ADDAVENÌ JEREMY CORBYN
19/10/2018
di Vincenzo Scalia
Mentre in Europa Continentale attecchiscono i nazionalismi, e l’Italia si propone come laboratorio della post-democrazia mediatica, oltremanica la situazione per la sinistra sembra lasciare spazio a qualche speranza. Jeremy Corbyn, ormai da tre anni saldamente alla testa dei Labour, consolida la sua leadership con un programma politico improntato alle nazionalizzazioni, al rilancio del welfare state, al sostegno alla Palestina, a Maduro e al neo-presidente messicano; nonché – almeno fino a qualche mese fa – all’opposizione al Trident, cioè il sommergibile nucleare. Dopo avere rischiato di essere sostituito ad un anno dalla sua elezione – sottoponendosi ad una rielezione avvenuta col 60% dei consensi – Corbyn sembra avere compreso l’antifona, e in questi anni si è dedicato alla sostituzione della vecchia classe dirigente con nuovo personale politico a lui fedele. La rinnovata militanza in un partito che in pochi anni, grazie alla sua elezione, è balzato da 200.000 a quasi 600.000 iscritti, e da 10.000 a 110.000 attivisti effettivi, ha agevolato questa operazione di rinnovamento. Dall’altra parte, i Tory soffrono delle lotte intestine, iniziate con l’assalto a Cameron attraverso un voto strumentale pro-Brexit e proseguite di fronte all’incapacità di gestire uno scenario non previsto, che ha bruciato in poco tempo Michael Gove, Boris Johnson, e rischia di bruciare anche l’attuale primo ministro, Theresa May. Una maggioranza risicata, delegittimata da una politica di austerità che prevede il taglio dei crediti fiscali per le famiglie meno abbienti e per i lavoratori precari, introdotto nel 2008 da Gordon Brown per tutelare le fasce sociali a bassa capacità contributiva. Lo stesso ex primo ministro ha preconizzato la possibilità di una rivolta sociale diffusa simile a quella scoppiata nel 1990, in seguito al tentativo da parte del governo guidato da Margaret Thatcher di introdurre la poll tax, qualora queste misure venissero implementate. Infine, i sondaggi sembrano dare ragione a Jeremy il Rosso, con i laburisti che viaggiano attorno al 40% nelle intenzioni di voto. Sembrerebbe che si debba prepararci a festeggiare un governo socialista nel breve periodo, con la crisi interna ai Tory che rischia di sfiduciare la May. In realtà, non è tutto oro quello che luccica, e Corbyn dovrà affrontare diverse insidie, sia interne che esterne, prima di accomodarsi al numero 10 di Downing Street. In primo luogo, la destra del partito, che fa capo a Tony Blair e gode di un certo seguito tra i parlamentari, conta di fare breccia in mezzo a quella parte dell’opinione pubblica delusa dai Tory, facendo leva anche sulle tendenze europeiste della fascia affluente della società britannica. La richiesta di un nuovo referendum sull’Europa vede insieme Blair, Brown e l’ex primo ministro conservatore John Major, nel tentativo disperato di autoconvincersi che la Gran Bretagna, e l’Europa, della terza via e della new economy abbiano ancora qualcosa da dire. Inoltre la destra laburista, al fine di scalzare Corbyn, ha scatenato una campagna virulenta, improntata ad una acredine senza precedenti, volta alla demolizione della figura pubblica di Jeremy Corbyn. Dalle accuse di antisemitismo alle dichiarazioni di Blair che lo definiscono “una disgrazia per il partito”, passando per le frequenti accuse di dispotismo di cui si è fatto portavoce anche Gordon Brown, Corbyn sta fronteggiando un fuoco amico la cui insidiosità è speculare a quello a cui è sottoposta Theresa May. L’effetto è stato quello di rendere Corbyn più prudente nelle sue posizioni, per esempio in merito alla Brexit. In questo modo, il leader laburista spera di rassicurare i moderati, ma, alla lunga, rischia di annacquare le sue posizioni radicali. La seconda minaccia interna che Corbyn deve affrontare riguarda la briglia che i sindacati, azionisti di maggioranza del Labour Party e fautori iniziali della sua ascesa, gli hanno posto. La riforma dei criteri per essere eletto segretario adesso prevede, oltre alla candidatura da parte del 5% dei candidati, anche il sostegno di una percentuale analoga dei militanti di Unite, vale a dire