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      • CAMBIARE (IL) LAVORO
      • COME TUTTI
      • UNA FATICA SEMPRE PIU' INUTILE
      • CONTINUAVANO A CHIAMARLA GLOBALIZZAZIONE
      • LICENZIAMENTI ALMAVIVA
      • ULTIMO TANGO A BERLINO?
      • BAIL-IN COI LUPI
      • COM'È PROFONDO IL SUD
      • I TASSI DELLA FED NON VANNO IN LETARGO
      • FOLLI E TESTARDI
      • TTIP: L'IMPERO COLPISCE ANCORA
      • CONFINDUSTRIA: GLI OPERAI GUADAGNANO TROPPO
      • GLI ANNI TRENTA PROSSIMI VENTURI
      • UN LAVORO DI CHE GENERE?
      • IL MALE OSCURO (MA NON TROPPO) DEL CAPITALE
      • C'E' UNA LOGICA IN QUESTA FOLLIA
      • BENTORNATI AL SUD
      • MOSTRI DI GUERRA DIRIGONO LE SCUOLE
      • QUELL’OSCURO OGGETTO DELLO SFRUTTAMENTO
      • FINCANTIERI: RIEN NE VA PLUS
      • L'INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI
      • LAVORO, REDDITO, GENERE: CHE DIBATTITO SIA...
      • RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA
      • SVENDESI INDUSTRIA ITALIA
      • LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DI MATTEO RENZI
      • NASCE PALERMOGRAD! LUNGA VITA A PALERMOGRAD! >
        • DONAZIONI
    • LONTANI E VICINI >
      • SI E' RIVISTA L'INGHILTERRA (DEGLI ANNI SETTANTA)
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      • DOBBIAMO POTER DISCUTERE DI TUTTO
      • DEATH RACE
      • ADDIO A MANOLIS GLEZOS, 1922–2020
      • IL FASCINO DISCRETO DEL MODERATISMO
      • MACCHE' OXFORD, SIAMO INGLESI
      • LO STRANO CASO DI MR BREXIT E DR REMAIN
      • LO SPETTRO DELLA SIGNORA THATCHER
      • IL DECRETO SALVINI E LA LOTTA DI CLASSE
      • ADDAVENÌ JEREMY CORBYN
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      • DOCCIA SCOZZESE PER I TORY?
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      • ATTACCO SU TRE FRONTI: LA NUOVA RECINZIONE
      • MAROCCHINI ALLA STAZIONE
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      • BREXIT: USCITA OBBLIGATORIA A DESTRA?
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      • BREXITHEART - CUORE IMPAVIDO
      • UN BLUESMAN DELL’INTELLETTO
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      • CARO YANIS, TI SCRIVO..
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    • IN TEORIA >
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      • RITORNARE A MARX
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE (parte 2^)
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE
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      • DAGLI SCIOPERI DELLE DONNE A UN NUOVO MOVIMENTO DI CLASSE: LA TERZA ONDATA FEMMINISTA
      • ANCORA SU DAVID HARVEY, MARX E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • A PARTIRE DA SIMONE WEIL
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE / 2
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • UNA CRISI, TANTE TEORIE
      • MA IL SUO LAVORO È VIVO
      • POSSO ENTRARE?
      • A VOLTE RITORNA. Il dibattito su reddito di cittadinanza e simili, prima della crisi.
      • L’ ORIENTE È L’ORIENTE E L’OCCIDENTE È L’OCCIDENTE, E GIAMMAI I DUE SI INCONTRERANNO ?
      • IL SEME DEL DUBBIO
      • RICOMINCIARE DA KEYNES?
      • DE-ROMANTICIZZARE IL LAVORO (DOMESTICO E NON)
      • CAPITALISMO CONCRETO, FEMONAZIONALISMO, FEMOCRAZIA
      • DAL FEMMINISMO DELL’ÉLITE ALLE LOTTE DI CLASSE NELLA RIPRODUZIONE
      • KARL KORSCH
      • INTRODUZIONE AL «CAPITALE»
      • REDDITO CONTRO LAVORO? NO, GRAZIE
      • PRIMA DI ANDARE OLTRE, LEGGIAMOLO
      • COM’È BORGHESE, QUESTA RIVOLUZIONE…
      • COME L’OCCIDENTE È ANDATO A COMANDARE
      • LO STRANO CASO DEL DOTT ADAM E DI MR. SMITH
      • L'ULTIMO MARX E NOI
      • IL CASO E LA FILOSOFIA
      • DAL PENSIERO DELLA GUERRA FREDDA AL FEMMINISMO INTEGRATO
      • STREGHE, CASALINGHE E CAPITALE
      • 2016: ODISSEA SULLA TERRA
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      • L'OMBRA LUNGA DEL MILITARISMO
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      • EUROPA E "MEZZOGIORNI". Un intervento di Joseph Halevi
      • PIANIFICARE NON BASTA?
      • IL PRANZO AL SACCO DI MARIO MINEO
      • MARIO MINEO E IL MODO DI PRODUZIONE STATUALE
      • LEGGERE BETTELHEIM NEL 2015
      • CHARLES BETTELHEIM: L'URSS ERA SOCIALISTA?
      • E LA CLASSE RESTO' A GUARDARE
      • LEI NON SA CHI SIAMO NOI
      • RISCOPRIRE IL VALORE-LAVORO
      • FUNERALE GLOBALE
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Prima Parte
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Seconda Parte
      • SRAFFA TRA TEORIA ECONOMICA E CULTURA EUROPEA
    • IL FRONTE CULTURALE >
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      • ROBESPIERRE CONTRO L'ANGLOFILO
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      • L’ARTE DELLA MATEMATICA
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      • SGUARDI SULLA MORTE E SULLA VITA
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      • IL RACCONTO CHE VISSE DUE VOLTE
      • UN INCUBO ASSURDO E INESORABILE
      • ETICA E/È LETTERATURA
      • ADOLESCENZE FRAGILI NELL’EPOCA DELLA BUONA SCUOLA
      • ABBASTANZA NON E' PIU' ABBASTANZA
      • ÉLITE IN RIVOLTA
      • CHI DI MOSTRA FERISCE
      • LIBRI DELL'ANNO 2017
      • PRO O CONTRO LA SCUOLA PER TUTTI
      • "NON INCOLPATE NESSUNO", MA I REGISTI SI
      • STENDHAL RAZZISTA AL CONTRARIO
      • IL TEMPO INSEGUE LE SUE VIOLE
      • L’UTOPIA DI SCHULZ
      • ADOLESCENZE FRAGILI
      • IL MARCHESE DI VENEZIA
      • “ANNORBÒ TOTÒ”
      • INVISIBILI MA NON TROPPO
      • UOMINI E LUPI
      • “MARIELLA SE N’È DOVUTA SCAPPARE”
      • LA GIUSTA DISTANZA
      • ROLAND IN CAMPO
      • COME SOLO UN AMANTE FA
      • CERTE NOTTI
      • VITA POLITICA DI GIULIANA FERRI
      • LIBRI DELL’ANNO 2016
      • TROPPO BARDO PER ESSERE VERO
      • LA BARBARIE PROSSIMA VENTURA
      • DANIELE CONTRO I BUROSAURI?
      • SWEET BLACK ANGEL
      • DODICI PICCOLI INDIANI (D'AMERICA)
      • VELTRONI VA A HOLLYWOOD?
      • RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
      • POVERI E PICCOLI
      • SENZA RUOLI, SENZA DESTINI
      • REQUIEM PER IL TEMPO LIBERO
      • DICE CH'ERA UN BELL'UOMO
      • GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
      • LA FATICA DI ESSERE BUONI
      • BORGHESIA MAFIOSA E POSTFORDISTA
      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
      • GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA
      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
      • GATTOPARDI BORGHESI
      • LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
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      • 6° INCONTRO. Storia dell'Unione Sovietica
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PALERMOGRAD

PERICOLO GIALLO 

29/11/2016
SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA
Marcello Benfante

Una nuova rubrica che ambisce a una certa“inattualità”, muovendosi fra quanto nel panorama culturale si pone ai margini, fra i luoghi NON comuni, ai confini tra cultura massificata, crisi della cultura “alta” e sempre risorgente midcult
.


​​PERICOLO GIALLO 

“Che cosa si può dire come apologia del genere poliziesco? C’è una considerazione evidente da fare: la nostra letteratura tende al caotico. Si tende al verso libero perché è più facile del verso regolare; la verità è che quest’ultimo è molto difficile. Si tende a sopprimere personaggi, trama, tutto è molto vago. In questa nostra epoca, così caotica, c’è una cosa che, umilmente, ha conservato le virtù classiche: il racconto poliziesco”
Jorge Luis Borges



Requiem per il romanzo poliziesco

Stiamo assistendo, da alcuni anni a questa parte, alla morte del romanzo “giallo”. 
È una lenta agonia, d’accordo, non priva talvolta di quei fatali e illusori miglioramenti che presagiscono l’esito funesto. Forse il moribondo, come la Violetta verdiana, ha ancora un’ultima aria da cantare, un estremo vibrante acuto da distendere, e tuttavia l’esito finale del suo male è ineluttabile. Né mi sorprenderei se un necrologio mi informasse che il decesso è già avvenuto da un pezzo, e che tutto il profluvio di romanzi in vario modo polizieschi che inonda le librerie sia soltanto una fenomenologia fantasmatica.

Dell’inflazione, con implicita svalutazione e inevitabile bancarotta, si era già accorto, e in tempi non sospetti, Gilbert Keith Chesterton:

“Ora, ci sono a Londra più di novecentonovantanove gialli e altrettanti investigatori immaginari, e quasi tutti sono cattiva letteratura o meglio non sono affatto letteratura” (1).

E se qui Chesterton denigra la pletora paraletteraria per esaltare le virtù artistiche del prototipo Sherlock Holmes (che pur “alla sua maniera selvatica e frivola” resta comunque “buona letteratura”) non può sfuggire che il dato più allarmante per il lettore odierno, ormai rassegnato al trionfo della spazzatura, sia la proliferazione patologica di merci sempre più scadenti che tendono a saturare e adulterare il mercato. E ciò fin quasi dagli esordi del genere, ma in un crescendo vertiginoso di banalità e volgarità.
Una crisi di sovrapproduzione, insomma. Ma non solo. Anche un’inarrestabile decadenza. Una degenerazione galoppante.

Va da sé che, per definizione, la buona letteratura (come ogni altra forma di arte) non possa costituire che una piccola parte del volume complessivo di opere scritte o edite. Entro ragionevoli proporzioni, questo è un dato di fatto fisiologico. Né, d’altra parte, un’onesta mediocrità deve considerarsi priva di funzioni positive, sia in termini di produzione che di fruizione. 

Ma non è questo il punto. La questione che s’intende qui analizzare è invece la seguente: un genere, peraltro di grande importanza per la civiltà occidentale, è morto, nonostante il suo apparente rigoglio.

Se infatti diamo una semplice occhiata agli scaffali delle librerie o alle rubriche di recensioni dei sempre più accondiscendenti critici letterari, abbiamo la sensazione di essere circondati e sopraffatti da un genere un tempo relegato in un ghetto paraletterario e oggi invece divenuto dominante in modo assoluto, di cui è impossibile non constatare l’ipertrofica riproduzione e l’ubiquitaria diramazione.

Mentre un tempo (grosso modo fino agli anni Ottanta del secolo scorso) di ogni buon libro di “alta letteratura” che contenesse un delitto o un’indagine poliziesca o un qualche cruento mistero si usava specificare nei risvolti e nelle quarte di copertina che l’opera in questione si limitava ad utilizzare formalmente la forma del giallo, ma era tutt’altro per qualità e intenti, oggi avviene l’esatto contrario: l’apparato pubblicitario editoriale tende a camuffare qualsiasi libro in un giallo, appigliandosi a qualsiasi pretesto, anche il più labile, per suggerire una chiave di lettura che generalmente viene ricondotta alla banda larga e vaga del noir.

Questo termine francese, attribuito anche a un grande filone del cinema hollywoodiano, in origine non era che una metonimia in tutto simile al “giallo” nostrano, giacché denominava una particolare collana in base al colore predominante delle copertine. In seguito, venne a individuare un certo tipo di opere caratterizzate da un’angosciosa cupezza e durezza, da un tono malinconico e pessimista, di denuncia sociale e d’impietoso disincanto. Ma la gran parte di ciò che oggi è definito noir non possiede alcuna di queste connotazioni, né l’asprezza iperrealista né lo spleen umbratile. Si ricorre all’etichetta noir in un patetico e provinciale tentativo di nobilitazione di un repertorio dozzinale che non è né carne né pesce, né lusco né brusco. Tale operazione di marketing rivela peraltro la curiosa persistenza di antichi pregiudizi sul giallo, benché in tempi in cui si celebra il suo incondizionato trionfo commerciale. Trionfo, beninteso, che coincide con il suo fatale tramonto.

Qual è il motivo e qual è il senso di questa sua eclissi, nonché di questa sua insana fertilità post mortem?

Per rispondere a questa inquietante domanda torniamo a Chesterton, alla sua profetica lungimiranza. L’autore del sublime Padre Brown interviene ai primi del secolo scorso sulla querelle tra i detrattori del giallo, per i quali esso non ha possibilità di sviluppo artistico e quindi si esaurirà ben presto, e i suoi estimatori, che ne immaginano invece sempre più prosperi accrescimenti tematici e stilistici.

“Altri sostengono che di fatto il giallo progredirà e si trasformerà, ma si trasformerà in qualcosa d’altro; e io penso sempre che questo genere di trasformazione è una forma di estinzione” (2)

Dilatandosi a dismisura, fino a fagocitare praticamente ogni forma di narrativa, il giallo è infine esploso, proprio come la rana di Esopo. I mille brandelli del suo corpo dilaniato ci piovono addosso incessantemente. Ma non sono che lacerti e frattaglie.

Divenuto altro da sé, gonfiato dagli estrogeni di una domanda finora inappagabile, il giallo (o comunque si voglia chiamarlo) ha del tutto smarrito il suo ruolo nel panorama letterario. Anzi, ha del tutto colonizzato tale arrendevole panorama trascinandolo per intero nel gorgo della sua stessa declassazione. Oggi tutto si è ingiallito, come se fosse ammorbato da un’epidemica febbre malarica. Ma l’aspetto è impallidito. Ha assunto un colorito malsano. Per cui tutto ormai è giallo, ma niente in realtà lo è.


Tutta colpa del postmoderno? 

Forse in questa requisitoria, come certi magniloquenti avvocati dei legal thriller, stiamo abusando di immagini retoriche. Invece vorremmo parlare di una metamorfosi vera e di una concretissima perdita di valore estetico (e insieme etico-politico). Siamo peraltro consapevoli che, come in ogni discussione, è possibile menzionare un certo numero di eccezioni, ossia di buoni e perfino ottimi romanzi polizieschi, i quali tuttavia non possono confutare l’evidenza di una realtà macroscopica.

Si potrebbe anche addurre una contestazione più generale. Si tratta in sostanza di quella che usiamo definire la condizione del cosiddetto postmoderno. Ovvero la scomparsa dei generi come essi si erano storicamente determinati e configurati. Non solo il giallo è stato sommerso dal magma indifferenziato della letteratura e della cultura postmoderne. Tutti i generi sono venuti meno per se stessi e si sono contaminati.

