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PALERMOGRAD

NUOVO IMPERO, STESSO BARDO? - Quando Shakespeare trovò l'America

25/10/2019
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LO STRANO CASO DI MR BREXIT​ E DR REMAIN

22/10/2019
di Vincenzo Scalia
​
L’ennesimo stallo sulla Brexit del 19 ottobre è l’emblema di una situazione sempre più confusa e contraddittoria: il Parlamento britannico vota la richiesta di estensione dell’uscita del Regno Unito. Il primo ministro, privo di una maggioranza anche risicata, è costretto a prenderne atto, ma, contemporaneamente, non può tradire i suoi proclami di fronte all’opinione pubblica, per cui invia a Bruxelles due lettere: una in cui chiede un’estensione a nome della House of Commons, l’altra a nome suo, in cui chiedere di respingere la richiesta del Parlamento. Non credevamo possibile che la Gran Bretagna scendesse al livello degli azzeccagarbugli nostrani, eppure i colpi di scena si susseguono ogni giorno, disorientando anche gli osservatori più navigati. Le ragioni di questo stallo sono molteplici, e promettono di aggravare la situazione.


In primo luogo, il problema principale è la Brexit in sé. Sin da quando Cameron indisse il referendum alla fine del 2015, era chiaro che nessuno la considerava una prospettiva possibile, tanto che i remainers fecero campagna solo l’ultima settimana e i leavers, quando i risultati del 23 giugno del 2016 decretarono la loro vittoria, non avevano preparato nemmeno un discorso per celebrare l’esito della consultazione, meno che meno una strategia. Alla fine perfino Nigel Farage, leader dello UK Independence Party (UKIP), che aveva fatto campagna elettorale con maggiore convinzione di tutti, dovette ammettere di aver mentito sui costi della sanità che – solo a parole !- la Brexit avrebbe risparmiato e si dimise da segretario del suo partito. Era stato tutto un assalto alla diligenza di David Cameron, allo scopo di indebolirlo per raccoglierne le spoglie. La tattica si è rivelata scriteriata, perché al suo altare sono stati immolati due premier e rischia di essere delegittimato un altro. Inoltre, dietro la tattica, non esisteva alcuna strategia.

Ad esempio, nessuno aveva previsto che la questione irlandese si sarebbe riaperta in modo così drammatico, per quanto in termini diversi. Oggi la Repubblica d’Irlanda rappresenta l’hub delle multinazionali informatiche americane in Europa, e si propone come meta turistica internazionale. Queste trasformazioni economiche si sono ripercosse sul tessuto sociale e culturale di un paese a forte tradizione cattolica, che oggi vanta un primo ministro con un cognome indiano, dichiaratamente omosessuale, e ha legalizzato l’aborto. Nelle sei contee dell’Irlanda del Nord, viceversa, troviamo una realtà che ancora si dibatte tra le macerie di un passato industriale, con alti indici di disoccupazione e l’equilibrio statico tra repubblicani e unionisti, con i primi che hanno raggiunto numericamente i secondi. La comunità protestante si sente sempre più assediata e marginalizzata, e non riesce ad accettare la conseguenza di questi cambiamenti, cioè una riunificazione dell’isola. Così da un lato si assiste a una ripresa, seppur blanda, della conflittualità interreligiosa, dall’altro lato l’opinione pubblica britannica, per la prima volta in due secoli, comincia a considerare come un fardello l’unione con le sei contee. Si manifesta, attraverso sondaggi e prese di posizione anche degli intellettuali più conservatori la volontà di abbandonare un territorio che provoca costi eccessivi, relativi all’elargizione dei sussidi per gli strati marginali (la Thatcher aumentò la spesa pubblica solo nelle sei contee) e al dispiegamento dell’esercito.

In secondo luogo, la questione irlandese si rivela cruciale per mantenere gli equilibri politici sempre più precari, con un governo che è uscito senza maggioranza dalle ultime elezioni del 2017 e che ha dovuto richiedere il sostegno del Democratici Unionist Party, ovvero il partito espressione degli unionisti nordirlandesi. In un contesto in cui alcuni deputati Tory hanno abbandonato il partito, e la maggioranza, proprio in seguito alla Brexit, per Boris Johnson, i voti del DUP, diventano cruciali, rimettendo sulla scena politica una questione che sembrava risolta dopo il Good Friday Agreement del 1998, che pose termine conflitto tra le comunità delle sei contee. La compattezza degli schieramenti, tuttavia, non riguarda soltanto i Tories, bensì anche le altre formazioni politiche. I laburisti, soprattutto, hanno subito la scissione di sei blairiani che stanno cercando di costruire uno schieramento europeista insieme ai fuoriusciti dai Tories. Ne consegue uno scollamento ulteriore tra il paese legale e il paese reale, che le recenti elezioni europee hanno mostrato nella sua gravità. I Tories sono diventati il secondo partito, i Labour addirittura il quarto, di fronte all’avanzata del pro-Brexit party e ai Libdem, tornati sulla breccia per via della loro posizione chiaramente europeista, che li fa ritenere più credibili dei due maggiori partiti agli occhi dei remainers. Nessuna delle forze politiche, tuttavia, sembra avere recepito il messaggio degli elettori. La soluzione più ovvia sarebbe quella di tornare alle urne, ma Johnson vorrebbe tornarci forte di un accordo o di un no deal che lo renderebbe più credibile davanti agli elettori. Gli altri partiti giocano all’ottenimento di rinvii che, se da un lato delegittimerebbero Johnson, dall’altro sortirebbero il risentimento ulteriore di un’opinione pubblica frastornata da 3 anni e mezzo di stallo. La sterlina si è svalutata del 20%, il destino dei 4 milioni di lavoratori UE è ancora incerto, e parti importanti di un’economia oggi incentrata sui servizi rischiano di rimanere impantanate o di risentire negativamente della Brexit in generale, ma soprattutto di un’uscita senza accordo.
​
In terzo luogo, in questo scenario, manca del tutto una proposta politica chiara da parte della sinistra. Corbyn non è riuscito a capitalizzare il risultato del 2017. Avrebbe potuto chiedere le elezioni dopo le sconfitte in parlamento di Theresa May, ma non lo ha fatto, convinto che lo stallo dei Tories avrebbe favorito i laburisti, mentre così ha rimesso in gioco Boris Johnson e delegittimato il suo partito come una forza priva di una strategia e di una prospettiva. Se è vero che Corbyn teme anche la spaccatura del suo elettorato, dal momento che la Brexit è popolare anche presso settori della working class (e anche presso di lui…), dall’altro lato la mancanza di iniziativa politica non soltanto ha comportato una perdita di consensi, ma ha anche ridato fiato alla destra blairiana, in particolare presso i settori europeisti dell’elettorato labour. Inoltre, le accuse di antisemitismo che gli vengono mosse per via del suo sostegno alla causa palestinese, stanno ulteriormente delegittimando un leader che avrebbe potuto rappresentare una svolta per la Gran Bretagna e - paradossalmente in tempi di Brexit - per l’Europa. Ma il cerino in mano non lo vuole nessuno. Anche se la casa rischia di bruciare lo stesso.
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SPECCHIO AMBIGUO - Leonardo Sciascia e il cinema