la confederazione sindacale britannica. In altri termini, Corbyn venne cooptato dalla direzione di Unite, ma la sua accresciuta autonomia ha spinto i sindacati a modificare le regole per essere candidati. Per rassicurare i sindacati, per esempio, negli ultimi tempi Corbyn ha smesso di opporsi apertamente alla costruzione del sommergibile nucleare Trident citato all’inizio, in quanto l’accantonamento del progetto comporterebbe il licenziamento di operai sindacalizzati ed elettori laburisti. La terza insidia viene dall’esterno. In questo momento la Gran Bretagna vive un periodo di stagnazione economica, che la Brexit senza accordi con la UE potrebbe aggravare. Un eventuale governo laburista, in questo contesto, si troverebbe costretto ad implementare le stesse misure di austerità dei predecessori, finendo per perdere il consenso degli elettori e per avere breve durata, con grande soddisfazione da parte dei blairiani. Già adesso i laburisti corbyniani che siedono nei consigli locali non riescono ad arginare i tagli alla spesa pubblica. Nel futuro prossimo, questa condizione di impotenza, potrebbe aggravarsi. Infine, per quanto Corbyn abbia ravvivato la militanza, il suo Labour ha una struttura friabile. La crescita del partito, infatti, non è dovuta ad un percorso di consapevolezza politica che sfocia nella militanza, ma all’appeal suscitato dalla figura di Jeremy Corbyn, che, in questo senso, si avvicina molto ai leader populisti, di destra e di sinistra, che imperversano al momento [LINK AL PEZZO PRECEDENTE]. I blairiani ne sono consapevoli, ed è per questo motivo che lo attaccano pervicacemente in modo sistematico: sanno bene che, al momento in cui crolla Corbyn, la militanza cresciuta attorno a lui finirebbe per liquefarsi, e loro si riprenderebbero il partito. Se la situazione si presenta in questi termini, diviene maggiormente necessario difendere Corbyn: se Jeremy il rosso non avrà lo scalpo Tory, i blairiani avranno quello suo. A quel punto, anche per la sinistra britannica, e non solo, sarebbe notte fonda….
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L’AFRICA DI MANGANELLI
16/10/2018
di Vito Bianco
Mi piace pensare che prima o poi dal fantastico baule manganelliano di inediti d’ogni foggia e ispirazione salti fuori il resoconto di un viaggio sulla luna coraggiosamente compiuto dall’inappuntabile professor Giorgio Manganelli verso la fine degli anni Sessanta, per conto, mettiamo, di un immaginario Istituto Italiano per la Ricerca Aereospaziale e rimasto sino a oggi inedito per ovvie, e ormai superate, ragioni di segretezza. Cosa mai potrebbe scrivere l’umoroso, il mercuriale Manganelli dopo un’intrusiva permanenza di un paio di settimane sull’astro più cantato vagheggiato sospirato dai poeti? Forse scriverebbe che, al pari di Ascoli Piceno, non esiste, o che in fondo, quanto a bellezza e mistero, è stato dai suddetti poeti sopravvalutato. Nell’attesa che il selenico reportage veda la luce tipografica per la gioia dei ‘Manganofili’ che forse come me lo stanno già sognando a occhi aperti, possiamo goderci questo breve ma scoppiettante Viaggio in Africa(Adelphi), estroso, acuto resoconto frutto di un curioso e imprevedibile incarico “tecnico”: redigere un resoconto sociologico-letterario in vista della realizzazione di una strada lungo la costa orientale di quel continente, dal Cairo a Dar es Salaam (anno domini 1970: nessuna delle due relazioni preparate da Manganelli fu accolta dal committente, la multinazionale Bonifica, che pagò allo scrittore “tre milioni rateizzati”). Ci fosse malizia o rotundainconsapevolezza da parte dell’incaricante, poco importa. Quel che importa è che dobbiamo a un felice “scambio di persona” questo primo imprescindibile capitolo del superbo e insuperato “romanzo di viaggio” dello scrittore milanese, costituzionalmente destinato alla più pavida stanzialità, ma trasformatosi in tempo utile, grazie all’intuizione terapeutica dello psicanalista (e astrologo) junghiano Ernst Bernhard che lo aveva in cura, in un pressoché perfetto trasvolatore di climi e meridiani, di costumi, culture e variegate – quanto inevitabili – superstizioni. Insomma, il viaggio come cura