Osservazione in linea di massima innegabile, che però non spiega il monocromatismo essenziale della produzione letteraria odierna.

Invece spiega – forse – perché quasi sempre prevalga un taglio parodico, spesso anche autoironico o addirittura caricaturale. Consapevolmente o meno, la gran parte dei gialli d’oggi è il risultato di un approccio meta-letterario. Il marchio del postmoderno, si dirà. Sì, ma non solo. Si tratta anche di un fatto tecnico: elemento tutt’altro che secondario in questo tipo di narrativa.

In realtà a scomparire è soprattutto il mystery, cioè quella forma ingegnosa di rappresentazione di un enigma a cui il detective (sulla scia di Edipo) troverà infine una soluzione razionale grazie al proprio impareggiabile genio intuitivo. Stiamo parlando di un filone, per così dire, problematico di cui sono stati maestri scrittori, per esempio, come John Dickson Carr o come Ellery Queen.
Si tratta di un esercizio assai difficile che richiede, non solo una padronanza tecnica notevole, ma anche spiccate doti logiche, in qualche modo simili a quelle del protagonista del romanzo, e di fantasia, ancorché nella forma della variazione del topos(per esempio, il cadavere nella camera chiusa dall’interno).

Cimentarsi in un mystery esige una disciplina e un’inventiva che già potrebbero a monte operare una drastica selezione tra gli autori. Ecco perché nessuno (o quasi) osa più praticarlo.

Per inciso, sono diverse le ragioni della crisi del mystery. In primo luogo il filone (come tutti i filoni) tende necessariamente a esaurirsi dopo le inimitabili lezioni di alcuni grandi innovatori (ripercorrendo i “casi” di Agatha Christie si ha come l’impressione che abbia contemplato tutte le possibili varianti enigmistiche). Per di più, oggi la logica dei sopraffini pensatori è stata ridimensionata e fin quasi esautorata dalla tecnologia, con un processo che potremmo definire di alienazione e disumanizzazione. Se ciò non bastasse, va aggiunto che lo stesso ragionamento logico viene ormai interpretato come una sorta di offesa al pluralismo delle opinioni, cioè a quella falsa democrazia telematica e massmediatica in cui ciascuno si sente autorizzato a sostenere le posizioni più assurde e aberranti in nome di un’opinione personale applicata agli oggetti più disparati.
Che il mystery implichi una disciplina mentale è dunque una costrizione che il consumismo culturale reputa ormai inaccettabile e insopportabile. Meglio affidarsi ai responsi (assai discutibili, in verità) di una scienza forense interamente meccanizzata (3).

Impegnativo e disorientante, almeno nei suoi esempi migliori, il mystery è dunque un’arte difficile (rovesciando un celebre aforisma di Chandler) che richiede allo scrittore e un po’ anche al lettore delle doti complesse, un’attenzione ai dettagli, un’accurata costruzione del plot.

Accantonata o estremamente banalizzata la detective story, ha preso sempre più campo il crime novel, basato sull’enfatizzazione della violenza. Questa tendenza potrebbe facilmente spiegarsi in termini sociologici e psicologici, se ne valesse la pena. La grande popolarità del giallo contemporaneo deriva dalla sua caratteristica riflessiva, ovvero dal suo essere specchio passivo della violenza e del senso di morte della nostra società. Discorso non nuovo, si potrebbe obiettare.

Nella sua forma paradigmatica e ormai tumulata il giallo è fondamentalmente consolatorio e conservatore in quanto ristabilisce un ordine sociale turbato dal delitto, restituendo sicurezza alla comunità impaurita e destabilizzata. Oggi invece si limita a una rappresentazione della brutalità come fascinazione orrorosa. C’è una necrofilia dominante in queste storie, che sfrutta gli elementi del terrore e del macabro con una dialettica di attrazione e perturbazione desunta solo in parte dal romanzo gotico. Nelle versioni cinematografiche e soprattutto televisive questo fattore è ancora più evidente e si rivela nell’esibizione dei cadaveri dissezionati sul tavolo anatomico del medico legale. Non c’è un intento conoscitivo in questa ostentazione (come per esempio nella secentesca “Lezione di anatomia del dottor Tulp” di Rembrandt) e nemmeno una funzione compensativa. Non esiste alcuna pax da ripristinare. La vita è un’incessante sequela di violenze e distruzione che non può essere in alcun modo lenita dalla scoperta della verità e dal deus ex machina dell’investigatore onnisciente. L’aggressività e la sopraffazione sono quindi esposte in modo neutro come espressione di un’energia in ultima analisi erotica. Il corpo stesso delle vittime, ridotto a cosa mercificata, è divenuto un rifiuto da smaltire (dopo, beninteso, apotropaici rituali di ricomposizione, più affini alla chirurgia estetica che alla pietas).

Il delitto insomma ha assunto uno status di gran lunga più importante dell’investigazione e della soluzione del caso (ma al tempo stesso risulta svilito e, per usare una boutade, mortificato).

Da mero punto di scaturigine e ipotesi primaria, si è spostato nel cuore del racconto, assumendo una centralità irradiante intorno a cui ruota tutta la narrazione. Sicché la lotta ha cessato di essere quella tra crimine e ratio riparatrice, risolvendosi nella speculare contrapposizione tra due forze simmetriche, la violenza illegale e quella legittimata dallo Stato, che spesso ricorrono a mezzi simili, talora per fini analoghi. 

In questo allontanarsi dalle sue radici liberali (almeno nella forma classica) il giallo è divenuto sempre più reazionario e autoritario (anche laddove lo scrittore o la sua creatura manifestano idee o atteggiamenti democratici e progressisti). Non vi è più consolazione possibile, nemmeno a livello mitopoietico, nella società iperconflittuale dell’uomo lupo dell’uomo. L’unica dinamica ammissibile è la risposta repressiva al delitto, senza alcuna pretesa di restaurare un’armonia momentaneamente sconvolta, bensì nella consapevolezza che ogni riscatto è illusorio. Realismo, questo appena descritto, che può dare luogo a grandi romanzi o a becera paccottiglia, ma che col giallo ha ormai poco a che vedere.


Quel che resta del giallo

Questo passaggio ha richiesto una lunga elaborazione. Il giallo nasce come genere nel contempo popolare e colto con il formidabile trittico di Auguste Dupin di Edgar Allan Poe. A partire da questo evento e per un tempo lungo e intenso, l’eroe del giallo è un loico, un maître à penser, il cui pioniere paradigmatico è Sherlock Holmes, intellettuale anomalo e a suo modo eslege che darà la stura a una serie di modelli e variazioni, come Poirot o Nero Wolfe, tutti fortemente caratterizzati da eccezionali doti induttive e deduttive. Non a caso il mystery è sempre stato amato da una folta schiera di intellettuali. Come il gioco degli scacchi, a cui viene spesso accostato, anche il giallo è stato ed è prediletto per le sue caratteristiche cerebrali.

È innegabile tuttavia che è il personaggio (l’eroe che pensa, parafrasando Berardinelli) ad esercitare l’attrattiva maggiore, e ciò spiega come mai il giallo scientifico alla Austin Freeman, benché inventivo e innovativo, non sia riuscito a reggere l’usura del tempo.

Oltre alle “macchine pensanti” alla Thorndyke, non mancano personaggi più volitivi e ardimentosi, fin da un archetipo come Vidocq, passando per le gesta avventurose di un Nick Carter. Sono però ancora personaggi riconducibili al romanzo d’appendice o al dime novel, cioè a un pubblico più popolare e meno istruito a cui non piace lambiccarsi con vicende astruse. Il giallo invece è rimasto a lungo appannaggio di una classe media scolarizzata che aspirava a un intrattenimento facile ma non banale. Sostanzialmente per tutto il periodo aureo del mystery la riflessione immobile prevarrà sull’azione eroica. Anche quando, a parti invertite, l’attenzione si sposta sul carisma del bandito (come nel caso di Lupin di Maurice Leblanc), l’attrattiva principale consiste ancora nell’esercizio della sua intelligenza, nella raffinatezza razionale del suo modus operandi.

La vera svolta si ha con l’avvento dell’hard boiled. Ed è una svolta ancora vitale che esprime la grande lezione di Dashiell Hammett. Ma già si cominciano a intravedere i segni di uno snaturamento che porterà agli accessi di Mickey Spillane – il vero punto di rottura irreversibile con la tradizione del mystery – e via via a truculenze sempre più rudi. Siamo ormai nell’ambito di un avventuroso metropolitano (la giungla d’asfalto) che chiude i conti con quel filone post-illuminista e positivista costruito sul mito della ragione chiarificatrice. I muscoli hanno la meglio. Il corpo – che patisce o che agisce – si sbarazza dell’ingombrante supremazia della “cellule grigie”, per dirla con Poirot, reclama e ottiene il suo primato. Più che la verità e il labirinto che la cela, è lo scontro fisico tra un bene e un male sempre più confusi e mescolati a divenire il vero nucleo della fabula, con derive giustizialiste e illiberali che segnano il passaggio dalla presunzione di innocenza alla postulazione di colpevolezza, dalla struttura incentrata sullo scagionamento a quella incriminatoria (4).

Ovviamente, lo smarrimento delle certezze sulla possibilità di conseguire una verità assoluta produce anche romanzi non banali e addirittura alcuni capolavori (si pensi a Dürrenmatt, per esempio, o a Leonardo Sciascia, che tuttavia ha operato soprattutto nel senso di un ribaltamento dei canoni del giallo, come subito capì Alberto Moravia). Ma il più delle volte si ferma a un livello di rozzezza inaccettabile in cui si è perduta tutta la grazia e l’arguzia del giallo classico, che era basato su un patto ludico con il lettore, su un ammicco culturale, un’intesa civile che era una condivisione di valori e convenzioni.

Il romanzo poliziesco è un genere, per così dire, dimenticabile. Molti suoi studiosi hanno evidenziato il fatto che di un libro giallo, una volta che l’abbiamo letto, chiuso e riposto sullo scaffale, solitamente scordiamo gran parte della trama e perfino chi era il colpevole o in che modo è stato smascherato. Ogni appassionato del genere ha provato molte volte questa sensazione di amnesia o addirittura di vuoto. Tuttavia dei libri migliori, dei classici, non dimentichiamo mai il protagonista o alcuni azzeccatissimi comprimari. Possiamo dimenticare in tutto o in parte l’intreccio de La strana morte del signor Benson, forse, ma non certo l’affascinante figura dell’intellettuale-dandy Philo Vance. Questa centralità del personaggio aumenta insieme alla qualità complessiva del romanzo (si pensi alla monumentalità letteraria di un Maigret). Ma anche le formulazioni dell’enigma e le soluzioni più originali ci restano impresse nella memoria. Il colpo di scena de L’assassinio di Roger Ackroyd, per esempio, è una di quelle innovazioni irripetibili (proprio come l’avanguardia) che non possono mai essere obliate.

Il giallo odierno, nelle sua varie declinazioni, non riesce quasi mai ad essere memorabile e a sottrarsi a una piattezza sconfortante. Se si esclude qualche investigatore ben caratterizzato o qualche raro ambiente reso con notevole realismo (da alcuni addetti ai lavori, soprattutto), non c’è un volto o una storia che il lettore riesca a conservare dopo il mero consumo del libro (e talora perfino durante). Si tratta di un difetto antico, per cui a lungo al romanzo poliziesco è stata perfino negata la dignità di autentico romanzo. E però questo limite è oggi fin troppo generalizzato in uno scenario deprimente di pervasivo squallore.

Stiamo ovviamente generalizzando. È opportuno ripetere che neanche oggi mancano del tutto opere apprezzabili, quelle ad esempio che attingono alla cronaca e all’inchiesta con scrupolosa ricerca (penso a certi titoli di Carlo Lucarelli, per restare nei nostri confini).

Per il resto, cioè per una marea straboccante di materiale editoriale, assistiamo all’applicazione indolente di una serie di luoghi comuni romanzeschi, talora ravvivati da un tocco umoristico o da tratti folclorici, da pastiche linguistici para-gaddiani, da inserti gastronomici o da impudenti mafiologie.

Quella che era “la prima e unica forma di letteratura popolare in cui si esprime in qualche modo la poesia della vita moderna” (5), si è trasformata nella prosaica cronachetta del nostro andazzo quotidiano, un che di generico, di vagamente legato a un episodio feroce e criminoso, peraltro quasi sempre destituito del suo scandalo, della sua funzione di rottura dell’equilibrio morale e sociale. L’assuefazione al piombo e al sangue ha fatto sì, infine, che la morte non destasse più meraviglia. Ma senza lo stimolo dello stupore, cessa ogni interrogativo, ogni ricerca, ogni anelito di scoperta. Cessa insomma la molla che aziona il meccanismo virtuoso del giallo e la sua inesprimibile entropia.

Si è trattato di una maturazione filosofica? Di un pervenire all’agnostica conclusione che non esistono più misteri da svelare? Di un arricchimento, in altri termini?

O piuttosto di una perdita d’identità? Guardando la miseria culturale e la fragilità narrativa di moltissima parte del giallo odierno, propenderei mestamente per quest’ultima possibilità. Soprattutto perché alla decadenza letteraria di una forma di romanzo che ho molto amato e che ormai mi risulta fin troppo monotona e fastidiosa, corrisponde (cosa ben più grave) un imbarbarimento sociale e una crisi complessiva delle forme politiche democratiche.




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Note
(1) Gilbert Keith Chesterton, Come si scrive un giallo, Palermo, Sellerio, 2002, traduzione di Sebastiano Vecchio, p. 64.
(2) Ivi p. 46.
(3) Al riguardo si veda il mio articolo “No alla criminologia, viva Perry Mason”, su “Lo Straniero” n. 173 novembre 2014.
(4) “Nel romanzo poliziesco c’è senz’altro un gran rispetto della persona e dei suoi diritti. Nessuno dubita che l’assassino sia un mostro. Tuttavia egli non cessa di essere un uomo, protetto dalla legge dell’habeas corpus”, in Thomas Narcejac, Il romanzo poliziesco, Milano, Garzanti, 1976, traduzione di Luciano Nanni, p. 176.

(5) G. K. Chesterton op. cit. p. 72.


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2016: ODISSEA SULLA TERRA. ​Riflessioni a partire dal libro di Domenico Moro: Globalizzazione e decadenza industriale

25/11/2016
di Marco Palazzotto


Globalizzazione?