14/10/2019
di Marcello Benfante 

I turbamenti cinefili del giovane Sciascia

 
Il rapporto di Leonardo Sciascia con il cinema è un rapporto, se non proprio conflittuale o contraddittorio, quanto meno controverso, di amore e diffidenza, elezione e rifiuto, passionale coinvolgimento e intellettuale distacco.
Sciascia frequentò moltissimo, da giovane soprattutto, le sale cinematografiche, poi se ne allontanò, ma non del tutto.
Sappiamo d’altronde come per Sciascia fossero fondamentali “gli indelebili anni dell’infanzia”, cioè i primi dieci, a cui è ragionevole aggiungere un altro decennio di decisiva formazione.
Come ha notato Giuseppe Traina: “Molto più che il teatro, il cinema per Sciascia si presenta come il luogo dell’emozione: e, come tale, confinato nell’infanzia e nell’adolescenza, territori delle emozioni per eccellenza” (Leonardo Sciascia, Bruno Mondadori, 1999, p. 69).
E pure di indelebili impressioni. Di volti che s’imprimono per sempre nella memoria e assumono la valenza di icone di un percorso intellettuale.
Come quello di Jack Holt, che appare, silente e ammaliante, nello schermo del teatro comunale di Racalmuto, adibito a sala cinematografica, in un lontano 1929, e poi sempre riapparirà nel teatro della memoria sciasciana, “vago e intermittente come nei sogni”.
Sono epifanie d’una lanterna magica fra cui spicca soprattutto il volto, la maschera, di Ivan Mosjouskine, interprete del  Il fu Mattia Pascal (Le feu Mathias Pascal) di Marcel L’Herbier.
Scrive Sciascia: “Il film è del 1925. Io credo di averlo visto tra il ’33 e il ’34: poiché – per me felice ritardo – al mio paese il cinema continuava ad essere muto, nonostante l’avvento del parlato” (Cruciverba, Einaudi, 1983, p. 187).
Il giovanissimo Sciascia non sa ancora nulla di Pirandello (che è come dire del suo destino). Ben altra consapevolezza letteraria avrà lo scrittore allorché, quarantacinque anni dopo, lo rivedrà con stupore e commozione (“rivedo il film con una emozione da adolescente”).
Anzi, è come se questa re-visione fosse doppia, esteriore e insieme interiore:
“E non credevo di averne un ricordo così preciso: di ogni sequenza, direi persino di ogni fotogramma. Come se assistessi a due proiezioni: una nella mia memoria, l’altra sullo schermo” (Ivi, p. 188).
All’incirca nello stesso periodo, all’età di dodici anni, Sciascia scopre il cinema sonoro.
“Il primo film parlato l’ho visto la volta che sono stato, per il mio primo viaggio fuori dal paese, a Palermo: nel 1933. Entrando nella sala ne ebbi un senso di frastornazione, di stordimento, addirittura non capivo. A capirlo, restai a vedere il film per la seconda volta. Era Il segno della croce, mi piacque moltissimo: ma più mi piaceva tornare a vedere, al mio paese, i vecchi film muti” (Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, 1989, p. 122).
Il segno della croce (The Sign of the Cross) di Cecil B. De Mille è un drammone storico tratto da un romanzo di Wilson Barrett ambientato nella Roma del 64 d. C., con Fredric March, nel ruolo del prefetto di Roma Marco Superbo, Elissa Landi che interpreta Marzia, una giovane martire cristiana, Claudette Colbert nella parte di Poppea e Charles Laughton in quella di Nerone.
Presumibilmente, salvo arbitrarie manomissioni locali, Sciascia poté assistere alla versione originale, non mutilata, del kolossal di Cecil B. De Mille, uscito l’anno prima, quella cioè precedente alla revisione puritana del 1944, che intervenne pesantemente sul film con tagli e censure tese a smorzarne il sottinteso erotismo (anche se questa ragionevole ipotesi implica che il giovane spettatore, avendo rivisto il film daccapo una seconda volta, dovette rimanere in sala per oltre quattro ore).
Ciò significa che Sciascia vide, a coronamento iniziatico del suo primo viaggio, e per ben due volte, la scandalosa e celeberrima scena di Claudette Colbert-Poppea che s’immerge nuda in una vasca colma di vero latte d’asina (tanto da svenirne sul set per il greve olezzo), nonché la danza saffica della sacerdotessa di Eros: maliziosi e fascinosi ammiccamenti al voyeurismo del pubblico che poi furono espunti dalla versione riveduta e purgata.
Come dire, parafrasando Musil: i turbamenti del giovane Sciascia.
 
Il cinema era tutto
 
L’avvento del sonoro, che Sciascia visse con un certo ritardo, nella sua originaria condizione di provinciale in una remota Sicilia, segnò un primo, fatale, disincanto.
Il distacco è graduale ma irreversibile: “Arrivava intanto il parlato: in cui travasai, pur con qualche residua nostalgia, tutto l’amore che avevo avuto per il muto” (Ivi, p. 122).
La sensazione è tuttavia  quella di essere stato tradito dal cinema, come da un grande amore che rivela i suoi aspetti prosaici e futili. Il cinema, ai suoi occhi, è “diventato altra cosa di cui, in effetti, non c’era bisogno se non per masse miseramente ‘bisognose’: è diventato parodisticamente letteratura, parodisticamente pittura, parodisticamente avanguardia di ogni cosa che sa di avanguardia” (Ivi, p. 123).
Il cinema, tuttavia, ebbe un’importanza assoluta nella sua formazione intellettuale.
“Studiando intanto a Caltanissetta, avevo modo di vedere più films: uno al giorno, e a volte anche due. Ogni anno riempivo un libretto di annotazioni sui films visti: avevo, prima che lo facessero i giornali, inventato una specie di votazione con asterischi: cinque il massimo voto. La cosa curiosa, scoperta qualche anno fa, è che Gesualdo Bufalino, che non conoscevo, faceva allora la stessa cosa” (Ivi, p. 122).
Il cinema è dunque per Sciascia (e per Bufalino) palestra di scrittura in cui il critico forgia e affina i suoi strumenti.
Un mondo conchiuso e perfetto. O tale almeno gli appare nella memoria: “il cinema allora era tutto. Tutto” (Ibidem)
Di cinema, sul cinema, d’altronde Sciascia scrisse spesso, in modo specifico o indiretto, e ad esso dedicò in particolare tre saggi, sui quali baso sostanzialmente il presente lavoro.
Si tratta di “La Sicilia nel cinema” (in La corda pazza), “Il volto e la maschera” (in Cruciverba) e  “C’era una volta il cinema” (in Fatti diversi di storia letteraria e civile).
Tre saggi molto intensi e profondi, che attestano il ruolo iniziatico e propedeutico di quest’arte nella comprensione non solo della letteratura, ma del mondo stesso, della realtà, dell’uomo.
Il cinema per Sciascia è una potente approssimazione gnoseologica e artistica. Una sorta di itinerario filosofico.
Rivedendo Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier  presso gli Archives du Cinéma di  Bercy, a circa trenta chilometri da Parigi, Sciascia rimane colpito dai “due grandi, ermetici parallelepipedi di alluminio in cui migliaia di films sono custoditi”.
Gliene viene un’immagine labirintica d’infinite potenzialità : “l’idea che tanti films stiano come sigillati dentro queste gigantesche scatole metalliche mi dà un senso di smarrimento, di vertigine: quasi mi trovassi improvvisamente di fronte alla materializzazione – solidificata, mineralizzata, inaccessibilmente squadrata e pure segretamente e rischiosamente accessibile – dei più ardui problemi che il pensiero umano da secoli declina, delle più ardue fantasie. Il divenire e l’essere, il tempo, la libertà, la predestinazione, l’identità, il potere. Eraclito, Parmenide, Platone, Agostino, Shakespeare, Einstein, Borges. E Pirandello” (Cruciverba, p. 182).
Il cinema, la sua storia, la sua memoria, gli si presenta allora come un “archivio di ombre”, una fantasmagoria proiettiva che rimanda, con sconvolgente puntualità, al mito della caverna che Platone illustra in un celebre passo della Repubblica.
Per Sciascia è una rivelazione illuminante.
“Quante volte, dagli anni della scuola ad oggi, questo passo della Repubblica mi si è svolto nella mente senza che m’avvenisse di pensare, se non come stravaganza, a quel che ora, davanti agli ‘archives du cinéma’, mi sembra assolutamente ovvio: a una prefigurazione o profezia del cinema – e di un’estetica e di una sociologia del cinema (Ivi, p. 183).
Sono molte le annotazioni di Sciascia sull’impatto travolgente che il cinema ebbe sul pubblico siciliano, a partire dalla sua Racalmuto, sul sentimento, sulle abitudini e ovviamente sull’immaginario collettivo.
“Ne venne a tutto il paese una passione, una febbre, per cui dal lunedì al venerdì o si parlava del film già visto o si vagheggiava e si facevano congetture su quello da vedere” (Fatti diversi di storia letteraria e civile, p. 120).
Di questa febbre sociale bruciava anche il giovane Sciascia, la sua eccitabile e fertile fantasia.
L’idea di fare cinema, oltre che esserne spettatore, deve averlo preso molto presto (così ricorda per esempio il suo amico e compagno di studi Stefano Vilardo) ma altrettanto velocemente deve essere stata accantonata.
 