ma, soprattutto, come scrittura. Perché Manganelli, in apparenza svagato e irresistibilmente digressivo, impersona quasi in essenza il modello ideale del viaggiatore: si lascia stupire, talvolta si incanta al cospetto del meraviglioso, ma subito dopo interroga, vuol sapere, cerca le cause, consulta numeri, dati, avanza ipotesi; sa vedere e descrivere come pochi, il suo sguardo è prensile, sempre vigile, coglie i dettagli significativi, le connessioni che aiutano a comprendere; mette lo stile letterario al servizio della nuova e sconosciuta realtà con cui per un certo numero di giorni o di settimane deve fare i conti, trasformando l’esperienza personale, l’avventura, in narrazione. (Cina e altri orientiè, di quanto appena detto, la summa e il punto apicale). L’Africa di Manganelli, l’Africa di quasi mezzo secolo fa è tutto ciò che l’Europa non è: il luogo dell’essenziale, del leggero, dell’impermanente; delle sterminate distanze e della scarsa e dislocata presenza umana. Ma è anche – è bene non dimenticarlo – il frutto di un’allucinazione, di una fantasia alla quale l’uomo europeo ha finito per credere: un sogno di beato arcaismo; un eden, al quale però è impossibile fare ritorno. Da noi il progetto e la storia, l’ansia e il desiderio di futuro; laggiù le stagioni, il tempo ciclico, l’impossibilità della vita che da secoli si scontra con un clima ostile e una geografia difficile. “Appaiono i laghi” scrive Manganelli, fotografando una visione dall’alto: “la vegetazione esplode, il verde si incupisce, l’acqua si scioglie in palude, in terra fangosa e torbida”. In queste terre, la contiguità tra uomini e animale è inevitabile. Negli spazi africani, “uomini e animali cercano l’acqua con pari diritto”; l’uomo e la natura – la vera natura inaddomesticabile – vivono spalla a spalla, si implicano a vicenda in un rapporto regolato da leggi immemorabili. “Il villaggio umano” nota lo scrittore, “si inserisce con sue paure e le sue temerarie angosce in un promontorio di erbe palustri, insetti, belve”. In questo scenario di wildnesse solitudine lo spaesamento è inevitabile; e al ritorno in patria il viaggiatore potrà avere ricordi e impressioni contraddittorie, che cambiano a seconda dell’atteggiamento, della postura mentale o del grado di adesione al fascino di quell’assoluta alterità che si appena lasciato alle spalle. Ancora un’opposizione: in Africa le città sono “rare e lontanissime” dislocate in una estensione terrestre che si configura come un “pachiderma planetario abitato e percorso da insetti lievissimi e provvisori”; in Europa, invece, domina la densità, la programmazione, l’anticipazione nevrotica dell’avvenire. Perciò chi torna da un viaggio africano sarà indotto a contrapporre mentalmente a quella densità “questo pianeta accidentalmente umano”, dove cioè l’uomo sembra letteralmente il prodotto di un caso altamente improbabile. Certo, ci sono città anche in Africa. Per esempio Addis Abeba, una capitale. Ma che città è? Be’, è una città africana, ovvero l’adattamento locale del modello occidentale. E quindi capanne a poca distanza da grattacieli, e strade “larghe, lisce, agevoli, indispensabili per macchine che non ci sono”, dove chilometri “dividono un palazzo da un palazzo, e, in mezzo, umili e umiliate capanne, nascosta talora come una piaga vergognosa”. O Nairobi. Anche qui capanne, un sobborgo nobiliare, un centro e persino una clinica per gente dalla pelle stranamente chiara. Le strade hanno l’aria europea e sono fitte di alberghi. Tutto secondo le migliori e rassicuranti apparenze. Ma appena “fuori da quegli angoli retti” le parole comuni delle società occidentali, dice il nostro reporter, “entrano in deliquescenza”, e la virulenta “lebbra della miseria avvolge tutto senza grazia e senza innocenza”. Da allora non pare sia cambiato molto, e anzi si può dire che la cancrena di quella malintesa e disperante modernità ha fatto il suo corso sino in fondo e non pare esserci scampo. Eppure Nairobi era in quell’anno una delle città più avanzate del continente nero, destinata a diventare sin dalla fondazione un centro economico e operaio. Alla fine degli anni Sessanta contava trecentomila abitanti, un traffico decisamente