Il concetto di globalizzazione viene sempre più utilizzato per descrivere vari fenomeni tipici del capitalismo contemporaneo. Lo stesso concetto viene poi declinato all’interno delle diverse correnti politiche onde sostanziare le rispettive letture della realtà. 
L’obiettivo di questo breve contributo vorrebbe essere quello di chiarire alcuni aspetti del dibattito a sinistra, partendo dalla lettura del recente testo di Domenico Moro  Globalizzazione e decadenza industriale. L'Italia tra delocalizzazioni, «crisi secolare» ed euro (Imprimatur, 2015).
Se vogliamo partire da una definizione accettata comunemente, secondo l’enciclopedia Treccani online per ‘globalizzazione’ s’intende l’insieme di fenomeni che a partire dagli anni Novanta ha stimolato la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo. In economia, per quanto riguarda i mercati, si assiste ad una unificazione a livello mondiale grazie anche alla diffusione delle innovazioni tecnologiche. Scompaiono le differenze nei gusti dei consumatori, che si unificano alle preferenze guidate dalle multinazionali. Le imprese sono in grado di sfruttare meglio le economie di scala nella produzione, distribuzione e marketing, praticando politiche di bassi prezzi per penetrare in tutti mercati. 
Spesso il concetto viene usato come sinonimo di liberalizzazione. A cavallo tra XX e XXI secolo il progresso tecnologico, sempre più veloce, ha ridimensionato le barriere naturali agli scambi e alle comunicazioni, contribuendo alla forte crescita registrata dal commercio internazionale e degli IDE (Investimenti Diretti all’Estero). In particolare, la diffusione delle tecnologie informatiche ha favorito i processi di delocalizzazione delle imprese e lo sviluppo di reti di produzione e di scambio sempre meno condizionate dalle distanze geografiche, alimentando la crescita dei gruppi multinazionali e i fenomeni di concentrazione su scala mondiale; ha favorito inoltre un’espansione enorme della finanza internazionale.


L’imperialismo globale
Si è scelta la definizione della Treccani per partire da un’accezione generalmente condivisa del concetto. Il testo di Domenico Moro, invece, ci consente una panoramica da un punto di vista di classe. 
Secondo Moro globalizzazione è sinonimo di internazionalizzazione, la quale in Italia ha prodotto una desertificazione industriale: smantellamento del sistema produttivo statale per spostare i capitali manifatturieri verso i monopoli naturali (pag. 39). 
Il testo è utile per capire in che misura possa la globalizzazione – nell’accezione di Moro appena chiarita – spiegare la grande crisi iniziata nel 2008. La globalizzazione in questo senso va considerata strumentale rispetto al processo di accumulazione allargata: Moro si serve delle categorie marxiane per spiegare la crisi che ha accentuato i fenomeni di concentrazione e centralizzazione capitalistica. Questo cocktail di maggiore internazionalizzazione finanziaria e produttiva, conseguente all’aumento dei monopoli, ha fatto esplodere la tipica crisi latente da caduta tendenziale del saggio di profitto. Esportazione di capitale, centralizzazione e concentrazione produttiva, sono considerate controtendenze a tale caduta. 
Infine l’Euro, come strumento dell’accumulazione allargata, rappresenta la leva principale del capitalismo europeo per contrastare la caduta tendenziale. 
Questa globalizzazione per Moro è una forma d’imperialismo non più su base nazionale, bensì un vero e proprio imperialismo globale. Ciò non elimina il ruolo degli Stati nazionali, bensì aumenta la contraddizione tra paesi emergenti e paesi imperialisti. La “territorialità” sopravvive per garantire proprio l’internazionalizzazione e l’accumulazione globale del capitalismo (pag. 224). 

Il periodo “pre-postmoderno”

1. Internazionalismo?
Secondo l’interpretazione che ha monopolizzato il dibattito nella sinistra radicale a partire dagli anni Novanta e la lettura del capitalismo del nuovo millennio, la globalizzazione de-territorializza l’impresa e ne snellisce l’apparato burocratico. I costi si riducono con il conseguente aumento di profitti. Le scorte si azzerano secondo il modello toyotista e l’intervento dello stato keynesiano del fordismo scompare, lasciando il posto al controllo del capitale fuori dai territori nazionali. La massa di disoccupazione creata dallo snellimento produttivo, l’efficienza del lavoratore rimasto in fabbrica e la viepiù crescente de-materializzazione della prestazione lavorativa – che lascia molto spazio al lavoro autonomo – provoca una ‘fine del lavoro salariato’, confermando la previsione di studiosi come Rifkin. 
Tuttavia, secondo molti analisti le caratteristiche effettive del nuovo capitalismo sono diverse rispetto a quest’ultima lettura, e, volendo fare un confronto con il secolo scorso, le categorie novecentesche sono ancora utilizzabili. 
Per quanto riguarda l’internazionalizzazione del capitale, una delle principali caratteristiche della globalizzazione per come viene descritta riguarderebbe l’aumento del commercio estero e dunque l’aumento della mobilità di merci e persone (migrazioni). In realtà, se si leggono bene i dati, gli anni ’90 del secolo scorso (anni in cui il dibattito sulla globalizzazione ha raggiunto il suo culmine) non presentano dinamiche molto dissimili rispetto alla fine dell’800. 
Il commercio tra 1899 e 1911 crebbe del 3,9%, contro il 3,4% tra il 1977 e 1990, mentre il dato più alto lo abbiamo tra il 1950 e 1973, in cui si è raggiunto il 9% (periodo pienamente fordista).
I flussi migratori di fine ’800 rimangono senza paragoni nella storia. Tra il 1814 e 1914 si muovono circa 100 mln di persone di cui 60 mln europei (Riccardo Bellofiore in Il Lavoro di domani - Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, BFS 1998, curato dallo stesso Bellofiore).
Le nazioni inoltre continuano ad avere un ruolo cruciale. Infatti, il commercio si è specializzato in aree geografiche in cui le multinazionali hanno ancora una base, un cuore, e un cervello nazionali. Semmai il cambiamento che c’è stato potrebbe riguardare la sostituzione dell’aggettivo ‘nazionale’ con ‘regionale’. E mi riferisco al cuore produttivo mondiale che rimane sempre nella cosiddetta “triade”: USA, Europa e Asia. 
Se consideriamo i 100 influencer, ovvero le prime 100 corporation in termini di fatturato, si scopre che questi sono controllati da consigli di amministrazione saldamente in mano a manager di origine statunitense, europea e cino/giapponese.
“L’impresa nomade” quindi non esiste, come non esiste il capitale produttivo nomade: semmai assistiamo all’affermarsi di un capitale finanziario più mobile. 

2. Post-taylorismo?
Una delle conseguenze teoriche della narrazione utilizzata a sinistra del nuovo corso del capitalismo riguarda “l’era del post-fordismo”. Nella produzione dei beni cambia il modello taylorista della specializzazione dell’operaio nella catena produttiva. È soprattutto l’esperienza giapponese di fine secolo a introdurre elementi di rottura: la cosiddetta produzione snella, che è il combinato dell’azzeramento delle scorte con il just in time e il miglioramento continuo del kaizen o qualità totale. Questo nuovo modello snellisce la catena produttiva con la riduzione dei quadri estranei alla produzione e sponsorizza la specializzazione multidisciplinare degli operai che li avvicina molto agli artigiani accompagnati da macchinari altamente flessibili. Così la catena di montaggio in cui l’operaio svolgeva solo una mansione ben specifica nella produzione del bene di consumo si sostituisce con l’operaio multidisciplinare, così che nella fabbrica convivono diverse unità produttive autonome. 
Anche il conflitto dentro la fabbrica cambia. Il lavoratore ha notevoli possibilità di carriera  legate all’anzianità; il sindacato non è più nazionale bensì d’impresa. Vi ricorda qualcosa? Agnelli già negli anni ’90 anticipò che il Modello Giapponese era quello da seguire. E così fu nelle fabbriche italiane. Il modello sindacale aziendale venne calato nella realtà di fabbrica, anche grazie alla complicità dei governi italiani. Ci ritroviamo così una parcellizzazione contrattuale in unità produttive diverse, ma sottoposte allo stesso comando. Un operaio di Pomigliano ad esempio produrrà le stesse cose di un operaio serbo, ma lavorando con un contratto diverso (centralizzazione senza concentrazione – R. Bellofiore 2010; J. Halevi 2010). 
La conseguenza di questo modello è che vengono concessi ai lavoratori una conoscenza maggiore ed un certo controllo del processo produttivo, per ottenere in contropartita una maggiore saturazione degli impianti. Si ha quindi un’intensificazione del lavoro e ogni spazio di tempo libero è eliminato (ricordate le vertenze di qualche tempo fa a Pomigliano sulle pause?). Il controllo maggiore del processo produttivo, che aumenta la produttività degli impianti ed elimina le scorte, provoca un controllo maggiore sul lavoratore ed un conseguente aumento del saggio di sfruttamento dello stesso. 
In pratica il lavoratore qualificato è subordinato al meccanismo di accumulazione non meno dell’operaio-massa di un tempo. Si assiste a una eliminazione del conflitto dietro il velo della qualità. Una vittoria del comando imprenditoriale che non ha eguali.

3. Fine del lavoro?
Altro elemento dell’interpretazione ‘postfordista’ è la riduzione del lavoro direttamente subordinato, grazie al modello appena descritto (più macchine e quindi bisogno di meno operai) e l’aumento del lavoro autonomo, eterodiretto, ma con contenuti relazionali e informativi. La caratteristica del modo di produzione capitalistico non sta però nella forma giuridica del lavoro e nella sua retribuzione. La differenza va vista sotto due aspetti. L’accesso alla liquidità segue la vendita della forza-lavoro e non la precede come si fa invece nel rapporto capitalista-lavoratore (l’anticipo del capitale è delegato al lavoratore ma non scompare); il secondo aspetto è che l’intermediazione del mercato “nasconde” la relazione di dipendenza (Cfr. R. Bellofiore, ibidem). 
Il lavoro sta perciò scomparendo? Ma quando mai. Dopo il 1974 si assiste piuttosto a un aumento di produzione job intensiverispetto all’era del fordismo .
La World Bank calcola che si è passati da 1,329 mln di lavoratori del 1965 a 2,470 del 1995 e si prevede che nel 2025 arrivino a 3,65 mln. Stesso discorso per il tempo di lavoro, che aumenta e non diminuisce, come ci vogliono far credere alcuni studiosi. Il lavoratore in conclusione non tende a scomparire, ma a crescere in una situazione di maggiore disoccupazione, di precarietà ed esclusione. 
La globalizzazione sembra pertanto rappresentare la forma moderna dell’imperialismo, inteso ancora come “fase acuta” del modo di produzione capitalistico.
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INGRAO PRIMA DI TANGENTOPOLI. Il CRS tra autonomia del sociale e hybris della politica

22/11/2016
di Tommaso Baris

​​Giuseppe Cotturi, Declino di partito. Il Pci negli anni Ottanta visto da un suo centro studi, prefazione di Maria Luisa Boccia, Roma, Ediesse, 2016
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Nel 1979, alla fine della VII legislatura, Pietro Ingrao, che nel luglio del 1976 era stato eletto alla presidenza della Camera con il sostegno consensuale delle principali forze politiche nel quadro della strategia della “solidarietà nazionale”, rifiutava l’offerta di continuare in quel ruolo, ricoperto in uno dei momenti politici più delicati e drammatici della vita del paese.

Il leader della sinistra interna comunista sceglieva invece di entrare nella commissione affari costituzionali del Parlamento e tornava nel contempo a dirigere uno dei centri studi legati al Pci, quel Centro per la riforma dello Stato, di cui era stato primo presidente un altro grande battitore libero del comunismo italiano come Umberto Terracini. Pur privo di grande risorse finanziarie e sicuramente meno noto rispetto ad altre pensatoi del partito, il Centro per la riforma dello Stato divenne sotto l’impulso del primo comunista presidente della Camera uno importante centro di analisi ed elaborazione del delicato passaggio politico tra gli anni Settanta ed Ottanta.

Il libro di Giuseppe Cotturi, che del Crs è stato uno dei direttori proprio in stretta collaborazione con Ingrao, ripercorre ed analizza proprio il lavoro svolto da quel laboratorio culturale e politico sotto la spinta del suo autorevole leader tornato ad immergersi nella vita concreta del partito dopo la parentesi istituzionale. Spesso identificato e recluso nella sua immagine di politico caratterizzato da una dimensione fortemente utopica e sognatrice dell’agire pubblico, come del resto suggerisce la sua stessa ultima autobiografia apparsa per Einaudi qualche anno fa (Volevo la Luna), Ingrao, smentendo questa rappresentazione, si immerse in quel delicato frangente affrontando in maniera diretta e forte uno dei nodi che gli parevano essere diventati ineludibili del sistema politico italiano: quello della crisi istituzionale della Repubblica dei partiti, per usare la nota formula dello storico cattolico Pietro Scoppola, letta nell’ottica di un progressivo ed allarmante scollamento tra società politica e società civile. Colui che ancora nel 1977, in Masse e potere, aveva insistito sul ruolo dei grandi partiti di massa come soggetti capaci di rappresentare il complesso corpo sociale che si era messo in movimento, insistendo sulla loro capacità di ripensare il sistema istituzionale verso nuove forme di partecipazione democratica ed allargamento delle capacità decisionali verso il basso, nel corso del decennio successivo pare più chiaramente, proprio grazie al lavoro di organizzazione culturale e riflessione teorica portato avanti dal Crs, cogliere invece l’allargamento della distanza tra le spinte sprigionatesi nella società e il sistema tutto dei partiti politici di massa.

Ingrao colse quindi acutamente i problemi irrisolti che la stagione dei “movimenti” – formula impropria e riduttiva con cui qui proviamo a riassumere l’apparizione di nuove e molteplici soggettività (il femminismo, l’ecologismo, il pacifismo, il volontariato) – lasciava sul campo. Ingrao intuiva quindi che il collasso delle piccole formazioni della sinistra extraparlamentare e la sparizione della parte più immediatamente politica del “movimento” in seguito allo scontro tra le frange minoritarie più estremiste scivolate nella lotta armata e le forze repressive dello Stato, non significava affatto la fine della “autonomizzazione” delle forze sociali dal sistema dei partiti: la mobilitazione di ampi e diversificati settori della società non si sarebbe arrestata, anche se mutavano sicuramente i modi rispetto alle forme tradizionali e la funzione stessa di mediazione dei partiti politici. I nuovi attori portavano infatti in dote un “conflitto sulla politica di trasformazione, sullo spostamento del potere dall’alto al basso, sull’autonomia dei soggetti e la rappresentanza, sulla pluralità irriducibile all’unità del Politico e del Soggetto partito”, come ha scritto Maria Luisa Bocca nella prefazione al volume (p. 12). Mettevano quindi in discussione l’assetto tradizionale dei partiti di massa e dello stesso Pci, a cui chiedevano un ripensamento profondo delle sue forme organizzative e del suo modo di rappresentare nella società politica le istanze del sociale.

All’“autonomia” che i nuovi soggetti sociali mettevano in campo sin dal loro apparire negli anni Settanta Ingrao immaginò bisognasse rispondere ripensando la forme tradizionali dell’organizzazione politica, tanto da promuovere una articolata ricerca sul partito politico chiamato a muoversi in un contesto nuovo, impegnandovi autorevoli intellettuali del mondo della sinistra, includendovi anche studiosi non comunisti. Non si mancava di sottolineare che quella spinta, lasciata a sé stessa e privata di relazioni positive, poteva tradursi anche in una torsione corporativa e iper-specialistica: ma proprio tale rischio lo spingeva a ragionare “sul bisogno di collegamenti e comunicazione con soggetti organizzati in apparati dotati di storia propria, di specificità” (p. 51). Il magma ampio e complesso del sociale – era questa l’intuizione ingraiana – non poteva più essere cancellato o ricompreso dentro l’unicità del Soggetto-Partito inteso in senso tradizionale. L’“autonomia”, concetto chiave del periodo entrato nel lessico della teoria politica a partire dalle riflessioni di Mario Tronti, diventava allora concetto cruciale anche nel rapporto tra centri studio e Pci, ma più in generale nel ripensamento dello spazio politico che il leader comunista auspicava il suo partito sapesse realizzare.