Relazioni pericolose
 
Sebbene Sciascia abbia partecipato pure alla sceneggiatura di Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato diretto da Florestano Vancini nel 1971, soprattutto per adesione emotiva e storica a un tema, prettamente verghiano, che lo avvinceva particolarmente, rifiutò sempre di intervenire nella sceneggiatura dei film tratti dalle sue opere, dichiarando l’indipendenza delle une quanto degli altri, come se cinema e letteratura fossero due mondi separati e incomunicabili, ovvero intraducibili.
Il cinema d’altra parte ricambiò abbondantemente (e piuttosto infedelmente) l’interesse e la passione cinefila di Sciascia.
Molti film sono stati tratti o ispirati dalla narrativa sciasciana, con alcune ovvie predilezioni e alcune strane o sintomatiche omissioni.
Il primo regista ad affrontare l’universo sciasciano fu Elio Petri, con A ciascuno il suo, del 1967. L’anno appresso seguì Il giorno della civetta di Damiano Damiani, con un successo che si ripercosse (con esiti diversi) sulla carriera dello scrittore di Racalmuto.
È quindi l’aspetto mafiologico a muovere un primo interesse, altrettanto scontato che riduttivo, del cinema nei confronti dell’opera di Sciascia.
Nel 1976, con Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, liberamente ispirato al romanzo Il contesto, il filone mafioso trova una declinazione o deviazione fantapolitico-giallistica.
Sempre del 1976 è Todo modo di Elio Petri, dall’omonimo romanzo. È ancora la commistione tra politica e intrigo poliziesco a orientare la riduzione cinematografica.
Nello stesso anno appare, senza troppo clamore, Una vita venduta di Aldo Florio, che s’ispira a L’antimonio, uno dei più bei racconti di Leonardo Sciascia, contenuto nella raccolta Gli zii di Sicilia (1958). È lo Sciascia, questo, della corda civile e del frammento storico, della introspezione psicologica e della testimonianza antifascista. Tutti elementi di relativo richiamo per il grande pubblico.
Nel mentre è cominciata (e proseguirà negli anni successivi) una curiosa perlustrazione cinematografica di alcuni testi sciasciani minori, poi confluiti nella silloge Il mare color del vino (1973).
Comincia Giovanni Grimaldi nel 1969, con Un caso di coscienza. Due anni dopo è la volta di Gioco di società di Giacomo Colli. Nel 1972 Alessandro Blasetti in Storia dell’emigrazione, un film per la TV, s’ispira al racconto Il lungo viaggio.
Nel 1982 tocca a Pino Passalacqua con Western di cose nostre, dall’omonimo racconto, ancora per la televisione. Nel 1989 Nanni Loy torna su Gioco di società, e nuovamente il medium utilizzato è quello televisivo. Infine,  ricordiamo Filologia di Giuseppe Gigliorosso del 1990.
In totale, quindi, sei film basati su cinque racconti tratti da Il mare colore del vino (che ne raccoglieva tredici). Un’attenzione piuttosto strana, se si considera che altri testi sciasciani, generalmente ritenuti più importanti e significativi, sono rimasti esclusi dall’occhio cinematografico.
Dopo la parziale riuscita del Todo modo di Petri, l’interesse del cinema per l’opera di Sciascia torna a farsi eccentrico nel 1978 con Grand Hotel des Palmes di Memè Perlini, liberamente tratto da Atti relativi alla morte di Raymond Roussel , uno dei testi più suggestivi della riflessione saggistica, sempre densa di implicazioni narrative, di Sciascia.
Nel 1982 il regista Roberto Guicciardini con Candido affronta un romanzo di sottile riscrittura e reinterpretazione del modello volterriano. Si tratta ancora una volta di un film per la televisione, a conferma forse di una sorta di vocazione didascalica e divulgativa delle riduzioni cinematografiche tratte dalle opere sciasciane.
Subito dopo la morte di Sciascia, tocca a Gianni Amelio, nel 1990, tornare sui grandi temi civili e morali dello scrittore siciliano con un film esemplare come Porte aperte, potente dramma storico e giudiziario ambientato durante il fascismo in una Palermo definita irredimibile.
L’anno appresso esce Una storia semplice di Emidio Greco, tratto dal romanzo postremo di Sciascia, anch’esso incentrato sul tema dȕrrenmattiano della giustizia.
Ancora di Emidio Greco, nel 2002, una rilettura de Il consiglio d’Egitto, una delle più significative divagazioni meta-storiche di Sciascia, sull’arabica impostura dell’abate maltese Giuseppe Vella.
È strano che il cinema abbia, per esempio, tralasciato di occuparsi di testi come Il quarantotto, Morte dell’inquisitore, Il cavaliere e la morte, La strega e il capitano, I pugnalatori, che si offrivano particolarmente alla revisione storico-politica, alla critica del Risorgimento, anche in chiave anti-gattopardesca, alla critica del Potere e del Palazzo, alla demistificazione delle verità ufficiali e dei luoghi comuni folcloristici.
Ma a pensarci bene non è poi così strano. Anzi. Non a caso, i film ricavati dalle opere sciasciane sono stati spesso inficiati da una certa superficialità, nonostante alcune belle pagine e alcune magistrali interpretazioni. Si è trattato in ultima analisi di quelle che il critico cinematografico Alberto Farassino ha definito delle “operazioni sbrigative”.
L’attrazione reciproca tra il cinema e Sciascia sembra infatti destinata non tanto alla collisione quanto al disguido, all’appuntamento mancato.
In ciò si assimila al rapporto tra il cinema e la stessa Sicilia, almeno nei termini di una celebre analisi di Sciascia.
 