congestionato, soffriva di sovraffollamento e ospitava una “sterminata bidonville” in una periferia che lo scrittore definisce “torva e sbagliata”, e dove, osserva acutamente, “si riconosce il divorzio tra urbanesimo e arcaicità africana”, un divorzio che ha liberato i mostri che, decennio dopo decennio, sono arrivati sino ai giorni nostri, quando invece un modello diverso di costruzione urbana della convivenza, un diverso modo di intendere la modernizzazione avrebbero potuto e saputo conciliare la cultura della tradizione tribale, in evoluzione, e la prospettiva di un urbanesimo “dal volto umano”. Poi sotto lo sguardo del viaggiatore passano la più mite e umana Mombasa, “una città stratificata dal tempo”, dove il tempo “non ha perso la sua insinuante dolcezza”, e l’orientaleDar es Salaam, fondata dagli arabi nell’Ottocento e in seguito razionalizzata dai tedeschi, i quali imposero un loro ordinato piano regolatore che strinse “il quartiere orientale in una rete funzionale”. Ma oggi, scrive Manganelli, è una città “elegante e asciutta, abitata da uomini dell’interno che ora per la prima volta scoprono la dimensione cittadina”. E di nuovo – impercorribile, impenetrabile – lo spazio, che fa venire quello che ancora si chiama “mal d’Africa”, l’acuto desiderio del ritorno, a nostalgia di una vita che l’europeo non potrà mai avere. Ma una autentica esperienza africana è impossibile per il viaggiatore occidentale, stretto tra il poetico cinematografico e la divulgazione giornalistica che diffonde l’idea di un’Africa “immersa in un’allusione cannibalesca che ci consente un’agevole superiorità etica ed un brivido di rassicurante lontananza”. Estraneità e lontananza, dunque; una terra vasta, diversa e inafferrabile, nel cui perimetro il viaggiatore europeo resta un semplice e protetto spettatore mobile. Tornato a casa, ricorderà se stesso in mezzo “a quella gente e quelle immagini inevitabilmente come una cosa estranea, un errore, una prepotenza”, ricorderà “un viaggio veloce in mezzo a oggetti infinitamente lenti”. Annota Manganelli, a un tempo ironico e profetico: “Qualunque sia la sorte dell’Africa, pensa l’europeo con sollievo, occorreranno secoli per farne una Svizzera”. Bellezza e paesaggio, afferma giustamente l’inviato Manganelli, non hanno nulla a che fare con questo enorme continente, sono invenzioni occidentali inesportabili. La prima è servita all’annessione culturale, che ha accompagnato quella materiale. Il secondo, consolazione romantica del metropolitano, non può esistere in un luogo dove l’eccezione è l’uomo, che vive, “appena appoggiato a un immane dorso geografico, un’irta convivenza di foresta, montagne, vallate progettate nei primi giorni della creazione e depositate su un pianeta paziente” [corsivo mio]. Si potrebbe andare avanti così ancora per molto, seguendo passo passo l’itinerario dello scrittore incantato e lucido, arreso al fascino africano e nello stesso tempo vigile, consapevole, memorioso; passando da un’acutezza a un’impennata stilistica (la meraviglia dei doppi, tripli aggettivi che aprono visioni simultanee cubiste…), da una osservazione psicologica a un paradosso illuminante. Ma è meglio concludere evidenziando una pagina nella quale Manganelli si interroga in modo problematico e sottilmente contraddittorio sull’effetto negativo della speranza che il contatto con l’occidente può innescare; una speranza che già allora sembrava destinata a non essere realizzata, o realizzata nelle forme degradanti e corrotte che conosciamo. “Insieme ai nuovi vestiti e ai nuovi cibi l’africano impara inedite speranze e disperazioni” annota Manganelli. “Si lascia alle spalle il mondo in qualche modo funzionale della tribù, e va verso quale alternativa? La bidonville di Nairobi, la pubblicità delle compagnie aeree dedicata a uomini che vanno a piedi scalzi?” Eppure, tre pagine dopo, lo stesso reporter scrive che la disperazione africana “può essere placata solo da una impetuosa aggressione di futuro” [cors. mio]. Il buon futuro, fatto di giustizia sociale e progresso a misura d’uomo, che laggiù non è mai arrivato, e che molti cercano di afferrare provando avventurosamente di raggiungere le sponde meridionali (ma non solo) di una Europa che non li vuole. di Annibale C. Raineri