Creare dunque nuovi strumenti caratterizzati da una “forte impronta dell’autonomia” diventava la sfida per un Pci che non poteva più pensare di rinchiudersi nella antiche certezze del suo monolitismo organizzativo e della riproposizione della centralità operaia. Emergevano infatti fenomeni nuovi, che non potevano essere ricondotti agli schemi passati, modi stessi di agire politicamente fuori dal perimetro dei partiti tradizionali e delle istituzioni – come ad esempio il volontariato – che richiedevano un mutamento del piano del ragionamento stesso dell’azione politica.

Il Centro per la riforma dello Stato si mosse in questa direzione assumendo la dimensione europea come terreno di confronto con le esperienze della sinistra anche di governo, e quindi anche quella socialdemocratica, e guardando verso il Mediterraneo visto come luogo centrale per il movimento pacifista. È all’interno di questo quadro complesso ed articolato che matura la proposta ingraiana al suo partito, per uscire dall’immobilismo in cui era caduto, di un governo costituente che affrontasse organicamente il tema di una riforma costituzionale, incentrata da un lato sulla consapevolezza ormai maturata dell’impossibilità per i partiti tradizionali di rappresentare le nuove soggettività, e parallelamente di tradurre queste spinte in positivo, convogliandole verso un allargamento della qualità della democrazia, e superando così il mero conservatorismo istituzionale impostosi nello stesso Pci.

Ne scaturiva una proposta fortemente innovativa: “disponibilità a un riesame del sistema elettorale, richiesta di una pluralità di poteri popolari diretti (iniziativa di legge, referendum non più solo abrogativi), e poi strumenti di controllo dal basso attraverso una politica di ‘carte dei diritti’. Ma soprattutto”, come scrive Giuseppe Cotturi, “era rilevante il disegno di un processo concreto, sperimentabile e sotto il controllo democratico” (p. 96).

Complessivamente, dinanzi a queste proposte il Partito Comunista ribadì la sua sostanziale chiusura. Al problema del rapporto con i nuovi soggetti rispose con la sua definitiva trasformazione in partito degli amministratori e dei funzionari, di fatto partecipando a quel processo di separazione tra sistema politico e società che caratterizzò gli anni Ottanta. Di fronte alla incipiente crisi istituzionale rivelatasi poi nella sua dimensione reale con Tangentopoli, il Pci a quel punto occhettiano decise di rispondere con la scelta in favore della mera riforma elettorale schierandosi per l’uninominale, credendo di poter compensare in termini di recupero lideristico la marginalizzazione del sistema dei partiti che ne derivava. Si gettavano le basi così per l’uscita a destra dalla crisi, contribuendo a costruire le premesse del berlusconismo.
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Dopo il social-liberismo​

18/11/2016
​Marco Palazzotto intervista Marco Veronese Passarella

​Negli ultimi decenni abbiamo assistito all’affermazione di quell'indirizzo politico ed economico, tipico del capitalismo contemporaneo, chiamato “neoliberismo”. Secondo il sentire comune questa fase ha influenzato in senso liberista le politiche economiche dei maggiori produttori al mondo. In realtà si può rilevare, soprattutto in ambito accademico, che la scuola di pensiero che ha influito di più sulle decisioni politiche non è proprio quella liberale: anzi se di pensiero dominante si può parlare, soprattutto nelle scienze economiche, quella che emerge di più è la cosiddetta scuola neo-keynesiana (di cui fanno parte, ad esempio, Blanchard, Krugman, Stiglitz, Mankiew, ecc.). In alcuni tuoi recenti lavori ti sei occupato del “New Consensus” ed in particolare dei modelli DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium). Ci potresti descrivere per sommi capi di cosa si tratta?
     

È una domanda che tocca molti aspetti critici. Provo ad elencarli e commentarli brevemente. Anzitutto, non darei per scontato che ciò che abbiamo osservato negli ultimi decenni sia interamente ascrivibile al “neoliberismo”. Al fronte neoliberista si è per anni contrapposto un fronte social-liberista, in certe fasi maggioritario, che accarezzava l’illusione di poter gestire la globalizzazione capitalistica ed i connessi processi di finanziarizzazione attraverso la lotta ai monopoli, l’estensione dei diritti civili ed alcune timide politiche redistributive, dato il doppio vincolo posto dal bilancio pubblico e dai conti esteri. Quel fronte ha conosciuto proprio la settimana scorsa l’ultima delle proprie sconfitte recenti, nelle elezioni americane. Sulla distinzione neoliberismo, social-liberismo e liberismo sans phrase hanno scritto estesamente Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi, per cui mi fermo qui. Passo così al secondo punto. Pressoché tutti gli economisti di rilievo che si sono succeduti da William Petty a Joseph Stiglitz sono definibili come “liberali”, nel senso che afferiscono al liberalismo inteso come filosofia o dottrina politica che mette al centro le libertà e i diritti naturali dell’individuo. Le eccezioni non sono mancate naturalmente (Piero Sraffa e Richard Goodwin erano socialisti, e lo stesso vale per “l’ultima” Joan Robinson), ma si sono spesso declinate a “destra” (si pensi a Milton Friedman e soprattutto a Friedrich Hayek e alla Scuola Austriaca che, certo, erano liberisti, ma hanno dato vita ad una corrente oggi minoritaria e comunque estrema e controversa del liberalismo in economia). Terzo, in ambito accademico la corrente di pensiero oggi dominante è quella dei New Keynesians (da non confondere con i vecchi esponenti della Sintesi Keynesiano-Neoclassica, di cui i primi sono semmai, e solo per alcuni versi, gli eredi). I New Keynesians accettano tutte le premesse del paradigma che ha dominato la scienza economica a partire dalla controrivoluzione monetarista (cominciata alla fine degli anni Cinquanta e portata a compimento alla fine degli anni Settanta) e che ha dato origine ai modelli denominati appunto DSGE: la necessità di ricondurre la dinamica delle variabili macroeconomiche al comportamento massimizzante di un agente rappresentativo; le aspettative razionali degli agenti; l’equilibrio naturale del sistema (in termini di prodotto nazionale ed occupazione, determinati in ultima istanza da tecnologia, disponibilità di risorse e sistema di preferenze degli agenti) inteso come attrattore di lungo periodo; infine, la riconduzione dell’origine delle fluttuazioni del sistema a shock stocastici. A differenza dei loro predecessori, però, i New Keynesians non accettano la conclusione secondo cui la crisi e i cicli economici che si osservano nel mondo “là fuori” nascerebbero unicamente da politiche monetarie inattese (come sostenuto dagli esponenti della Nuova Macroeconomia Classica) ovvero da salti tecnologici (come sostenuto dagli esponenti della scuola del Ciclo Economico Reale). Questo perché, a differenza di quanto ipotizzato dai loro colleghi “monetaristi”, per i New Keynesians il mondo reale sarebbe caratterizzato da asimmetrie informative, rigidità salariali, vischiosità dei prezzi, imperfezioni dei mercati dei capitali e posizioni di oligopolio nei mercati di beni e servizi che interferiscono con le forze spontanee della concorrenza. Sennonché, una volta che il modello base viene emendato per tener conto di tali “frizioni”, la politica monetaria conquista il centro della scena: in un mondo di prezzi vischiosi, il livello del tasso di interesse monetario di riferimento influenza direttamente il tasso di interesse reale e dunque le decisioni degli agenti economici (i quali, proprio sulla base di quel tasso, decidono come allocare inter-temporalmente consumi, lavoro e tempo libero, determinando così il prodotto nazionale). Non solo, ma se esiste un equilibrio naturale del sistema, allora esiste anche un tasso di interesse reale naturale che consente il raggiungimento ed il mantenimento di tale equilibrio. Compito della banca centrale è allora quello di fissare il tasso di interesse monetario che, sulla base del tasso di inflazione corrente e atteso, consente di stabilizzare il sistema in un intorno del suo equilibrio naturale, in cui il prodotto nazionale corrisponde a quello potenziale, il tasso di disoccupazione si assesta al suo livello naturale e l’inflazione rimane stabile. Ecco perché le banche centrali devono essere sottratte al controllo politico dei governi e financo alla sorveglianza democratica dei parlamenti. Così come la misura della costante gravitazionale non è, e non deve essere, oggetto di dibattito democratico, ma va invece determinata in piena autonomia dalla comunità dei fisici, allo stesso modo il tasso di interesse naturale deve essere determinato “scientificamente” dagli uffici studio delle banche centrali. Diversamente, ragioni di mera convenienza elettorale finirebbero per interferire con la stabilizzazione del sistema nel breve periodo, lasciando in eredità inflazione (o deflazione) eccessiva nel lungo periodo. Inoltre, se è vero che nel lungo periodo il sistema si riporta sempre sul sentiero di equilibrio, è altrettanto vero – riconoscono tra le righe i New Keynesians – che il breve periodo può essere assai meno breve di quanto ipotizzato dai colleghi “monetaristi”. Per questo la politica monetaria non viene mai realmente accantonata. Per contro, l’unico effetto di lungo medio-periodo della politica fiscale è quello di turbare le aspettative degli agenti economici con esiti destabilizzanti sull’intero sistema. Ad esempio, l’unico effetto permanente di una politica fiscale espansiva (diciamo, di maggiore spesa pubblica) è un livello di inflazione più elevato ed uno spiazzamento dell’iniziativa privata. Naturalmente, quanto detto regge soltanto nella misura in cui si accettino le premesse su cui il modello base è costruito, in particolare quella di un equilibrio naturale esogenamente dato che funge da attrattore di lungo periodo del sistema. Se così non fosse, se cioè, per esempio, i livelli correnti di produzione e di occupazione influissero su quelli futuri (fenomeno che nel gergo scientifico viene chiamato “isteresi”), allora la politica fiscale non soltanto tornerebbe ad essere efficace ma sarebbe persino auspicabile per stabilizzare il sistema. Questo perché, in tale scenario, la produttività di domani dipende dagli investimenti di oggi e questi, a loro volta, dipendono dal livello di domanda fronteggiato oggi (o atteso) dalle imprese – e questo tanto più in periodi caratterizzati da un rapido mutamento tecnologico. Lo stesso vale per la capacità del sistema di formare e attrarre manodopera adeguata alla struttura produttiva. Che è poi quello che alcuni New Keynesiansiniziano oggi a (ri)scoprire nelle loro pubblicazioni, a seguito delle crisi recenti e dei ripetuti errori di previsione circa l’andamento delle principali variabili macroeconomiche dei paesi più duramente colpiti dalle crisi. Alcuni studiosi si sono spinti fino ad abiurare la modellistica dominante e in molti invocano oggi maggiore pluralismo nella ricerca. La crisi del social-liberismo sembrerebbe insomma aver intaccato anche la sua sovrastruttura scientifico-ideologica, o almeno alcuni dei suoi capisaldi. È, tuttavia, ancora troppo presto per capire se siamo alle soglie di una nuova rivoluzione in macroeconomia. I segnali incoraggianti non mancano, ma la storia ci consiglia di essere molto cauti. Le rivoluzioni di solito si fanno prima “là fuori”. 
 
Il tuo sito internet (www.marcopassarella.it/it/) è intitolato: MARXIANOMICS. Sembra che il pensiero di Karl Marx abbia influito in maniera potente sulla tua formazione. Ci spieghi perché secondo te oggi, per uno studioso di scienze sociali, è importante ancora studiare il pensiero di un intellettuale che è vissuto nel XIX secolo, da molti ormai considerato superato?
    

Il nome del mio sito gioca sull’associazione con blog ben più noti del mio gestiti da economisti ben più noti di me – oltre che, naturalmente, sulla rivendicazione di una radice marxista nel mio lavoro e in generale nella mia formazione di militante politico prima ancora che di macroeconomista. Venendo a Marx, la sua grandezza sta paradossalmente proprio nella sua “inattualità”. L’analisi di Marx, come quella di altri grandi pensatori del passato, è strutturata su più livelli. A grandi linee, possiamo individuare, al livello più basso, l’analisi concreta della situazione concreta del proprio tempo, spesso legata alle necessità politiche contingenti, e, a quello più alto, l’analisi astratta delle leggi di movimento (o della fisiologia) del sistema di produzione capitalistico. Il primo livello, per definizione, ha una precisa connotazione storico-geografica e, con alcune eccezioni, può essere abbandonato senza troppi rimpianti alla critica roditrice dei topi. Per contro il secondo livello, proprio perché astratto e apparentemente sempre inattuale, è in realtà attualissimo. Perché? Perché è Marx che ci mostra come lo scambio individuale tra eguali sul mercato dissimuli sempre uno scambio sociale ineguale nella produzione. È Marx che svela l’origine del profitto per la classe dei capitalisti e dunque dell’accumulazione di capitale, che è da ricondurre allo sfruttamento dei lavoratori impiegati nella manifattura e in altri “prolungamenti della produzione nella circolazione”, come il settore dei trasporti. È ancora Marx che mette in luce il nesso fondamentale tra moneta, valore e lavoro, e che riflette per primo sul ruolo della finanza come “acceleratore” dei processi di realizzazione del valore, ma anche, al contempo, di intensificazione dello sfruttamento nella produzione. Infine, è Marx che dà un contributo decisivo all’analisi Classico-Ricardiana della natura conflittuale dei rapporti di classe – tra salariati e capitalisti e, all’interno della classe dominante, tra capitali a differente base nazionale o tra capitalisti industriali e rentier. Su questi e su altri aspetti il contributo di Marx rimane insuperato. Nel mio caso le sue opere hanno cambiato in modo permanente il modo in cui guardo alla realtà. Non relazioni tra cose, ma relazioni tra classi sociali. Non questo o quell’oggetto specifico, ma gelatina di lavoro passato. Un’enorme matrice di cristallizzazioni di lavoro morto continuamente alimentata da un vettore di lavoro vivo: questo è il mondo là fuori filtrato attraverso le lenti marxiane. Un mondo affascinante e terrificante al tempo stesso. Un mondo che spero prima o poi di contribuire a sovvertire.       
 
Spesso mi capita di leggere in alcuni tuoi post la necessità di rimarcare la tua origine di immigrato in Inghilterra. Considerato che ti trovi da diversi anni a Leeds come hai vissuto da immigrato, e come vedi da economista, il voto su BREXIT?
    