L’ingrossamento cinematografico
 
Ci riferiamo al saggio “La Sicilia nel cinema” del 1963, in cui di questo antico binomio vengono accuratamente esaminate le felici e insieme pericolose relazioni.
A stabilire un inizio, atto tra i più arbitrari e problematici, potremmo, sulla scorta di Sciascia, risalire fino al 1912: “la Sicilia entra nel cinema con Giovanni Grasso protagonista del film Sperduti nel buio: gente che gode e gente che soffre. Un film che possiamo dire siciliano, oltre che per l’interpretazione di Giovanni Grasso e di Virginia Balistrieri, anche lei attrice del teatro siciliano, per la regia di Nino Martoglio” (La corda pazza, Einaudi, 1970, p. 237).
Vi entra, e subito si pone in una situazione di avanguardia, giacché, a detta del critico cinematografico Umberto Barbaro,  Martoglio applica in questo film d’ambientazione napoletana, tratto da una novella del napoletano  Roberto Bracco, “una delle più potenti forme di montaggio, il montaggio di contrasto e di parallelismo; anticipando così non solo Griffith ma anche, quasi di due lustri, i grandi risultati artistici e le limpide teorie del Pudovkin” (Ibidem).
Ma, da un punto di vista filologico, è necessario retrodatare questo inizio pur così precoce e progressivo: “Quel che manca, nel preciso saggio di Barbaro su questo film, è il nome di Verga”. Più precisamente, potremmo dire, l’occhio realistico di Verga. Il suo obiettivo fotografico.
“Perché bisogna pur chiedersi come mai nel 1912, in piena stagione dannunziana e dentro una fiorente industria del cinema prevalentemente indirizzata al film in costume, al film ‘storico’ (e nell’anno successivo si sarebbe toccato il vertice della fortuna commerciale col Quo vadis?), sia nato un film come Sperduti nel buio. E la risposta non può essere che questa: che in Italia c’era, benché in disparte, benché quasi misconosciuto, Giovanni Verga; e che Martoglio, Grasso, la Balistrieri (di lei Barbaro dice: ‘Nessuna Greta Garbo potrà mai fare altrettanto’) provenivano da quel mondo, da quella esperienza, da quella verità” (Ivi, pp. 237-238).
Ma, seguendo Sciascia, attribuiamo a Verga questa primogenitura, ancorché in nuce, nonostante la recalcitranza dello stesso Verga, il quale mostra un certo imbarazzo di fronte ai mezzi stilistici del linguaggio cinematografico, che giunge fino ai limiti dell’incomprensione e dell’estraneità.
In una lettera a Federico De Roberto del 1912, Verga afferma di non aver compreso né apprezzato la riduzione cinematografica di Cavalleria rusticana e si dichiara inadatto a sceneggiare per il cinema le sue novelle o i suoi romanzi e perfino il suo teatro. La presa di distanza è pressoché totale: “Non mi sento di metterci mano nei miei lavori, per il diverso valore e intendimento artistico dato al quadro, spesso disegnato di scorcio, di sottinteso, quasi, con sobria pennellata che sarebbe sciupata altrimenti dall’ingrossamento fotografico. Figuratevi le mie viscere paterne ed anche un poco il mio amor proprio di autore, se volete” (Ivi, pp. 238-239).
E tuttavia, Verga è consapevole che tale “ingrossamento” è una esigenza espressiva imprescindibile e ineludibile (“Ma forse andava rappresentata proprio così, pel cinematografico”).
Ma se Verga comprende l’alterità assoluta del linguaggio cinematografico, ovvero che il suo “ingrossamento del quadro e della sintesi è necessario e necessariamente brutale”, non per questo si sente di condividerne direttamente gli esiti estetici, ché anzi si tira indietro con un moto di istintiva e radicale estraneità, lasciando e perfino chiedendo, con rassegnata accondiscendenza, che altri intervengano sui suoi lavori. E ne facciano quel che vogliono o devono (“Io ve l’abbandono ac  cadaver”).
Non dissimile, sebbene più aggiornato e consapevole, sarà l’atteggiamento psicologico dello stesso Sciascia. Un chiamarsi fuori di matrice verghiana, basato sulla enunciazione di un discrimine invalicabile tra la parola letteraria e il messaggio filmico.
Discrimine che tuttavia implica un dialogo, una scambio vitale e fecondo: una “conversazione”, sebbene indiretta, distorta e spesso malintesa.
 “Vittorini, Brancati e Quasimodo offrirono, più o meno direttamente, i tre diversi temi siciliani al cinema. La Sicilia come ‘mondo offeso’; la Sicilia come teatro della commedia erotica; la Sicilia come luogo di bellezza e di verità” (Ivi, p. 243).
In tal senso potremmo dire che l’opera di Sciascia introduce nello spazio cinematografico il tema della Sicilia vista come luogo del diritto conculcato e della verità occultata.
Luogo conflittuale e contraddittorio,  senza riscatto o addirittura irredimibile, che nel cinema si riflette come in uno specchio ambiguo. Ovvero, e fin dagli esordi, in forma dilemmatica e scissa, per un’intima e radicale lacerazione.
 
Scoperta e smarrimento della Sicilia
 
Sciascia affronta questo nodo, con affilata competenza, sempre nel saggio “La Sicilia nel cinema”, che è un’analisi puntuale quanto impietosa, in cui poco, se non pochissimo, è messo in salvo. Anche qui la memoria focalizza un volto da cui prendere l’abbrivio. Il volto è quello di Angelo Musco, contraltare grottesco di Giovanni Grasso. Comico l’uno, tragico l’altro, ma come in un’erma bifronte.
Tale doppiezza intrinseca contraddistinguerà tutto il cinema sulla Sicilia, come una specie di destino, a partire da 1860 (1934) di Alessandro Blasetti, in cui il realismo implicito dell’obiettivo si accompagna in modo stridente, secondo Sciascia, “all’assunto ‘storico’, fondamentalmente falso”.
Né poteva essere diversamente, se si considera il clima ideologico in cui il film fu concepito e realizzato.
Ad ogni modo, è con Blasetti che s’inaugura nel cinema italiano una “scoperta della Sicilia”, a cui talora il fascismo guarda con sospetto, temendone le implicazioni politiche riguardo a temi scottanti come il sottosviluppo, il latifondo, l’arretratezza sociale.
Un caso emblematico di questo tormentato e complesso rapporto di rivelazione  e insieme di mistificazione tra cinema, letteratura, realtà è il Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Agli occhi dei contadini, cioè per un pubblico che s’identifica esattamente con il tema e il protagonisti del film, l’opera di Rosi funziona come una sorta di rispecchiamento e straniamento onirico.
 
