dal condannare le chiusure identitarie a lanciare veri e propri anatemi verso chi semplicemente manifestava qualche perplessità sull’opportunità di creare alleanze con soggetti che si allontanavano a passi sempre più ampi dalla tradizione del movimento operaio. Questo avveniva mentre il campo tradizionalmente occupato dal PCI diventava via via preda dei più sfrenati liberisti, passando dal PDS ai DS, dall’Ulivo al PD. Prima timidamente poi – via via che gli eredi del PCI diventavano sempre più impresentabili, fino a far apparire la corrente sinistra della DC come fulgido esempio di progressismo – sempre più celermente, tra gli estremisti di un tempo sono cresciuti due atteggiamenti, si sono formate due posizioni, che soprattutto in occasione delle scadenze elettorali hanno finito con il fronteggiarsi molto aspramente. Da una parte chi cerca la costruzione di “uno spazio a sinistra del PD” e dall’altra chi ritiene che partecipare alla competizione elettorale sia vano, se non addirittura dannoso. Le argomentazioni a sostegno delle due tesi sono abbastanza note ma non certo banali e implicano una lettura, verrebbe da dire antropologica, del corpo elettorale. Semplificando al massimo, chi cerca una forma di alleanza tra le varie anime della sinistra si può dividere tra chi ritiene che considerato i rapporti di forza sociali l’unica strada è salvare il salvabile in attesa di tempi migliori e quindi cercare con una manciata di deputati/senatori/consiglieri di influenzare le policy governative; e chi pensa che la costruzione di un gruppo parlamentare (quale che sia il parlamento) possa funzionare come punto di partenza per un percorso di riunificazione più ampio. Diversa la lettura degli “astensionisti”, anche loro grossolanamente suddivisibili in due grandi gruppi. Quelli che ritengono che la democrazia parlamentare non meriti nulla e che sempre e comunque si finisce con l’accettare riti e tempi imposti dalle classi dominanti; e quelli, diciamo così, “temporanei”, che considerato il momento storico – segnato dall’eccessiva vacuità delle proposte in campo, dalla sfiducia generalizzata nei confronti di dirigenti da decenni impegnati nell’agone politico, dalla lettura dei rapporti di forza – ritengono sia più produttivo svolgere la propria attività politica fuori dalle istituzioni. Le elezioni per il rinnovo del parlamento regionale di domenica 5 novembre 2017 non sono sfuggite a dinamiche viste sin troppe volte: - tentativo di costituzione di uno schieramento in grado di far confluire i vari groppuscoli della sinistra; - discussione che si preannuncia lunga e partecipata; - improvvisa chiusura della discussione con l’identificazione di candidati-simbolo attraverso pratiche nebulose, se non proprio clandestine; - appello dei candidati simbolo ad una generica unità; - costituzione delle liste inevitabilmente deludente; - separazione, aspra, tra chi va a votare e chi no. E in ultimo, purtroppo, la solita sconfitta e il ritorno alle frammentate pratiche politiche dei periodi non elettorali. Fino alla prossima volta, cioè tra un paio di mesi, quando ci saranno le elezioni politiche. Ora, che questo percorso possa essere stato provato una volta, due, è perfettamente comprensibile anche dagli scettici. Quello che è molto difficile da capire – ma il sospetto è che sia difficile spiegarlo – è quale sarebbe il progetto politico, lo sbocco finale, di questo percorso. La sensazione è sempre quella di “dover fare qualcosa” e c’è la spiacevole impressione che i soggetti coinvolti nel percorso sommariamente descritto ritengono che in ogni caso queste sono attività a costo zero. Il punto è che forse non è così. Ogni singolo passaggio crea tensione, allontana soggetti che durante i periodi “non elettorali” sono meno diffidenti tra loro e finisce spesso con il rafforzare il giudizio negativo di chi fa politica ogni giorno nei quartieri, nelle strade, per la salvaguardia dell’ambiente, nelle fabbriche (pare ci sono ancora), nella lotta per la casa e molto altro. È questo il costo nascosto che si paga partecipando alla contesa elettorale. In cambio sostanzialmente di niente, perché anche nella migliore delle ipotesi cosa mai dovrebbe succedere? Che ci siano cinque (un sogno) consiglieri regionali in qualche modo riconducibili ad una generica sinistra radicale? Che poi, considerata la parte della formazione delle liste, in genere sono personaggi che godono di un prestigio personale o di un pacchetto di voti del tutto slegato da una pratica di sinistra? In che modo questi eletti dovrebbero condurre un processo di aggregazione in grado di far crescere non tanto, figurarsi, un diffuso sostegno alla sinistra, ma almeno un sostegno alle molteplici lotte presenti anche nel territorio siciliano? Ma quello che forse è più grave è che le scelte anche di personaggi dalla storia personale cristallina e che giorno dopo giorno, lontane appunto dai riflettori elettorali, hanno svolto e continuano a svolgere la loro straordinaria attività politica, le scelte di questi sono del tutto isolate o, se va benissimo, prese dopo un confronto con un proprio gruppo ristretto. Del motivo, della discussione pubblica che conduce questi personaggi a fare la scelta di candidarsi, non sappiamo nulla se non quello che possiamo intuire: da una parte l’idea che qualcosa bisogna fare e dall’altra quella che le terribili questioni del nostro tempo possano trovare una qualche forma di soluzione grazie alla buona biografia di chi finisce in Parlamento (siciliano, nel nostro caso). Il tutto, umanamente comprensibile ma politicamente devastante, accompagnato da una sorta di fiducia nelle scelte di chi è impegnato quotidianamente nelle lotte sociali senza che la decisione venga accompagnata da una qualche forma di discorso politico. Il che, en passant, significa sostanzialmente aderire al discorso del grillismo che identifica nel problema del personale politico la questione sostanziale del nostro tempo. Cosa che i comunisti, ma anche una generica sinistra, dovrebbe aborrire se non vuol perdere quel che resta della sua anima. Insomma, quello che rimane è che ogni appuntamento elettorale sembra fatto apposta per intervenire come una clava sui processi di ricostruzione di una qualche sinistra che faticosamente, tra appuntamento e appuntamento, si svolgono giorno dopo giorno in spazi che saranno stretti e angusti ma che pure esistono e hanno una loro vitalità. Ha davvero poco senso “premiare” col voto questo o quel candidato. Se discussione a sinistra deve esserci dovrebbe cominciare il giorno dopo le elezioni. Prima, si litiga e basta. |
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Novembre 2019
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