In realtà quel voto non mi ha colto impreparato, almeno non totalmente. Sebbene ritenessi erroneamente che l’omicidio della deputata laburista avvenuto proprio a Leeds nell’imminenza del voto avesse deciso le sorti del referendum in senso favorevole al “remain”, ero stato avvertito da alcuni compagni che il fronte dell’uscita poteva contare sul consenso di ampi strati della popolazione. E del resto ogni volta che gli elettori europei sono stati chiamati ad esprimersi su questioni analoghe, l’esito è sempre stato lo stesso: un voto di sfiducia e di protesta contro le istituzioni europee. E, sì, certo qui in Inghilterra hanno pesato molto le paure della popolazione nativa circa l’impatto di “noi” immigrati sulle loro condizioni materiali di vita e di lavoro. D’altra parte, se quelle paure non sono totalmente infondate (almeno per quella parte della forza lavoro inglese meno qualificata e dunque più esposta alla pressione dei lavoratori immigrati sui salari e soprattutto su trasporti, abitazioni ed altri servizi essenziali), sono state però artificialmente alimentate dalla propaganda irresponsabile del Partito Conservatore, finalizzata a sottrarre consensi allo UKIP. Ciò detto, qui a Leeds non è cambiato molto, almeno per me. Non ho colto alcun segnale di quella recrudescenza di sentimenti di intolleranza verso gli immigrati avvertiti da altri non-britannici (e segnalata più volte dal Guardian ed altre testate progressiste), ed anzi ho notato piuttosto una sorta di senso di vergogna diffuso presso gli strati più istruiti della popolazione inglese. Venendo agli aspetti squisitamente macroeconomici, è ancora troppo presto per trarre delle conclusioni sugli effetti della Brexit. Di certo c’è che il Regno Unito è il paese che più aveva da perdere e meno da guadagnare dall’uscita dall’Unione Europea, visto lo status speciale di cui godeva e la natura della sua struttura produttiva. Come è noto, la sterlina si è deprezzata verticalmente rispetto alle altre principali valute mondiali dopo la divulgazione dell’esito referendario. Era probabilmente sopravvalutata prima del referendum, ma la caduta è stata nondimeno impressionante. Questo peraltro non ha innescato, almeno per ora, fughe massicce di capitali. Né, sul fronte opposto, c’è da farsi troppe illusioni sull’effetto positivo che il deprezzamento della sterlina potrà avere sulla bilancia commerciale inglese, visto il ridimensionamento della struttura produttiva inglese e considerate le sue interdipendenze con altri paesi europei. In ogni caso, consumi e investimenti hanno retto sorprendentemente bene il colpo, almeno per ora. Anche i segnali provenienti dagli indici borsistici sono, tutto sommato, positivi o almeno non allarmanti. Certo proprio la debolezza della sterlina potrebbe portare ad una crescita dell’inflazione nei prossimi mesi, con possibile ulteriore compressione di salari già stagnanti in termini reali. Tuttavia, la disoccupazione rimane molto bassa, specie tra i lavoratori qualificati, e chi fugge da Italia, Spagna o Grecia trova qui condizioni di lavoro comunque non paragonabili con quelle del proprio paese di origine. Purtroppo. Resta da capire quali effetti avranno la vittoria di Trump negli Stati Uniti, il referendum costituzionale italiano di dicembre e la “rivincita” delle presidenziali in Austria. Insomma, se il voto inglese vi era piaciuto, gli appuntamenti elettorali prossimi venturi vi entusiasmeranno. Procuratevi una copia del Capitalee allacciate le cinture. La Storia si è rimessa in moto. Ma non chiedetemi di fare previsioni sulla destinazione. 


Marco Veronese Passarella è docente di economia presso la Leeds University Business School. I suoi interessi di ricerca includono le teorie dei prezzi e della distribuzione, la dinamica macroeconomica, l’economia monetaria e la storia del pensiero economico. Fa parte della redazione della rivista online “Economia e Politica” ed è membro del gruppo Reteaching Economics.
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DANIELE CONTRO I BUROSAURI? 

15/11/2016
di Pavlov Dogg 

Tra i molti meriti di Io, Daniel Blake – la storia di un carpentiere cardiopatico che si vede negare l’indennità di malattia - il principale è quello di aver saputo confondere le idee all’avversario di classe, perlomeno in patria. Plateale a tal proposito la reazione della critica del Sunday Times Camilla Long che, in una tipica recensione dettata più dai propri pregiudizi che da una effettiva considerazione del film, ha parlato di “safari in mezzo ai poveri per filantropi middle-class” e di “pornografia della miseria”. In realtà, i meccanismi di identificazione tra spettatore relativamente agiato e personaggi “sfigati” che il regista Ken Loach cerca e trova sono lontanissimi tanto da quelli della “visita guidata” che da quelli del titillamento usa-e-getta. Una delle prime scene-madri del film ruota intorno all’esperienza frustrante e potenzialmente angosciante dell’attesa infinita di poter parlare con l’operatore di un Numero Verde (qui peraltro la chiamata non è manco gratis), mentre la musichetta d’ordinanza si accanisce sugli organi riproduttivi di chi rimane in attesa: è capitato a quasi tutti, indipendentemente dalla classe sociale, tranne forse al proverbiale “1%”, che ha la possibilità di far invecchiare al telefono i propri dipendenti. Si cementa così subito una solidarietà tra il pubblico e Daniel che resiste anche quando il protagonista del film precipita suo malgrado in una condizione lumpenproletaria: non è un caso, peraltro, che nell’unica scena di aperta ribellione, quando Blake scrive con la bomboletta spray sul muro del Jobscentre, la seconda frase – grazie alla quale esplode l’ilarità dei passanti, che cominciano così a parteggiare per lui – sia: “E cambiate quella musica di merda nel telefono”.

Chiarito questo punto, Loach va difeso anche dalla critica di sinistra, che ne approva le intenzioni e la “carica umana” ma spesso gli rimprovera di non disporre di un linguaggio “personale”. Tutto al contrario, a me pare si possa addirittura parlare di un vero e proprio manierismo loachiano, caratterizzato fra l’altro dall’anti-climax espositivo proprio dei passaggi più patetici dal punto di vista del contenuto. E anche in Io, Daniel Blake l’emotività è spesa soprattutto riguardo alle piccolissime cose (la defunta compagna di Dan che aveva registrato su cassetta la sigla musicale del Bollettino del Mare, il taroccaro cinese che si esalta per il gol dalla propria metà campo del giocatore “fuori moda” Charlie Adam), laddove nei momenti di maggior pathos potenziale subentra una certa laconicità nord-britannica, che curiosamente recupera a modo suo qualcosa dell’estraniamento brechtiano.

Detto questo, dobbiamo concludere che nel film tutto funzioni alla perfezione, che vi si svolga un discorso assolutamente limpido? Se rispondessi affermativamente non sarei onesto: ma non è certo “colpa” del regista se il momento attuale – segnato da un’enorme confusione economica, sociale, politica, ideologica e dunque anche artistica – non è il più propizio ad un cinema “di denuncia” che colga pienamente nel segno. E Loach questo lo sa benissimo, se è vero che l’unico discorso che si vorrebbe esplicitamente “politico” di tutto il film viene posto in bocca a un pittoresco e in ultima analisi ininfluente mezzo ubriacone da strada. La stessa immedesimazione – cercata e trovata, lo ripeto – con lo spettatore “borghese” è un risultato positivo che tuttavia non può far sparire d’incanto tutte le ambiguità, e implicitamente corre una serie di rischi: il più macroscopico dei quali è quello di aver voluto girare un film “contro l’Austerity” per poi ritrovarsi in mano un film “contro la Burocrazia”. Puntualmente non meno di una dozzina di recensioni del film uscite in Italia portano proprio questo titolo, e quella dell’Indice dei Libri si è spinta ad additare nella “burocrazia dell’epoca del Welfare” (manco fossimo negli anni Cinquanta e non nell’era dei tagli alla spesa pubblica) il bersaglio del film; mentre dal canto suo Giorgio Carbone su Libero – non avendo lo stesso problema della critica conservatrice inglese, cioè di difendere anche solo in maniera obliqua la propria classe dominante nazionale – tesse le lodi di Io, Daniel Blake e ha buon gioco a trarne la seguente ‘morale della favola’: “il Welfare è palesemente inadeguato e non tutela più, come si diceva una volta il cittadino ‘dalla culla alla bara’.Un’opinione che possiamo non condividere (e, soprattutto, sappiamo dove va a parare) ma che non si può assolutamente definire una “forzatura” del film se, come sempre, bisogna credere più alla storia che a chi la racconta. Tra le non illegittime “conclusioni” politiche che si potrebbero trarre dalla vicenda narrata da Loach e dallo sceneggiatore Paul Laverty, ci potrebbe perciò essere (a destra) quella di un “Aboliamo i sussidi, disarmiamo la burocrazia, facciamoci tutti le assicurazioni private, lavoro-guadagno-pago-pretendo”. Mentre da una prospettiva di centro-sinistra si potrebbe riproporre un Basic Income che però – come dovrebbe far sospettare, ad esempio, la realtà tedesca – non esclude affatto (anzi…)  forme di coercizione al lavoro, che sarebbero peraltro gestite dalla… burocrazia.

Certo: Ken Loach si è poi speso a “spiegare” il film, ha rilasciato interviste specificando che le umilianti torture amministrative cui è sottoposto Daniel fanno parte di una deliberata “politica aziendale” da parte Tory, volta a scoraggiare gli utenti di questo famoso Welfare, così da demolirlo ancora un po’. Ma che tale spiegazione sia stata necessaria (e va anche detto che la logica “aziendale” inizia a regnare nel Department for Work and Pensions già con il New Labour) lungi dal fugarli, rafforza i “sospetti” (a livello di impatto sullo spettatore, beninteso) che ho avanzato sopra. E rispetto a questa possibile deriva non mi pare abbia giovato mettere in scena due personaggi rigidamente contrapposti come le due funzionarie del Jobscentre: la “stronza” e la “buona”. Distribuire più equamente tra i due personaggi stronzaggine e bontà avrebbe forse permesso di alludere alla regia politica che sta dietro i comportamenti apparentemente sadici o inutilmente “comprensivi” di chi amministra l’erogazione dei sussidi in Gran Bretagna. Ma queste, come direbbe Bruno Pizzul, sono osservazioni che si fanno “standosene comodamente seduti in tribuna”. Il valore e la forza di Io, Daniel Blake restano tutte: come ha scritto Roberto Silvestri, “si entra proprio nella pelle di Daniel Blake”, e scusate se è poco. Infine: due Palme d’Oro in carriera, per il regista di Kes, Poor Cow, The Golden Vision e Riff Raff, forse sono pure poche.
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Pavlov Dogg ringrazia Bill Sheppard per le spiegazioni e Alessandro Locatelli per i Burosauri.
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LE (VERE) RAGIONI DEL SI. Perché la riforma costituzionale è necessaria, e pure l'Italicum

11/11/2016
di Vincenzo Marineo 

Parola del Governo
Aveva le idee chiare chi ha scritto il testo con il quale il Governo ha presentato al Senato, l’8 aprile del 2014, la legge di riforma costituzionale [1].

Ecco come sono state spiegate le ragioni della riforma: “Lo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea […] e alle relative stringenti regole di bilancio […]; le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale; le spinte verso una compiuta attuazione della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione […], e l’esigenza di coniugare quest’ultima con le rinnovate esigenze di governo unitario della finanza pubblica connesse anche ad impegni internazionali: il complesso di questi fattori ha dato luogo ad interventi di revisione costituzionale rilevanti, ancorché circoscritti, che hanno da ultimo interessato gli articoli 81, 97, 117 e 119, della Carta, ma che non sono stati accompagnati da un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione europea, Stato e Autonomie territoriali, entro il quale si dipanano oggi le politiche pubbliche.” [2] Occorre allora “uno sforzo riformatore lungimirante e condiviso, che sappia tenere assieme in modo coerente le riforme costituzionali, elettorali, dei regolamenti parlamentari e i conseguenti ulteriori interventi sul piano istituzionale, regolamentare e amministrativo”. [3]

Ma, si dirà, queste sono solo belle parole. No, bisogna dare atto al Governo che la riforma fa un deciso passo in avanti verso l’adeguamento dell’ordinamento interno alle esigenze della “governance economica europea”, della “internazionalizzazione delle economie” e della “competizione globale”.

Il passo in avanti si rivela tanto più lungo e deciso se consideriamo gli armoniosi effetti che avrà l’intima consonanza della riforma costituzionale con la nuova legge elettorale; consonanza negata nella propaganda, ma apertamente dichiarata nelle parole del Governo.
 
“Ci vogliono poteri spicci e sbrigativi”
Per renderci conto che il Governo sta operando coerentemente ed efficacemente occorre chiarire quali sono gli ostacoli che si frappongono al compiuto adeguamento ai cambiamenti del sistema economico, ed entrare poi nel merito delle riforme per vedere come tali ostacoli siano stati finalmente rimossi.

Chiunque abbia a cuore le sorti del capitalismo sa che oggi, indipendentemente da quali siano le soluzioni che si ritengono più adatte ed efficaci per la sua sopravvivenza, ci vogliono, come ha detto Raniero La Valle, “poteri spicci e sbrigativi”. [4]

Il senso di tale affermazione è illustrato in uno studio – maggio 2013 – della banca d’affari statunitense J. P. Morgan [5], che individuava i difetti delle Costituzioni dei paesi periferici dell’Unione Monetaria Europea, constatando in esse “una forte influenza socialista”, rintracciabile in queste loro features (“caratteristiche”): “esecutivi deboli, stati centrali deboli rispetto alle regioni; protezione costituzionale dei diritti del lavoro; sistemi di costruzione del consenso che incoraggiano il clientelismo politico; il diritto di protestare contro modifiche sgradite dello status quo.” [6]

Queste caratteristiche si sono rivelate dei difetti, perché i governi di Portogallo, Spagna, Italia e Grecia, stretti dai vincoli delle loro Costituzioni, hanno potuto realizzare solo parzialmente le riforme fiscali ed economiche necessarie.
Nella riforma costituzionale (e, insieme, nell’Italicum) troviamo i provvedimenti che rimediano a molti dei difetti segnalati.
Nel nuovo Senato delle Autonomie è prevedibile che i suoi membri, a causa del doppio incarico, avranno meno tempo dei loro predecessori per dedicarsi all’attività legislativa, e ai lavori di commissione, indispensabili per evitare che le votazioni in aula diventino un “giudizio di dio”, soggetto alla maggioranza del momento.

Resta ancora la Camera dei Deputati, ma lì il “voto a data certa” (nuovo art. 72) consentirà al Governo di regolare opportunamente l’agenda del Parlamento, la cui maggioranza è comunque costituita da esponenti del partito del Presidente del Consiglio.

Con la “clausola di supremazia” (nuovo art. 117) il Governo potrà poi, se lo desidera, scavalcare gli organi rappresentativi regionali e far intervenire la legge statale su materie e funzioni che non sono di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Inoltre, come previsto dall’Italicum, l’indicazione sulla scheda elettorale del “capo della forza politica” [7] crea una sorta di investitura diretta del Presidente del Consiglio, e il premio di maggioranza rende il conferimento dell’incarico da parte del Presidente della Repubblica una semplice formalità; il Presidente del Consiglio potrà godere di una legittimazione personale e diretta da parte degli elettori (e questo anche se i suoi elettori potranno essere una minoranza nelle urne, trasformata poi in maggioranza di seggi).

La stessa legge elettorale provvede a modificare l’indipendenza degli "organi di controllo”, intervenendo sulle modalità di elezione del Presidente della Repubblica e, a cascata, sulla scelta dei membri della Corte Costituzionale e del Consiglio superiore della Magistratura.

Nel nuovo articolo 117, comma 7, si è infine sentito il bisogno di modificare il precedente testo, che parlava di “tutela della concorrenza”, trasformandolo in “tutela e promozione della concorrenza”. Un piccolo ritocco, che meriterebbe però la sua attenzione.

Sono tutti aspetti qui solo brevemente elencati, ma ampiamente analizzati nel dibattito critico che si è sviluppato intorno alle riforme, spesso con sottolineature diverse, volte anche a evidenziare incongruenze e incoerenze presenti nei testi. Ma gli esiti complessivi sono chiari.