“Uno spettatore non siciliano, che si fosse trovato a vedere il Giuliano di Rosi in mezzo a questo pubblico, sarebbe rimasto esterrefatto a sentire scoppiare risate nel momento in cui sullo schermo la madre piange il figlio morto. A quella scena straziante, il pubblico in effetti reagiva come chi non avendo mai visto uno specchio improvvisamente vi si trova di fronte” (Ivi,  p. 252).
 
Tale capacità di coinvolgimento e di stravolgimento implica un giudizio positivo sulla forza espressiva del film: “bellissimo, intenso film; mai la Sicilia era stata rappresentata nel cinema con così preciso realismo, con così minuziosa attenzione”. (Ivi, p. 253).
 
Tuttavia, l’adesione estetica, che in Sciascia non è mai puramente formale, lascia un margine di perplessità. Un dubbio (extra artistico, per così dire) che muove dall’incredulità del pubblico rispetto alla diretta e reale responsabilità di Giuliano. Cioè da uno scetticismo inammissibile, contro ogni evidenza, che pare quasi un’amnesia collettiva o un rifiuto istintivo e viscerale di accettare il fatto.
Se questa è la risposta emotiva del pubblico siciliano, vi deve pur essere, secondo Sciascia, una ragione intrinseca all’opera stessa.
 
“Una possibilità di equivoco, di ambiguità, doveva dunque trovarsi in parte nel film: e a noi parve di scoprirla nella ‘invisibilità’ di Giuliano” (Ibidem).
 
Ma se in Rosi l’invisibilità metaforica di Giuliano aveva una ragione di interpretazione storica (ossia la dipendenza del bandito dalle “forze, gli interessi, le persone che lo muovevano”), al contrario, per lo spettatore siciliano, per il contadino che si rispecchia nel suo dramma storico, l’invisibilità di Giuliano assume un valore mitico, sacro, religioso.
 
“Un impermeabile bianco e un binocolo, quasi attributi dell’idea: il bianco, la lontananza. E diventa corpo, il bandito, sulla polvere del cortile De Maria, sull’ovale marmo della squallida morgue, sotto il pianto e le mani della madre. Una deposizione dalla croce, un Cristo” (Ibidem).
 
Con una impeccabile soluzione ottica e stilistica, non dissimile sotto certi aspetti da quella con cui Blasetti aveva eclissato Garibaldi dal movimento corale della rivoluzione siciliana, Rosi sottrae Giuliano, l’uomo, il bandito, il ribelle, da una presenza concreta, reale, individuale. Ne fa un fantasma, una sorta di simbolo ambivalente.
Vedremo poi che Michael Cimino farà un’operazione molto più grossolana e mistificante. Ma soprattutto assisteremo (e senza il coinvolgimento identitario ed alienante delle plebi rurali siciliane) a un cinema seriale e commerciale in cui l’estrema visibilità spettacolare della piovra mafiosa coinciderà sempre più ambiguamente con la sua astrattizzazione mediatica e consolatoria, di pari passo a una lettura banalmente turistica della Sicilia e della sua cultura.
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OLTRE IL "BREVEPERIODISMO",PROMUOVERE INNOVAZIONI ATTRAVERSO L'INTERVENTO PUBBLICO

4/10/2019
intervista a Guglielmo Forges Davanzati 


Guglielmo Forges Davanzati (Napoli, 1967) è professore associato di Economia Politica presso l’Università del Salento, e titolare degli insegnamenti di Macroeconomia e di Economia del Lavoro presso la medesima sede. Si occupa di teorie postkeynesiane della distribuzione del reddito, della crisi italiana e dei divari regionali, di Storia delle teorie economiche. Fra le sue più recenti pubblicazioni si segnalano le monografie Ethical codes and income distribution: A study of John Bates Clark and Thorstein Veblen (London: Routledge, 2006) e Credito, produzione, occupazione: Marx e l’istituzionalismo (Roma: Carocci, 2011).
 
Non possiamo evitare di parlare della situazione italiana e in particolare del governo appena nato. Anche Liberi e Uguali è entrato nell’esecutivo. Da più parti si plaude a questa nuova formazione (ad esempio i tre grandi sindacati confederali). Tale ottimismo è basato sull’ipotesi che ci sarà maggiore attenzione alle politiche sociali. Sicuramente c’è una diversità tra il precedente Conte e l’attuale. Ma le premesse non sembrano indicare una significativa svolta. Lei cosa ne pensa?
 
Dal mio punto di vista, la svolta c’è stata, è stata di una rapidità inattesa e, nelle condizioni politiche date, da salutare positivamente. L’essersi liberati dalla Lega al Governo non è cosa di poco conto. Anche alcune premesse fanno ben sperare: penso innanzitutto alla messa in discussione del progetto di autonomia differenziata e anche al superamento della flat tax. E penso a ciò che ha in programma il nuovo Governo per il Mezzogiorno: mi riferisco, in particolare, al piano per il Sud recentemente annunciato, con incrementi di investimenti pubblici, del tutto in linea con le raccomandazioni contenute negli ultimi rapporti SVIMEZ. Non sono un analista politico: posso solo augurarmi che la presenza nel Governo di esponenti di LEU lo spinga nella direzione dell’attuazione di politiche sociali di contrasto a povertà e diseguaglianze (non mi pare che si possa pretendere più di questo).
 
In questi giorni è stata approvata la Nota di aggiornamento al DEF dal Consiglio dei Ministri. Il grande problema è trovare le risorse per scongiurare la clausole di salvaguardia dell’aumento dell’IVA. La futura manovra economica sarà espansiva? E che impatto avrà sulle disuguaglianze ormai sempre più accentuate?
 