Siamo di fronte a un “processo organico di riforma” che va ben al di là dei (peraltro marginali) risparmi sui costi della politica, della riduzione del numero dei parlamentari, o dell’abolizione del CNEL, ampiamente usati come ragioni-civetta a favore del sì. Nella nuova «architettura istituzionale» si sposta l’equilibrio dei poteri a favore dell’esecutivo e a sfavore del Parlamento. Lascia interdetti l’ostinazione con la quale ciò viene negato dai sostenitori del sì; non si capisce infatti allora da dove proverrà la promessa maggiore governabilità.
 
Chi deve votare per il sì?
Il sì al referendum del 4 dicembre, anche quello di chi crede di votare per la riduzione dei costi della politica, punta alla fine a uno scopo univoco: la nuova architettura istituzionale. Chi e come la userà non si sa (e qualche dubbio sull’Italicum affiora infatti anche nel PD), ma nelle intenzioni di chi la sta realizzando essa serve a potere consolidare un progetto di soluzione della crisi che non mette in discussione il percorso di questa Unione Europea, né, più in generale, la visione di uno Stato che si limita a regolare, assecondandolo, il presunto naturale funzionamento dei mercati.

Le riforme delle istituzioni sono necessarie per potere fare le altre riforme, a farle sino in fondo, per proseguire senza difficoltà sulla via già intrapresa con l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, con il Jobs Act, con la riforma delle pensioni, con la “buona scuola”, cui occorrerà far seguire la privatizzazione della sanità, dei servizi pubblici, vendite di beni demaniali, e quant’altro sarà necessario.

Chi reputa tutto ciò una cosa buona, dovrebbe convintamente votare sì. Il sì viene presentato come un voto per il cambiamento, ma è esattamente un voto per potere continuare sulla strada intrapresa già da prima che l’attuale governo fosse in carica, e per l’accettazione del sentiero di sottosviluppo lungo il quale l’attuale governo sta cercando di guidare, senza troppi scossoni, l’Italia.
Ambiguo è invece il no. Berlusconi e Brunetta fanno propaganda per il no, ma propongono in cambio una loro riforma, veramente sgangherata, che comprende il dimezzamento del numero dei parlamentari e l’introduzione del vincolo di mandato [8]. Anche Monti voterà no (ma lo farà da liberista) perché, così dice, non gli piace il modo in cui Renzi sta raccogliendo il consenso intorno al suo progetto [9]; probabilmente sta scommettendo sulla vittoria del no, nella speranza di potersi eventualmente presentare di nuovo, in qualche modo, sulla scena politica.

È chiaro che tutti i no sono benvenuti, ma dopo il voto occorrerà tenere presente il significato di ciascuno di essi.

Una vittoria del sì stabilizzerebbe, come dicevamo, un progetto per l’Italia, quello dell’attuale governo, e metterebbe il paese su un piano inclinato di cui è difficile vedere la fine: se, come è prevedibile, la crisi si aggraverà, un governo dotato di ampi poteri ma senza una sostanziale rappresentatività si troverà a fronteggiare un crescente malessere sociale. Queste riforme diminuiranno la legittimazione e la rappresentatività delle istituzioni, togliendo responsabilità al cittadino tra una elezione e l’altra, riducendo il ruolo dei corpi intermedi, incanalando l’insoddisfazione e la protesta da un lato verso sterili populismi e dall’altro verso forme radicali, di destra o di sinistra. Queste ultime richiederanno una maggiore dose di autorità, di fermezza, la pretesa governabilità richiederà più governabilità.

Ma, al di là dei singoli aspetti che abbiamo considerato e delle loro conseguenze, la stessa iniziativa della riforma costituzionale è, in sé, politicamente significativa; l’averla proposta adesso, a un Parlamento (eletto con una legge poi dichiarata incostituzionale) che si sapeva già essere profondamente diviso, in un paese altrettanto diviso (niente di più lontano insomma da uno “spirito costituente” simile a quello del ’48), non è stato, come a volte si ritiene, né sconsiderato né innocente.

Le incompatibilità tra la Costituzione e i Trattati europei sono sostanziali; una su tutte: mentre la Costituzione pone al centro il lavoro, la “governance economica europea”, quella di cui parla Renzi e che è fissata nei Trattati, ha invece come obiettivo primario il controllo dell’inflazione.

La Costituzione è quindi già nei suoi principi una difesa contro le pretese egemoniche degli organismi istituzionali – l’UE e l’Euro – che stanno realizzando il nuovo ordine capitalistico; ma essa è ancor prima il fondamento condiviso della coscienza collettiva di far parte di un unico organismo istituzionale entro il quale ha senso parlare di diritti, è un elemento essenziale del “patriottismo costituzionale”. Ora, comunque vada, vincano i sì o vincano i no, la Costituzione verrà indebolita proprio in questa sua funzione: resterà la Costituzione non degli italiani, ma di una parte degli italiani, e verrà meno la sua funzione di riferimento indiscusso e indiscutibile per la resistenza alla governance europea e al nuovo ordine globale. Qui siamo al di là delle (vere) ragioni del sì; siamo alle ragioni della stessa proposizione della riforma. Il danno, in questo senso, è già fatto.

Si tratta, ormai, di difendere lo spazio della democrazia, dentro il quale poter continuare a esercitare il conflitto sociale.


 
[1] https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/302471.pdf
[2] ivi, pag. 2
[3] ivi, pag. 3
[4] http://ranierolavalle.blogspot.it/2016/09/la-verita-sul-referendum.html
[5] https://culturaliberta.files.wordpress.com/2013/06/jpm-the-euro-area-adjustment-about-halfway-there.pdf
[6] ivi, pag. 12
[7] Art. 14-bis – 1. Contestualmente al deposito del contrassegno di cui all’articolo 14, i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma  elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica.
[8] Vedi il sito http://www.comitatoperilno.it/; da non confondere con il comitato per il no promosso dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, e presieduto da Alessandro Pace, il cui sito è all’indirizzo http://www.referendumcostituzionale.online/
[9] Intervista a Monti del 18 ottobre 2016: http://www.corriere.it/politica/16_ottobre_18/mario-monti-perche-votero-no-referendum-costituzionale-8546db02-94b6-11e6-97ea-135c48b91681.shtml 

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SWEET BLACK ANGEL. Autobiografia ​di una rivoluzionaria 

9/11/2016
di Giovanni Di Benedetto

​Well, she isn’t no singer
And she isn’t no star
But she sure talk good
And she move so fast
But the gal in danger
Yeah, the gal in chains 
But she keep on pushing

Rolling Stones, Sweet black angel

Sull’edizione online del New York Times del 3 Novembre scorso, in un articolo intitolato Voters Express Disgust Over U.S. Politics in New Times/CBS Poll Jonathan Martin, Dalia Sussman e Megan Thee-Brenan hanno sostenuto, sulla base di un recente sondaggio della CBS, che la stragrande maggioranza dell’elettorato americano sarebbe stata, letteralmente,disgustata dalla campagna presidenziale. Otto elettori su dieci avrebbero detto che la campagna elettorale è stata di una volgarità respingente e caratterizzata da una crescente tossicità. Ma, soprattutto, è emerso che “Mrs. Clinton, the Democratic candidate, and Mr. Trump, the Republican nominee, are seen as dishonest and viewed unfavorably by a majority of voters” (sia la Clinton, il candidato democratico, che Trump, il candidato repubblicano, sono visti come disonesti e considerati sfavorevolmente dalla maggioranza dei votanti). In queste considerazioni sconfortanti di uno dei più importanti e autorevoli quotidiani americani, che emergono comunque da dati di sondaggi, quindi non si sa quanto attendibili, si condensa tutto il deficit di democrazia, ma anche l’insufficiente opposizione concreta e visibile, che caratterizza ormai in termini cronici, lo scenario politico statunitense. Soprattutto, si manifesta l’assenza della politica, ossia di quella pratica che, pur partendo da interessi parziali, possa configurarsi come forma dell’agire pubblico e comune in grado di cogliere i problemi della società per affrontarli e, eventualmente, risolverli.   

Eppure, ci sono stati anni in cui il mondo dei subalterni si opponeva, anche negli Stati Uniti, alle classi dominanti elaborando pratiche e pensieri autonomi, conflittuali e produttivi di risultati efficaci e vincenti. Era il tempo in cui, per esempio, si affermava, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del secolo scorso, la tradizione radicale nera, una tradizione in grado di elaborare strategie politiche, culturali e storiche di straordinaria importanza. A darcene testimonianza, ancora oggi, a circa mezzo secolo di distanza e al tempo delle elezioni presidenziali più triviali e grottesche della storia americana, è Angela Davis, con la sua Autobiografia di una rivoluzionaria ripubblicata dalla casa editrice Minimum fax nel corrente 2016. Vale la pena rileggere questo testo, che condensa in sé pagine di intensa letterarietà memorialistica e squarci di lucido e quasi dottrinale insegnamento politico, perché in esso si rifrange l’abissale distanza che separa i drammatici problemi della società americana dalla messa in scena del casting per il nuovo presidente.      

Per altro, non si tratta soltanto della possibilità, consentita dal libro, di procedere alla ricostruzione storica dello scenario politico-sociale degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del Novecento, anni nei quali si sviluppano “movimenti sociali e comportamenti collettivi di opposizione, di varie durate ed estensioni e inseriti in un contesto politico-culturale mondiale, che cercano di intervenire sulla realtà per alterarla più o meno profondamente” (Bruno Cartosio, Gli “anni Sessanta” di cui si parla: politica e movimenti sociali, ÁCOMA, Rivista Internazionale di Studi Nordamericani vol. 15, p.7, 1999) ma, altresì, di offrire un punto di vista acuto sui contesti di sfruttamento economico, oppressione razziale e saccheggio coloniale dei giorni nostri. A partire dalla presa d’atto che la comunità afroamericana continua a essere negli USA, e con essa quelle degli ispanici, degli indiani americani, degli islamici, di tutti i gruppi oppressi eccetera, una comunità sotto assedio. In un lungo reportage dello scorso anno pubblicato sul Guardian con il titolo Farewell to America (1.7.2015), Gary Younge sosteneva che i cambiamenti suscitati dalla presidenza del nero Obama, in un sistema istituzionale fortemente condizionato dalle lobby delle multinazionali e nel quale i collegi elettorali sono ritagliati su misura per far vincere determinati interessi, non avrebbero spostato in modo significativo l’ago della bilancia delle disuguaglianze e delle discriminazioni contro le minoranze. Come gli aveva detto Angela Davis, continua Younge, la vittoria di Obama rappresentava “la differenza che non fa nessuna differenza, il cambiamento che non porta nessun cambiamento”. 

Ma cosa può dirci oggi, nel tempo presente, Autobiografia di una rivoluzionaria? Racconta Angela Davis che “in un tiepido pomeriggio di febbraio, Gregory Clark e un suo amico stavano percorrendo Washington Boulevard a bordo di una Mustang ultimo modello. Bevevano gazzosa, con le lattine infilate in sacchetti di carta marrone. Giunti a Vineyard Avenue, vennero fatti accostare al marciapiede da un piedipiatti del dipartimento di Los Angeles; secondo il fratello sopravvissuto, il poliziotto disse che avevano l’aria di essere «fuori posto» al volante di quell’auto. (…) Ordinò ai ragazzi di scendere dall’auto e si accinse ad ammanettarli. Forse Gregory cominciò ad alzare la voce. Forse divincolò bruscamente le mani per impedire al poliziotto di far scattare le manette. Forse non fece nulla. Ad ogni modo, ci fu una breve zuffa, poi Carleson (il poliziotto ndr) gli chiuse le manette ai polsi. La vittima era in suo potere, ma Carleson, secondo i testimoni oculari, buttò Gregory a terra sul marciapiede, e mentre giaceva a faccia in giù, con le braccia ammanettate dietro la schiena, gli sparò alla nuca con un revolver calibro 38” (pp. 189-190).

La descrizione degli abusi di polizia del dipartimento di Los Angeles culminati nell’assassinio del diciottenne Gregory Clark e il racconto della pronta risposta della comunità nera che culmina immediatamente nell’organizzazione di un movimento di protesta ci parlano di quanto è continuato a succedere negli Usa in questi ultimi anni. È una successione interminabile di assassinii, Michael Brown a Ferguson, la strage di Charleston in South Carolina, Alton Sterling a Baton Rouge in Louisiana, Philando Castle nei pressi di St. Pauli in Minnesota, Keith Lamont Scott a Charlotte nel North Carolina e tantissime altre vittime, casi meno noti ma altrettanto drammatici e dall’esito omicida. L’ondata di abusi commessi dalle forze di polizia contro afroamericani disarmati è incessante e sconcertante. E negli ultimi mesi la tensione sociale si è accresciuta al punto tale da sfociare in scontri, sparatorie, disordini e guerriglia urbana.

Angela Davis ha avuto sempre chiara la consapevolezza che il capitalismo statunitense è strutturalmente connesso alla discriminazione razziale e alla supremazia bianca. “Non si trattava solo della repressione politica, ma del razzismo, della povertà, della violenza poliziesca, della droga e di tutti gli infiniti mezzi con cui i lavoratori Neri, Bruni, Rossi, Gialli e bianchi venivano tenuti incatenati alla miseria e alla disperazione” (p. 406). Povertà, assenza di istruzione e privazione dei diritti sociali elementari colpiscono soprattutto i neri che rappresentano la parte più debole della società. E non è un caso se il sistema delle carceri rappresenti, entro questo contesto, il dispositivo securitario con il quale una gran massa di uomini e donne di colore viene privata dei propri diritti e delle proprie libertà. Discriminazione economica e discriminazione razziale vanno incessantemente di pari passo. 

Angela Davis ha sempre rivendicato la parzialità del proprio punto di vista, il posizionamento di una donna nera e comunista. Tuttavia, questo sguardo situato col quale guardare ai problemi di una società fondata sulla disuguaglianza economica e razziale non le ha impedito di maturare il riconoscimento che solo una politica di movimento, dal basso e di massa, in grado di formulare un fronte unitario di lotte e rivendicazioni, poteva conseguire risultati e produrre un avanzamento delle lotte. “Volevamo che la manifestazione di massa in cui doveva culminare la campagna accomunasse tutte queste lotte in una sola, unitaria dimostrazione di forza. Separati, i diversi movimenti – prigionieri politici, riforme sociali, liberazione nazionale, lavoro, donne, antimilitarismo – potevano suscitare temporali qua e là. Ma la possente unione di tutti sarebbe riuscita a scatenare il grande uragano capace di radere al suolo l’intero edificio dell’ingiustizia” (p. 406). Lo stesso Black Panther Party, col quale Angela Davis collabora brevemente, prima di allontanarsene, aspirava, sostiene Paolo Bertella Farneti, alla “unificazione dei gruppi neri nazionalisti e al progetto di un fronte comune di liberazione con le altre componenti del movimento radicale.” (Black Panther Party: dalla rimozione alla storia, ÁCOMA, Rivista Internazionale di Studi Nordamericani vol. 15, p.61, 1999). Ciò che più rendeva pericoloso il BPP era il suo intervento sociale nei territori che “sembrava davvero in grado di trasformare in organizzazione antagonista disciplinata la rabbia spontanea dei ghetti, che in quegli anni scoppiavano in sanguinose rivolte” (ibidem p.61). 

Il pregio del pensiero e delle pratiche radicali della Davis è consistito nell’avere la capacità di intrecciare la politica molecolare con le questioni di respiro generale. È stato un modo particolare di declinare la pratica del “partire da sé”, nonostante Angela Davis, per anni, abbia guardato con un certo scetticismo alle questioni di genere. Col tempo, però, è maturata un’altra consapevolezza e si sono intrecciate, in questo modo, analisi critica del sistema patriarcale, del potere razziale, dello sfruttamento coloniale e del dominio economico del capitalismo. Soltanto con l’intersezione dei differenti momenti del conflitto, da quello di genere a quello razziale, da quello economico a quello ambientale, diventa possibile mettere in discussione il dominio locale e, ad un tempo, globale del capitalismo. La generazione e l’evoluzione del movimento nero radicale Black Lives Matter (le vite dei neri sono importanti), a cui Angela Davis ha dato una significativa adesione, sta a dimostrare che la costruzione di uno spettro di lotte incardinate sul tema della razza, ma anche su quello del genere e della classe, non è impossibile. 

Autobiografia di una rivoluzionaria è anche, infine, il racconto di una metamorfosi personale che scava, fin dalle origini esistenziali, nel profondo della presa di coscienza della propria appartenenza alla comunità nera, fin da quando, da ragazzina, la Davis viveva con la propria famiglia nel Sud razzista del paese. Una metamorfosi che fa i conti, nel tentativo di operare una vera e propria decolonizzazione dell’immaginario razzista, con tutte le ambiguità con cui deve misurarsi, e le doppiezze che deve combattere, chi cerca di elaborare da sé un pensiero autonomo e radicale ad un tempo: “verso il mondo dei bianchi, io e i miei amici d’infanzia non potevamo fare a meno di assumere un atteggiamento ambivalente. Da un lato stava l’avversione istintiva verso chi ci impediva di realizzare i nostri desideri, dai più insignificanti ai più ambiziosi. Dall’altro c’era l’invidia non meno istintiva che ci veniva dalla consapevolezza di tutte le cose piacevoli che a noi erano negate. Da piccola, non potevo fare a meno di provare una certa invidia. Eppure ricordo con estrema chiarezza di aver deciso, molto presto, che non avrei mai – e su questo ero categorica – mai coltivato o espresso il desiderio di essere bianca. Ma questa promessa che mi ero fatta non serviva a scacciare i sogni a occhi aperti che mi riempivano la testa ogni volta che i miei desideri si scontravano con un tabù. Così, per non contraddire i miei principi, elaborai una fantasticheria in cui mi mettevo addosso una faccia bianca e andavo senza tanti complimenti al cinema, al parco dei divertimenti e dovunque volevo” (pp. 99-100). Trovo, in questa capacità autocritica, in questa forza di fare i conti con i propri limiti, trasfigurando la complessità di ciò che si è, una grandezza notevole, paradossale, davvero troppo umana. Nella presa di coscienza del proprio sentimento ambivalente nei confronti della cultura dominante, si può rintracciare lo strenuo tentativo di codificare una cultura della resistenza desegregazionista, lo sforzo di elaborare l’abnegazione personale, il rigore etico e la dirittura morale per farne modello di riferimento, per sé ma soprattutto per gli altri. Per contraddittorio che possa apparire, visto che si tratta di un’opera che si fonda sulla memoria personale, il messaggio che ci consegna Autobiografia di una rivoluzionaria è che la condizione di possibilità per essere autenticamente rivoluzionari passa, anche, per la capacità di lavorare su se stessi, negandosi come eroi solitari, combattendo dunque contro quel simbolico, oggi dominante, che veicola un’idea della storia come frutto di un’azione esclusivamente personale e individuale.   
​

In una recente intervista, a chi le chiedeva se avesse esplicitato il proprio endorsement per Hillary Clinton, Angela Davis, sorvolando sul quesito, ha dichiarato che c’è bisogno di un partito di sinistra nuovo in grado di combattere realmente il razzismo, inteso come un dispositivo funzionale all’oppressione economica, e che è sempre di più necessario un movimento di massa in grado di contrastare le disuguaglianze; un movimento grande e unitario che sia radicato nei bisogni del mondo del lavoro, nella lotta per una sanità e per una scuola pubblica decenti, per la fine dell’occupazione da parte della polizia della comunità nera, per la risoluzione del problema delle carceri piene di prigionieri neri, e che prenda una ferma posizione contro la guerra. È per tutte queste ragioni che, quando mi è stato chiesto quasi per gioco, da un conoscente originario degli Stati Uniti, se avessi preferito la Clinton o Trump ho risposto, quasi senza pensarci, che, se avessi potuto, avrei lottato al fianco di Angela Davis, auspicando, magari, la sua elezione a presidente simbolico degli Stati Uniti Socialisti.
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CAMBIARE (IL) LAVORO. Indagine tra necessità e desideri  

3/11/2016
di Roberta di Bella e Romina Pistone

Pubblichiamo un'anticipazione della collana Femminileoltre, curata da Roberta Di Bella e Romina Pistone, che sarà presentata domani 4 novembre ore 16:30 presso la Sala Gialla dell'Assemblea Regionale Siciliana (Palermo - Piazza Parlamento, 1).

​Femminileoltre
 è una collana che è nata da incontri con altre donne, che volevano far parte del progetto e noi lo abbiamo formalizzato: scrivere di donne, far scrivere donne e uomini che leggessero la realtà attraverso il loro genere, composto da altre differenze. L’idea è partita dal voler fare un lavoro di inchiesta, legato ai nostri incontri ed alle esigenze che abbiamo sentito più forti in questi ultimi anni, ancorate come siamo al territorio, al sud, alla Sicilia, senza però escludere una panoramica nazionale ed anche una europea. Avevamo in mente di creare qualcosa che lasciasse una traccia dei nostri e altrui percorsi di vita, dunque, anche delle nostre pratiche “politiche”, con l’intento di dare voce ad esperienze che riflettessero le differenti soggettività femminili. Così è stato realizzato il primo volume, intitolato Donne+Donne, frutto di relazioni amicali, pensato con conoscenti e maturato in riunioni “politiche” ed incontri casuali, anche grazie alla forte partecipazione emotiva e all’impegno politico profusi da chi ha collaborato.

Cambiare (il) lavoro, Indagine tra necessità e desideri la nostra seconda proposta, è il risultato di una riflessione e di una esigenza di risposte ad interrogativi, che una volta nati, prima di essere rivolti ad altri, lo sono stati a noi stesse. I problemi, le situazioni, descritte e confrontate e le domande a cui vorrebbero rispondere sono innanzitutto le nostre. Pensiamo che la donna che lavora sia un genere in costruzione, che a partire dal riconoscimento degli stessi diritti, cerca delle sue specifiche modalità che si estrinsecano nella relazione creativa tra il lavoro che viene definito produttivo ed il lavoro riproduttivo. Importante, dal nostro punto di vista, sarebbe includere l’uno nell’altro, far rientrare i tempi della riproduzione all’interno delle attività produttive, e viceversa, migliorando la qualità del tempo al lavoro e quella del tempo vissuta con i propri affetti e nelle attività sociali e ludiche.

Il lavoro che leggerete raccoglie interviste di donne di differenti contesti, classi sociali, formazioni, generazioni, provenienza geografica, generi ed orientamenti sessuali. I racconti, prevalentemente di donne, ma abbiamo incluso anche alcuni interventi maschili, narrano di diversi mondi lavorativi, attraversando spazi, generazioni, cambiamenti nel mondo del lavoro e cercando di cogliere le ricadute dei cambiamenti economici e politici sulle vite di queste individue e di questi individui. Cambiare (il) lavorosi apre con un capitolo dedicato alle Donne che chiedono per altre donne, un lavoro, cioè, rivolto ad alcune sindacaliste  di differenti sigle sindacali; le interviste sono introdotte da Federica Giardini che le commenta, riflettendo sul ruolo dei sindacati nella cura legata anche alla qualità del tempo speso in un lavoro non retribuito.

Il metodo che abbiamo adottato è quello della ricerca di aderenza massima possibile ai vissuti, alle singole realtà con cui far interagire i saggi proposti. Per questo una parte importante del progetto Femminileoltre è costituita dalle interviste. Le donne intervistate, Caterina Vitale, Francesca Artista, Delia Altavilla e Anna Zeami, discutono insieme a noi, a partire anche dalla loro esperienza personale, di donne siciliane che hanno scelto di lavorare per il sindacato.

La pubblicazione prosegue con una analisi dei dati sul lavoro femminile al sud, necessaria per la restituzione esatta delle dimensioni del problema nei suoi diversi aspetti. La lettura di tali dati ad opera di Antonella Castronovo e Marco Pirrone incrocia le ragioni della crisi economica con l’aggravarsi dei problemi della disoccupazione femminile nel Mezzogiorno. Con il capitolo sul Lavoro quotidiano si entra nella parte centrale della ricerca intrapresa: la specificità del lavoro femminile. Esiste? Teresa Di Martino, nella sua analisi, la cerca a partire dai luoghi in cui si posiziona oggi la donna, «spazi culturali e di ricerca, sportelli di ascolto, centri antiviolenza», qui risiede l’autenticità, il senso del lavoro femminile, ma anche nuove possibilità di sfruttamento. Gratificazione economica, possibilità di carriera, famiglia, appagamento esistenziale, possibilità di dare un senso al proprio lavoro: in una sola parola, benessere. Ma nell’impossibilità ormai conclamata di avere tutto, cosa scelgono le donne? Nel capitolo incontriamo un pezzo sulle “casalinghe temporanee” di Annalisa Tonarelli che dà alcune risposte a questa domanda. Si tratta di una originale analisi che rileva nuove modalità di reagire alla crisi da parte di donne che scelgono, a volte forzatamente ma a volte deliberatamente, il ritiro dalla vita lavorativa pubblica come reazione ad una crisi che non consente una gratificazione lavorativa adeguata.

Nel capitolo seguente si sono cercate nel concreto risposte in atto di modi di lavorare alternativi ai modelli prevalenti (maschili) e coerenti con l’“essere” femminile, pur se inteso dalle interlocutrici in diversi modi. Diverse pratiche possibili di Sandra Burchi racconta quella di un “coworking al sud” le cui modalità comunitarie, fondate sulla collaborazione e lo scambio, aprono a innovative possibilità creative e politiche. L’intervista a Cristina Alga e Stefania Zanna spiega il funzionamento e la gestione di questo spazio di sperimentazione lavorativa. Le altre interviste, invece, riguardano progetti appena avviati e quindi in fase di sperimentazione, luoghi alternativi di lavoro o lavori svolti con diverse modalità, tutti gestiti eclusivamente o prevalentemente da donne.

Nella scelta delle donne da intervistare le autrici hanno selezionato sia donne la cui attività avesse caratteristiche femminili dichiarate nel progetto, sia donne il cui sguardo di genere emergesse dalle risposte alle domande da noi poste. La Rete al femminile nasce con lo scopo di avviare le donne al lavoro e i gruppi sono gestiti e formati esclusivamente da donne, SEND è un’organizzazione no-profit rivolta ai giovani di entrambi i sessi ma formata, casualmente, da sole donne, At FActory di Paola di Rosa porta avanti progetti per le donne. Ilaria Sposito è, invece, una artigiana in fase di start up che racconta, nella sua storia personale, un percorso di cambiamenti esistenziali, comune a molte donne, in risposta ad una crisi che colpisce uomini e donne, ma non allo stesso modo.

Che “razza” di lavoro guarda ad una parte del lavoro femminile, quello delle migranti, le cui caratteristiche oggi confondono e arricchiscono la catena della cura e del badantato, indagata a partire da varie interviste, condotte in particolare in Sicilia. A partire dalle testimonianze e da alcune analisi più accurate viene anche evidenziato come le scelte di politica economica influenzino gli interventi di welfare su donne e famiglie e come questi siano interventi che riproducano la tradizionale divisione di ruoli uomo/donna nel lavoro, ruoli e compiti considerati naturalizzati e non trasformabili. Così come si osserva l’influenza che l’effetto di queste scelte può avere sul riprodursi di relazioni di famiglie eteronormate. Ogni tema scelto nella collana verrà affrontato includendo uno sguardo di genere che comprenda tutte le differenze e con Gabriella Paulì, nel capitolo Variabili di genere,  a partire da un critica all’eteronormatività, si entra in una analisi economica femminista in relazione con la teoria queer che consente di comprendere le cause della regressione economica e lavorativa in atto in Europa.

Racconti e immagini della comunicazione è una sezione della collana che raccoglie racconti sul tema trattato o riflessioni su come questo viene percepito nell’immaginario collettivo. Qui si trovano rappresentazioni simboliche, fisiche o letterarie di donne al lavoro, espresse in un racconto come quello di Eleonora Lombardo, o in una testimonianza maschile, quella di Alessio Miceli. Abbiamo inserito anche qui un saggio di Gabriella Priulla, su come vengono veicolate e quindi influenzate, le donne nel mondo della comunicazione.