A mio avviso, molto dipende da come verrà rimodulato il carico fiscale. Circolano varie ipotesi in merito all’aumento delle imposte per evitare l’aumento dell’IVA, a seguito dell’applicazione delle clausole di salvaguardia. Ben venga il fatto che questo Governo non intende riproporre la proposta leghista della flat tax, imposta per sua natura regressiva e che, se applicata, avrebbe danneggiato le famiglie a più basso reddito (essendo concepita come imposta unica, avrebbe fatto pagare ai più poveri – in termini percentuali – quanto pagano i più ricchi) e avrebbe ampliato i divari regionali. 
Date le condizioni nelle quali versa l’economia italiana, con un tasso di crescita previsto per fine 2019 allo 0,3% (in assenza di aumenti dell’IVA), occorrerebbe modulare la ripartizione dell’onere fiscale in modo tale da riuscire, almeno in parte, a conseguire due obiettivi, peraltro correlati: ridurre le crescenti diseguaglianze distributive e provare a frenare il drammatico declino del tasso di crescita della produttività del lavoro. 
Occorrerebbe rivedere l’attuale struttura dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), rendendola sempre più progressiva, ovvero facendo pagare alle famiglie con più alto reddito aliquote percentuali più alte rispetto a quelle applicate per le famiglie con più basso reddito. Vi è ampia evidenza empirica in merito al fatto che la riduzione delle diseguaglianze distributive (prima e dopo la tassazione) e delle diseguaglianze derivanti dalla trasmissione dei patrimoni è un fattore di crescita. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che la riduzione delle diseguaglianze stimola i consumi, avendo i percettori di redditi bassi una propensione al consumo più alta dei percettori di redditi più elevati. Inoltre, l’aumento del reddito netto delle famiglie più povere consente loro maggiori consumi non finanziati da indebitamento: fattore che contribuisce a stimolare la domanda interna senza la ‘droga’ del credito al consumo. A ciò si può aggiungere l’effetto per il quale l’aumento dei consumi, accrescendo i mercati di sbocco, stimola la crescita dimensionale delle imprese. E imprese di più grandi dimensioni, come diffusamente registrato sul piano empirico (per esempio, in recenti Rapporti OCSE), sono, nella gran parte dei casi, le imprese che fanno registrare il più alto tasso di crescita della produttività del lavoro. 
Aggiungerei che il problema delle ‘coperture’ (dove trovare le risorse) è ovviamente un problema squisitamente politico e non tecnico: è cioè rilevante la decisione relativa a come ripartire poste del bilancio pubblico per le finalità che un esecutivo si propone di conseguire. E aggiungerei che, in tal senso, avere un tecnico, un economista al MEF [Ministero dell’Economia e delle Finanze, NdR] o uno storico è del tutto irrilevante, ed è probabilmente meglio avere un non economista. Quantomeno non ha un modello da applicare (e ben sappiamo quanti danni hanno fatto i modelli economici quando hanno trovato concreta realizzazione: si pensi al caso della cosiddetta austerità espansiva).  
 
La giornata di sciopero globale Fridays for Future dello scorso venerdì ha avuto molto successo a livello planetario. Però c’è ancora timidezza nelle risposte dei paesi che producono e inquinano di più, come USA e Cina. Sarà difficile in un nel momento di crisi economica attuale, con un ritorno al protezionismo statunitense e un calo dell’export cinese e tedesco, provare a riconvertire le produzioni ad alto consumo inquinante, soprattutto se la capacità produttiva è sottoutilizzata. Si discute di un green new deal tedesco e Giuseppe Conte prova a “copiare”, in Italia, promettendo investimenti nel settore energetico a basso impatto. Lei pensa che per rilanciare produzione e occupazione possa essere fruttuoso percorrere la strada della riconversione ecologica? E come queste scelte possono essere comprese dalle popolazioni dei paesi in via di sviluppo e dalle stesse fasce povere dei paesi più ricchi, che non godono dei vantaggi derivanti dal consumismo?
 
Mi limito al caso italiano, consapevole che un ‘green new deal’ deve ovviamente situarsi su una scala non limitata a un singolo Paese e che debba superare la logica ‘breveperiodista’ che ha guidato le scelte politiche degli ultimi decenni. Ritengo che vi sia (e vi debba essere) una saldatura fra crisi ambientale e politiche industriali e per la ricerca scientifica. 
Non vi è dubbio che l’economia italiana avrebbe bisogno – nei limiti dello spazio fiscale disponibile – di investimenti pubblici in ricerca, che attivino un percorso potenzialmente virtuoso di crescita trainata dalla domanda interna e da innovazioni, queste ultime anche finalizzate a contenere i danni ambientali. Si tratterebbe di una misura fattibile ed efficace per l’obiettivo di rilanciare la crescita economica e ridurre la disoccupazione giovanile, per le seguenti ragioni:
·         La spesa per ricerca e sviluppo in Italia, su fonte OCSE, è ferma da oltre un decennio all’1% in rapporto al Pil, a fronte di una media nei Paesi industrializzati superiore al 2% (e del 4% circa della Germania). In più, come certificato dall’OCSE, essa è inferiore alla spesa che lo Stato italiano sostiene per il pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico. La spesa privata per ricerca è prossima allo zero. Le poche innovazioni che le poche imprese private fanno sono per lo più innovazioni incrementali e la gran parte delle innovazioni di cui fanno uso derivano da importazioni di beni capitale ad alta intensità tecnologica.
·         Si stima che i giovani laureati disoccupati o sottoccupati residenti in Italia sono siano circa 1 un milione. Si tratta di individui le cui conoscenze sono non utilizzate o sottoutilizzate (si pensi ai casi sempre più frequenti di laureati camerieri) e potenzialmente occupabili in centri di ricerca pubblici. L’assunzione di giovani qualificati nel settore pubblico avrebbe effetti positivi nel breve periodo di espansione della domanda interna e di lungo periodo sul tasso di crescita della produttività del lavoro. In più, l’aumento degli occupati con elevata qualifica avrebbe ragionevolmente effetti sull’aumento dell’occupazione di lavoratori non qualificati, come risultato dell’aumento della domanda interna conseguente a un aumento dei consumi.
·         Il settore pubblico italiano è notevolmente sottodimensionato e, per numero di dipendenti, più piccolo della media europea, a causa di lunghi periodi di blocco delle assunzioni; blocco motivato con l’idea (non saggia, almeno in una prospettiva di lungo periodo) di generare risparmi pubblici tagliando stanziamenti per il settore della ricerca scientifica. Non è una buona idea: è agevole intuire che le inefficienze della pubblica amministrazione italiana derivano anche dalla carenza di personale, peraltro con età media sempre più alta e più alta della media europea. 
Si tratta di uno scenario che si pone in radicale controtendenza rispetto a quanto fatto dai Governi italiani degli ultimi decenni, incluso l’attuale, non solo perché gli investimenti pubblici (particolarmente nel settore della ricerca) sono stati irrisori e in notevole riduzione nell’ultimo decennio, ma anche perché – anche quando un aumento degli investimenti è stato previsto nelle Leggi di bilancio – a consuntivo il loro importo si è rivelato di gran lunga inferiore rispetto a quanto stimato. Una stima del costo del provvedimento viene presentata a seguire. Per semplicità di esposizione e di calcolo, si confronterà il costo a carico delle finanze pubbliche del reddito di cittadinanza con il costo a carico delle finanze pubbliche di un intervento finalizzato all’assunzione di giovani laureati nel pubblico impiego e nei centri di ricerca. 
La Legge di Bilancio 2019 stanzia un finanziamento pari a 7.100 milioni di euro per l’anno 2019, a 8.055 milioni di euro per l’anno 2020 e a 8.317 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2021. All’interno del fondo, un importo fino a 1 miliardo di euro per ciascuno degli anni 2019 e 2020 è destinato ai centri per l’impiego al fine del loro potenziamento e un importo fino a 10 milioni di euro per l’anno 2019 è destinato al finanziamento del contributo per il funzionamento dell’ANPAL. 
Il bilancio pluriennale 2019-2021 potrebbe finanziare un investimento in ricerca di dimensioni significative, attraverso un programma di assunzioni nel settore pubblico di ricercatori e giovani altamente qualificati. 
Lo stipendio di un ricercatore italiano a tempo pieno al primo scatto di stipendio triennale (ovvero dopo 3 anni dall’assunzione) di circa 2000 euro lordi mensili. Una stima di prima approssimazione porterebbe a quantificare in oltre 300 mila unità i neo-assunti nel settore pubblico, con una spesa complessiva per il triennio 2019-2021 di circa 20,5 miliardi e un risparmio – rispetto allo stanziamento previsto per il reddito di cittadinanza – di circa 1 miliardo all’anno per i primi tre anni.
L’importo complessivo di un programma decennale di ammodernamento della pubblica amministrazione e di investimenti in ricerca ammonterebbe dunque a circa 66 miliardi di euro. Ciò comporterebbe l’assunzione di 300.000 unità nel settore pubblico tra ricercatori e giovani altamente qualificati e con un risparmio di circa 4 miliardi e mezzo nei primi 6 anni rispetto alla spesa prevista per il reddito di cittadinanza. 
 