Infine, Restare o partire comprende due interviste a due donne che hanno fatto scelte diverse. Pina Mandolfo è rimasta e ha dedicato gran parte della sua vita ad una attività artistica incentrata sulla diffusione delle pratiche e dei saperi femminili. Simonetta Agnello Hornby è partita e la sua attività di avvocata è stata rivolta a chiunque volesse appellarsi alla legge per avere giustizia La sua determinazione, il suo rigore nella riuscita nel lavoro, consapevole della sua preziosità come si evince dalle sue parole: «lavorare è un privilegio, perché io vengo da una cultura dove nessuna donna lavorava», e le sue esortazioni ad aspetti concreti della vita reale delle donne, risultano di forte ispirazione per le giovani donne.
​
Cambiare (il) lavoro analizza la realtà attraverso i saggi, e cerca anche le ragioni meno evidenti attraverso le interviste, spiega i fatti e cerca le conferme di questi attraverso le domande, e infine li racconta e li mostra con le immagini, con il solo vero intento di suscitare altre domande.
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DODICI PICCOLI INDIANI (D'AMERICA) 

1/11/2016
​di Marcello Benfante 

​“
Pour épater les bourgeois era il motto insolente dell’avanguardia del XIX secolo, ma ormai la borghesia s’è scoperta la passione d’essere sconvolta”
Dwight Macdonald, Masscult & Midcult
 
Il vaso di Pandora   
 
Mi è capitato di fare qualche piccola ed estemporanea considerazione sull’assegnazione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan.
La sensazione che ho provato nell’apprendere questa sorprendente notizia è stata in un primo tempo una sorta di euforia, di felice stupore. Poi all’improvviso sono stato assalito da una vaga tristezza, da un’ombrosa inquietudine.
Come mai? Non si trattava certo di un’offesa alla maestà del Nobel, che è un concetto del tutto estraneo al mio temperamento e alle mie convinzioni. Tanto meno di un dubbio circa il valore estetico dei testi di Bob Dylan, che è indiscutibilmente notevole.
E allora? Ci ho pensato un po’ su, ripercorrendo le fasi della mia giovinezza di ammiratore di Dylan (insieme a molti altri tra cui Woody e Arlo Guthrie, Joan Baez, Pete Seeger, Leonard Cohen eccetera) e finalmente ho capito.
Non mi andava giù che un’Accademia, ancorché autorevole e prestigiosa, trasformasse col tocco dorato del suo riconoscimento il simbolo di una cultura antagonista in un poeta “laureato” (per dirla con Montale, che peraltro fu insignito anch’egli del Nobel nel 1975).
Questo tocco di Mida, e altrettanto mortale, mi palesava una situazione anomala e distorta in cui la cultura dominante si appropria in modo vorace di ogni cultura “altra”, cancellando la stimolante linea di demarcazione tra l’alto e il basso, il popolare e il dotto, lo sregolato e il classico, e così via. Situazione estremamente deleteria, soprattutto per quelle culture alternative che esprimono la voce di chi non ha nient’altro che la propria voce. Ma anche per gente famosa come Dylan, che infatti pare essere rimasto un po’ interdetto e forse non sa cosa fare con questo premio così ingombrante.
La confusione è grande, né si può dire, come Mao, che ciò sia un bene e che annunci una fase rivoluzionaria. Paventerei piuttosto un’epocale involuzione.
Il fatto è che il Nobel a Bob Dylan ha aperto il vaso di Pandora. Ora non c’è facilone o generoso entusiasta che non rivendichi analogo trofeo per il suo beniamino. Tutto è diventato possibile.
Perché non premiare, per esempio, Art Spiegelman? Il suo Maus non vale quanto e più di Se questo è un uomo? E come mai non aver pensato prima, quando ancora si era in tempo, a Charles M. Schulz? I Peanuts non sono pari a Balzac?
Direi proprio di no. Cerchiamo di non farci trascinare da valutazioni improponibili, sebbene (o in quanto) dettate da un sacrosanto amore.
Al di là del fatto che Dylan sia (e lo è) davvero un grande poeta, e che Spiegelmann e Schulz non siano da meno, innegabilmente sono saltati i parametri e i valori. I punti di riferimento, insomma.
E abbiamo perduto l’orientamento, il senso della misura. Il pubblico scolarizzato che ha letto l’ultimo best-seller e ha fatto la fila per vedere una mostra o visitare un museo si è lasciato (facilmente) convincere, a un certo punto, che tutto fa cultura come tutto fa brodo.
È strano che debba dirlo uno come me, che ha sempre sostenuto (con le sue poche forze, va da sé) la causa di ciò che è piccolo, marginale, eterodosso. Le ragioni e i meriti, per così dire, delle arti minori. Uno che ha sempre coltivato (senza alibi semiologici, per carità!) il meraviglioso mondo di quella che un tempo veniva definita paraletteratura.
Ma va detto che questa situazione di confusione e di assimilazione è pericolosa e potenzialmente devastante per entrambe le parti, il low e l’high, perché origina da uno smarrimento e determina a sua volta uno smarrimento ancora maggiore.
Non si tratta, beninteso, di difendere la natura alta dell’Arte maiuscola. Nemmeno nei termini (comunque imprescindibili) di Dwight Macdonald, nel suo celeberrimo pamphlet, ossia di un radicalismo aristocratico ferocemente avverso alla mercificazione della cultura. Semmai, in un certo senso, si tratta del contrario (1).
Sui concetti profetici di masscult e midcult bisognerà comunque tornare a riflettere. Tuttavia non è questo, esattamente, ciò che qui mi preme annotare e precisare.
Per chiarire (e chiarirmi) meglio il mio pensiero, prenderò le mosse dall’ultimo libro di Harold Bloom, “Il canone americano”(2).
 
Il sublime è il demonico 
 
Critico e storico della letteratura di severissimo giudizio, Bloom ha operato una rigorosa selezione che lo ha portato a individuare dodici autori a cui egli attribuisce la creazione del “sublime americano”.
Si tratta di Walt Whitman, Herman Melville, Ralph Waldo Emerson, Emily Dickinson, Nathaniel Hawthorne, Henry James, Mark Twain, Robert Frost, Wallace Stevens, Thomas Stearns Eliot, William Faulkner e Hart Crane.
Bloom avverte subito che si sarebbero potuti aggiungere a tale cernita molti altri scrittori, tutti meritevoli di appartenere al canone americano. Tuttavia il suo criterio si è basato sull’individuazione di quegli scrittori che hanno prodotto “lo sforzo incessante di trascendere l’uomo senza rinunciare all’umanesimo”.
Mi chiedo quanta parte della sterminata produzione culturale che inonda senza sosta i nostri giorni si ponga anche minimamente intenti simili.
Ma è necessario a questo punto uscire dalle definizioni e dalle indicazioni generiche. Stiamo parlando, spiega Bloom, di quella che Kierkegaard chiamava (con riferimento a Shakespeare) “la risonanza del contrario”. È proprio questa “vena antitetica” ciò che accomuna, secondo Bloom, i dodici autori del suo canone americano.
Ossia una forza oppositiva e demonica, caratterizzata da una intrinseca ambivalenza, che è poi, in ultima analisi, l’elemento fondamentale del sublime americano.
Sicché, “intorno a questi dodici autori ruota, secondo me, la proliferazione della coscienza grazie alla quale continuiamo a vivere e a scoprire il senso dell’essere”.
L’arte quindi come vita e senso. Niente a che vedere, mi pare di poter aggiungere, né col masscult né col midcult, che sono consumo e apparenza.
Ma bisogna procedere con circospezione, sia nel seguire l’appassionato ragionamento di Harold Bloom, in cui aleggia una visionarietà testamentaria, sia nel tornare alle invettive sprezzanti di Dwight Macdonald, così pregnanti riguardo al midcult, di cui ha preconizzato il becero trionfo che oggi constatiamo, ma talora ingenerose e un po’ miopi nei riguardi del masscult.
La cautela è d’obbligo perché che cosa sia il demonico non è proprio chiarissimo nel saggio di Bloom.
“Il demone sa come fare”, ci dice il decano della critica americana. Ma noi non siamo altrettanto consapevoli nei suoi confronti. Sappiamo tuttavia che il demone agisce, più che essere agito:
“Il demone sa come si scrive una poesia, e conosce anche la propria ambivalenza, poiché segue un percorso dalla divinità alla colpa”.
Sappiamo pure che il demone consiste nell’eresia del capolavoro e che coincide con “l’America stessa” (come già pareva a D. H. Lawrence). Da questo demone sciamanico fuggivano Henry James e T. S. Eliot allorché “si autoesiliarono a Londra”.
Veniamo ora al nocciolo della questione che a me (e spero non solo a me) più preme.
 
Lo strano caso del signor Samuel Langhorne Clemens 
 
Nell’austero canone di Bloom trova posto Mark Twain, il che ovviamente non è affatto una sorpresa. Soprattutto come autore diHuckleberry Finn, romanzo che Bloom non esita ad accostare a capolavori come La lettera scarlatta, Moby Dick, Foglie d’erba.
L’analisi di Bloom è perfetta: libro cervantino e segnatamente chisciottesco, Huckleberry Finn, apice della produzione di Mark Twain, “è pervaso da una brutalità incessante”, che è l’elemento che più lo differenzia dalle Avventure di Tom Sawyer, romanzo più lieve che non a caso è stato ghettizzato nella letteratura per ragazzi.
Tuttavia il legame tra le due opere non può essere soppresso, sebbene il seguito si elevi a un rango superiore rispetto alla prima parte.
E ne è consapevole lo stesso Bloom quando scrive: “Se mai la nostra letteratura ha prodotto un’opera di richiamo universale, popolare ed elitaria insieme, è la storia di Huck Finn”.
Popolare ed elitaria insieme: come è avvenuta questa fusione? Tutto quello che possiamo dire è che l’unico a saperlo è il demone.
In altri termini, misteriosa è l’alchimia che trasforma talora un’opera popolare (che Macdonald collocherebbe nel masscult) in un capolavoro. E tale mistero permane anche dopo analisi accuratissime e multidisciplinari.
Tuttavia, sappiamo che in qualche modo e in qualche caso accade, e che quindi non possiamo fare di tutte le erbe un fascio e sbarazzarci della zavorra della cultura popolare, di massa, commerciale, per elevarci nel limpido cielo dell’arte sublimata. Forse potrebbe risultare più utile usare questa zavorra per sprofondarci negli abissi del demonico. Ma si tratta evidentemente di un discorso simmetrico.
Di un discorso – ecco il punto – ambivalente. Non può esistere una pratica bassa della cultura senza modelli alti. Ma questi ultimi non avrebbero senso né sostanza senza la base delle pratiche basse. I due piani, non solo sono complementari, ma interagiscono dialetticamente e hanno, non di rado, interscambi fecondissimi e rivelatori.
Tutto ciò che sta in mezzo (il midcult) è il kitsch, la mercificazione mistificata, la parodia involontaria, la mediocrità nella sua accezione più squallida.
Mark Twain è allora interprete del demone americano tanto col suo Huck che col suo Tom, che sono dioscuri inseparabili, sebbene solo dal viaggio fluviale di Huck, su quel Mississippi che è il suo Dio, come dice Eliot (che in fondo è lo stesso che è il suo demone), scaturisca quella straordinaria metafora plurima che è il filone on the road della letteratura (e non solo) americana.
Se spingiamo in avanti di appena un passo questo ragionamento, perveniamo a una conclusione più generale. Il legame tra Tom e Huck è la cifra del legame indissolubile tra cultura popolare e cultura alta, del loro inscindibile patto di sangue.
 
Io sto con gli indiani 
 
Se dovessi percorrere la storia e l’anima della letteratura americana, non potrei prescindere da una realtà minore che costituisce l’humus e il sottobosco delle grandi querce autorali canoniche.
Li chiamerò gli “indiani”, con riferimento all’epopea western hollywoodiana e ad Agatha Christie (seguendo la quale avrei potuto anche chiamarli niggers), inarrivabile escogitatrice di enigmi polizieschi.
Si tratta di autori minori o di generi minori o di opere minori di autori maggiori. Oppure di libri relegati nella riserva indiana della letteratura per ragazzi (dove peraltro sono in eccellente compagnia).
I miei dodici piccoli indiani contrapposti (ma in realtà connessi) alla grande tradizione colta e ufficiale sono questi:
 Rip van Winkle di Washington Irving, L’ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper, Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe (di cui si danno per scontati i racconti), La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe, Piccole donne di Louisa May Alcott, Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain, Memorie di un cane giallo di O. Henry, Il meraviglioso mago di Oz di Lyman Frank Baum, Il richiamo della foresta (col suo doppio Zanna bianca) di Jack London, Tarzan delle scimmie di Edgar Rice Burroughs, Il Falcone Maltese di Dashiell Hammett,  Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.
Si tratta di un lacunoso percorso cronologico (dal 1819 al 1953) che segna la nascita di buona parte dei grandi temi della cultura americana: il viaggio nel tempo, il mito ambiguo del pioniere, l’antischiavismo, il femminismo, il picarismo, la dimensione utopica del sogno, la libertà selvaggia, la giungla metropolitana, le distopie del potere.
Ho scelto di parlare di libri, anziché di scrittori, perché il mistero dell’esemplarità è sempre racchiuso più nell’opera che nel suo autore.
Inutile dire che il gioco del dodici (come ogni gioco della torre) è un limite troppo angusto e vincolante. Lo stesso Bloom avverte nella premessa (“Perché questi dodici?”) di aver dovuto lasciare fuori autori del calibro di Edgar Allan Poe, Henry David Thoreau, Edith Wharton, Theodore Dreiser, Edwin Arlington Robinson, Willa Cather, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, William Carlos Williams, Marianne Moore, Ralph Ellison, Flannery O’Connor, “senza voler includere autori successivi”.
Ogni elenco, per quanto dettagliato, è sempre incompleto.
Al mio aggiungerei almeno Il segno rosso del coraggio (1895) di Stephen Crane, prototipo del cimento dell’anima, e Piccolo Cesare (1929) di William Riley Burnett da cui sono scaturiti la maschera di Scarface e un intero filone cinematografico (il gangster film).
So bene di avere tralasciato, con un gran senso di colpa, autori magnifici come Frederic Brown o Cornell Woolrich (e con loro tanti altri, da Rex Stout a Isaac Asimov, per citarne appena due). Oppure romanzi bellissimi come Il buio oltre la siepe (1960) di Nelle Harper Lee e Mattatoio n. 5 (1969) di Kurt Vonnegut.
Con gli ultimi due titoli entriamo in una zona intermedia che è costituita, a mio avviso, da libri straordinari, a volte autentici capolavori, tuttavia solitamente esclusi dal canone.
Qui collocherei: Henry James, Il giro di vite (1898), Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River (1914-15), Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby (1925), John Fante, Chiedi alla polvere (1939), John Steinbeck, La luna è tramontata (1942), Jerome David Salinger, Il giovane Holden (1951), Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare (1952). Tutti irrinunciabili, nonostante talora Macdonald arricci il naso (come per il linguaggio pseudo-biblico dell’Hemingway marinaro) o Bloom se ne dimentichi con elitaria noncuranza.
E ovviamente chissà quanto io stesso ho omesso (a cominciare da ciò che non ho letto). Ma ormai penso sia chiaro quello che volevo dire e davvero non c’è bisogno di aggiungere altra legna al fuoco.
Abbiamo bisogno di modelli alti e altissimi, altrimenti rischiamo il rachitismo culturale, ma non dobbiamo dimenticare che le vette poggiano su un substrato che spesso ha svolto un ruolo determinante nel sospingerle creando le premesse di una sensibilità che infine le recepisse. E dobbiamo anche capire che un appiattimento generalizzato non giova a nessuno, creando soltanto un grande Blob amorfo che ingloba ogni cosa e la metabolizza.
Anche se viviamo ormai in un tempo di omologazione totale, sia sociale che culturale, in cui il concetto stesso di arte popolare è venuto meno insieme al popolo, e dove tutto è divenuto di massa, dobbiamo tentare di tutelare le prerogative di quelle forme di espressione che un tempo erano alternative alla culture ufficiali e dominanti. E al tempo stesso, in modo speculare e sinergico, rivendicare il carattere incomparabile dell’epifania artistica (senza ricorrere a baggianate turistiche come la Sindrome di Stendhal).
Come si è già detto, tale duplice difesa costituisce un’unica mossa, come una sorta di arrocco scacchistico.
Infine, un esempio esplicativo. Se diciamo, con Lacassin, che Burne Hogarth – il raffinatissimo cartoonist cui si deve una preziosa interpretazione grafica di Tarzan – può essere definito il “Michelangelo dei fumetti” per la sua sapienza anatomica e per il suo sopraffino senso del movimento e della composizione della tavola, è proprio perché siamo consapevoli che Michelangelo è un’altra cosa, inarrivabile, imparagonabile, a cui ci riferiamo solo per iperbole. Pur essendo, beninteso, consapevoli che Burne Hogarth ha un formidabile talento ed è un disegnatore davanti al quale fior di pittori accademici avrebbero dovuto togliersi rispettosamente il cappello.


  1. Dwight Macdonald, Masscult e Midcult, Roma, E/O, 1997, traduzione di Adriana Dell’Orto e Annalisa Gersoni Kelley
  2. Harold Bloom, Il canone americano, Milano, Rizzoli, 2016, traduzione di Roberta Zuppet
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