Da diversi anni a sinistra dibattiamo sul ruolo delle politiche di austerità e della configurazione istituzionale europea nel modellare la crisi economica e sociale che viviamo. La BCE a guida Draghi ha attuato politiche monetarie espansive, ma, per ammissione della stessa, queste non bastano a rilanciare l’economia europea. Perfino il FMI ha modificato le proprie posizioni rivedendo i calcoli dei moltiplicatori fiscali. Nascono e continuano a nascere, anche a sinistra, piccole realtà politiche che mettono al centro della propria analisi la rottura con le istituzioni europee. Ovviamente una rottura dell’UE con gli attuali rapporti di forza fra le classi sociali darebbe luogo a un quadro economico e politico ben più fosco dell’attuale. Però secondo questi movimenti politici sarebbe auspicabile una “uscita da sinistra”, per usare un’espressione di qualche anno fa dell’economista Emiliano Brancaccio; ovvero una ‘Lexit’, termine coniato per la situazione inglese. In definitiva tale ‘exit’ sarebbe condizione necessaria, anche se non sufficiente, a cambiare musica, stando a diversi commentatori non solo italiani. Lei pensa che un discorso politico incentrato su questo tema possa essere utile a ricompattare le frammentazioni e rinvigorire l’intero movimento dei lavoratori?
 
Proviamo a chiarire i termini della questione. La vostra domanda si riferisce al cosiddetto sovranismo, che io definirei – in Economia – come una linea di politica economica basata sulla convinzione che è solo il recupero della sovranità monetaria a poter generare crescita. La sovranità monetaria è intesa nella duplice accezione della possibilità accordata alla Banca centrale di stampare moneta e della possibilità della valuta nazionale di essere svalutata rispetto a valute concorrenti. Si propone, a riguardo, un modello nel quale la possibilità di stampare moneta da parte della Banca centrale fa sì che l’espansione del debito pubblico non costituisca un problema, dal momento che i titoli di Stato verrebbero acquistati dalla Banca centrale. Si aggiunge che la svalutazione della moneta – che presuppone, nel caso italiano, l’abbandono dell’euro – accresce le esportazioni, dunque la domanda aggregata e l’occupazione. Si immagina che questi interventi non abbiano costi e, di norma, questa proposta prescinde dall’esistenza di classi sociali e dunque dei possibili effetti redistributivi di queste misure.  
Il sovranismo è collocabile prevalentemente a Destra, sebbene esistano segmenti importanti del residuo della Sinistra italiana che considerino questa opzione desiderabile. Il principale punto di distinzione sembra risiedere, oltre evidentemente alla radicale differenza ideologica, nel fatto che il sovranismo di destra intende rappresentare gli interessi della Nazione, a fronte del fatto che quello di sinistra intende rappresentare gli interessi di classe (della classe operaia), ritenendo che li si possa difendere lottando contro il capitale finanziario multinazionale che sarebbe alla radice, secondo questa lettura, dell’impoverimento delle classi subalterne e della perdita del loro potere politico.
Nutro qualche dubbio in merito al fatto che sia possibile (e finanche auspicabile) un’uscita “da sinistra”. Come proposto dai suoi sostenitori, questa opzione dovrebbe associarsi alla messa in discussione del libero scambio all’interno dell’eurozona. Qui si pongono due rilievi critici, riferiti all’Italia. In primo luogo, la struttura produttiva italiana è composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, poco orientate alle esportazioni (soprattutto nel Mezzogiorno), fortemente bancocentriche, collocate in settori produttivi maturi: agroalimentare, turismo, beni di lusso. In sostanza, pare di capire che questa tesi non tenga conto del fatto che i problemi dell’economia italiana prima ancora di essere problemi di finanza pubblica sono problemi che attengono alla desertificazione industriale della nostra economia, e che derivano, in ultima analisi, da scelte politiche che risalgono a una stagione precedente l’adozione della moneta unica: in primis, la rinuncia all’attuazione di politiche industriali. A ciò si può aggiungere che l’eventuale attuazione di misure protezionistiche indebolirebbe ulteriormente il già fragile settore produttivo italiano, che già stenta a integrarsi nelle “catene del valore” dell’Eurozona. In secondo luogo, il capitale tedesco non ha molto da perdere dall’adozione di misure protezionistiche in una nuova Europa delle piccole patrie, in quanto una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: le esportazioni tedesche intra-UE, infatti, si sono ridotte negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, si può ragionevolmente ritenere che la sopravvivenza dell’Unione dipenda, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro. Va richiamata, a riguardo, la ben nota tesi di George Soros, per la quale l’Europa starebbe meglio se la Germania abbandonasse l’euro, e la Germania stessa ne trarrebbe notevoli benefici.
Ritengo, infine, che il movimento dei lavoratori – ammesso che lo si possa pensare appunto come movimento organizzato, nelle condizioni storiche date – possa recuperare potere economico e politico a condizione di mettere radicalmente in discussione le misure di precarizzazione del lavoro attuate nell’ultimo ventennio in Italia e nella gran parte dei Paesi OCSE: misure che hanno avuto impatti devastanti sulla coesione fra lavoratori, riducendo drasticamente la union density. È cioè soprattutto sulle istituzioni e sulle regole di funzionamento del mercato del lavoro che oggi si gioca la lotta di classe fra Lavoro e Capitale, non nella denominazione della moneta che abbiamo in tasca. Ed è peraltro una lotta che richiederebbe un coordinamento sovranazionale oggi sostanzialmente assente. 
 
Viceversa, quanti propugnano una mobilitazione sul terreno europeo per un cambio di paradigma (spesa sociale, redistribuzione, piena occupazione) pensano alla modifica delle “regole del gioco” UE, dall’istituzione di un “Doppio Mandato” per la Banca Centrale Europea fino alla ‘Regola d’Oro Aumentata’ proposta da Dervish e Saraceno: fondamentalmente si tratterebbe di obbligare le istituzioni europee a scelte dichiaratamente politiche, squarciando una volta e per tutte il velo “tecnocratico”. Ovviamente anche questa “ri-politicizzazione dell’economia” può camminare solo sulle gambe di movimenti sociali che al momento non ci sono: si tratta però di una direzione di marcia promettente?
 
Su questo Kalecki ha molto da dirci. Per quanto apprezzabile, la proposta di Dervish e Saraceno, a me pare, non tiene conto del fatto che (i) la tecnocrazia non è a-politica (è semmai il nuovo modo di governare in un’agenda neo-liberale, che comunque continua a preservare spazi di democrazia); (ii) le regole possono essere cambiate, a vantaggio dei lavoratori, se questi ultimi guadagnano potere economico – ottenendone il massimo in condizioni di permanente pieno impiego – dal momento che il potere di negoziazione nella sfera politica è fondamentalmente un derivato del potere contrattuale nella sfera economica, a partire dalle relazioni industriali e dalla contrattazione dei salari reali.
 
 
Intervista raccolta da Marco Palazzotto
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IL GESTO E IL SISTEMA

1/10/2019
di Marta Aiello 

In un romanzo che ci è piaciuto di scene che ci hanno colpito ce ne sono molte, ma quasi sempre ce n’è una che ci rimane in testa più di altre. Può essere la scena apicale, quella cioè dove la vertigine del racconto raggiunge il suo punto di tensione; oppure una scena più laterale, che però raggiunge un nostro personale punto di tensione perché ci tocca dove fa ‘ahi’, o al contrario ci viene incontro proprio lì dove stavamo sognando, e resta con noi a dirci che non siamo stupidi o pazzi. A me piace sempre fare una specie di gioco, che procede per esclusione e consiste nel trovare la scena di un romanzo che me lo racconta tutto in un’immagine sola. È la scena che non mi voglio scordare, il patrimonio che capitalizzo per incrementare il tesoro depositato nella banca dati della mia anima. Nel romanzo Divorare il cielo di Paolo Giordano [uscito qualche tempo fa presso Einaudi] la ‘mia’ scena è questa: ci sono cinque giovani di circa vent’anni che vivono in una comune nella provincia pugliese e una sera saltano in macchina, viaggiano per almeno tre ore per raggiungere un mattatoio sperduto nelle campagne di San Severo dove sono rinchiusi dei cavalli che l’indomani mattina saranno portati al macello. Vestiti di nero per mimetizzarsi nella notte, i ragazzi violano la proprietà privata, sollevano il paletto che blocca la porta e liberano i cavalli che si disperdono per tutta la campagna. Con la felicità dei giovani che vogliono cambiare il mondo si rimettono in macchina, fanno altre tre ore di strada nella notte e, soddisfatti, tornano a dormire nella masseria dove vivono. Un gesto. Liberare animali innocenti dalle manipolazioni umane. Salvare la natura. Salvarla solo in teoria perché è ovvio, ed è qui che questa scena mi tocca il cuore (dove fa ‘ahi’), che i cavalli verranno probabilmente tutti recuperati dai guardiani, che il gesto non servirà proprio a niente, che non fermerà certo il traffico della carne equina e che, bene che vada, ce ne potrà essere al massimo qualcuno (uno...?) che scamperà al suo destino di morte voluto dall’uomo. Ecco, è questo. Quello che mi tocca, è qui. Per quel solo cavallo che forse chissà, magari si salva e vivrà selvaggio nelle campagne andando incontro ad un altro destino, per il singolo che forse ce la fa e se non abbatte il sistema intero resta almeno un luminoso testimone di una libertà possibile, è per lui che ogni lotta diventa dignitosa, assume senso, è necessaria per affermarci ‘diversamente’ umani.

Quel gesto mi esalta, mi dà coraggio. Anzi, non il gesto in sé mi commuove, ma proprio la sua pateticità, la sproporzione ridicola a confronto dell’enormità inattaccabile del sistema. Infantile, donchisciottesco, un gesto perfettamente inutile e dunque talmente pieno di grazia da rendermi complice di quella ribellione (se non so fare altro, perlomeno idealmente): di quella lotta impari e picaresca che prende forme innumerevoli nella vita di ciascuno di noi, una guerra che non può essere vinta mai. Per tutte le volte (e sono tante) in cui l’ingiustizia si fa carne attraverso chi esercita il potere sugli umili, gli ultimi, gli indifesi che non hanno voce. Su quel singolo albero, ghiacciaio, migrante, animale che si poteva salvare e in difesa del quale nessuno di noi ha mosso un dito. Liberare i cavalli: un gesto anarchico, un’insurrezione destinata a fallire, com’è regola per ogni utopia. Divorare il cielo è la storia di questa battaglia persa a priori e dunque eroica che ci riguarda tutti, incarnata in questo caso nella vicenda di un gruppo di giovani che rifiutano la loro provenienza borghese e fondano una piccola comunità che difende la natura, smaschera gli sporchi giochi di potere di grossi imprenditori che speculano sul commercio di animali o cavalcano il falso allarme della malattia della xylella che ammazza gli ulivi. Ed è la storia del loro, del nostro fallimento che consiste nella circolarità, nel ritorno all’ordine con cui infine quasi tutti si reintegrano nel sistema, in quelle dinamiche ‘borghesi’ dopo aver provato a vivere allo stato di natura, nel rifiuto del profitto individuale, nell’abolizione della proprietà privata.

Giovani di vent’anni che rifiutando le logiche del Mercato e dello sfruttamento, costituiscono una comunità esemplare di un neofrancescanesimo laico eppure animato di religiosità cristiana (un rientro assai interessante questo tema, nel romanzo italiano contemporaneo), e rifondano una società ideale. C’è chi come Teresa ha lasciato il benessere economico della sua condizione familiare e trasforma i furori dell’adolescenza in scelta di vita, e chi come Corinne si ricorda di essere ‘figlio di papà’ e torna a casa con la prole prossima ventura. C’è chi, come Danco, assume il ruolo di capo ideologico e si fa arrestare pur di fare scoppiare lo scandalo che coinvolge imprenditori senza scrupoli e poteri forti; c’è perfino chi alla sua educazione libertaria reagisce con il suo opposto e intraprende la carriera militare.
​
E poi c’è il protagonista della storia, Bern, novello barone rampante (il romanzo è un dichiarato omaggio a Calvino) che vive sugli alberi per salvarli dalle istanze di abbattimento che nascondono interessi economici di insospettabile entità. ‘Prego ancora. Ma non so più chi prego’, è questa nostalgia di Dio che anima Bern, eroe anarchico e moderno anacoreta, allevato fin da bambino nell’amore di una casa-famiglia dove la bibbia si insegna con l’esempio e la scrittura è sacra perché la vita è sacra; Bern che dell’ecologismo fa la sua religione intransigente, fino a diventarne martire e dunque testimone duro e puro, fino a ritrovarsi in una grotta agonizzante e irraggiungibile, latore di un messaggio che rischia di disperdersi. Non fosse che per l’amore. Della donna che ne ha condiviso la sorte acquistando e per giunta con molto denaro una vita di stenti e solitudine e che, grazie alla fecondazione artificiale (cos’è ‘naturale’? ‘Naturale’ significa ‘giusto’? E cos’è più ‘giusto’, dare la vita a costo di manipolarla o rassegnarsi all’impossibilità fisiologica di procreare?), potrà dare alla luce, forse tramandare un messaggio. Bern capace di sognare per tutti un altro mondo, un mistico contemporaneo, un veggente ormai al confine della sua follia che sfiora la verità intrappolato dentro una caverna in Islanda, sulle cime di montagne irraggiungibili, luoghi sperduti del pianeta, fino a morirne. Amen.

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