Il testo di Annibale Raineri, che qui di seguito pubblichiamo, nasce come contributo alla riflessione che impegna l’Arca in preparazione del Capitolo internazionale che si terrà nel 2019. L’Arca è un movimento nonviolento fondato da Lanza del Vasto nel 1948 (https://archecom.org), che ha una realtà a Belpasso in provincia di Catania (http://www.trefinestre.flazio.com). Tuttavia per le tematiche che solleva e per gli spunti di analisi che offre riteniamo che il suo interesse vada oltre l’ambito al era stato originariamente destinato. Tempo Che cosa è il nostro tempo? Il nostro tempo è una struttura stratificata, in cui coesistono più cicli storici. Noi viviamo simultaneamente vicende non-simultanee: sincronia dell’asincronico. La crisi che viviamo è una faglia in cui – in una congiuntura il cui tempo non possiamo determinare – le diverse rotture, aperte in ciascuno di questi cicli, si sovrappongono determinando un’unica frattura. Essa ci interroga e ci costringe a pensarla prima che, richiudendosi, ognuno dei diversi cicli riprenda la sua differente sincronia e si renda meno comprensibile. Primo ciclo In primo luogo possiamo definire il nostro tempo come il tempo della guerra. È questa la caratteristica più importante, ed insieme ciò che immediatamente si presenta innanzi a noi, si offre alla nostra vista sebbene volgiamo lo sguardo da un’altra parte. Un unico paradigma unifica guerre fra stati, terrorismi, costruzioni di muri fisici, costruzione di muri simbolici, riduzione in schiavitù. Non dobbiamo lasciarci ingannare dal fatto che guerre locali non siano mai cessate: dopo i due massacri delle guerre mondiali si era istituito, nel discorso pubblico, il pensiero che la guerra non fosse un modo legittimo di risolvere le controversie internazionali. Al contrario nel tempo presente la guerra è nuovamente legittima. È un cambiamento enorme. La sua legge consiste nella legittimità dell’uccidere sistemico: posso uccidere l’altro perché gli nego lo statuto di essere umano, posso ucciderlo perché l’ho già ridotto a mera cosa, lui, essere umano vivente. Insisto: se posso legittimamente ucciderlo, esso è già, pur vivendo, mera cosa, un’anima che alberga in una cosa, condizione paradossale (Simone Weil). Il destino di morte cui sono costretti da politiche attive i migranti in ogni parte del mondo, e non solo nel Mediterraneo, è il segno più eloquente di questo paradigma, il grido che più ci interpella. Al paradigma della guerra corrisponde il principio identitario: umani sono solo i membri della comunità cui io appartengo, fondata sulla identità nazionale, etnica, sociale. Il riaffermarsi di questo principio, che legittima il ritorno della guerra, sembra la risposta alla crisi sociale prodotta dall’ondata neoliberista che ha soppiantato il ciclo fordista-keynesiano. È questo il primo dei cicli storici che coesistono nel presente del tempo che viviamo. Il suo orizzonte temporale abbraccia l’arco degli ultimi anni, ma ipoteca fortemente il nostro futuro. Esso ha la potenza dell’immediatezza che afferra i corpi. Secondo ciclo L’onda nera, razzista e neonazista, che attraversa l’Europa e gli Stati Uniti, sembra avere un carattere reattivo: cercare, con costruzioni immaginarie, di rifondare una forte identità, un senso collettivo di sé, un principio di autorità che dia stabilità all’universo sociale dentro cui si svolgono le nostre vite. Il senso profondo di anomia, di mancanza di sicurezza e stabilità, non sono però solo l’effetto dell’ultima congiuntura economico-sociale, essi sono il prodotto strutturale di una tendenza secolare che agisce nel profondo delle nostre società e che si impone con una andamento oscillante ma determinato, che diviene evidente nelle periodiche crisi economico-sociali che lo caratterizzano. Questa tendenza è propria della dinamica del capitale. Il secondo strato del tempo presente è quindi il tempo del capitale, un ciclo storico che abbraccia gli ultimi trecento anni, in cui l’epoca della democrazia (liberale) sembrava aver realizzato l’ideale. Capitalismo non è oppressione sociale, è quella formazione sociale in cui domina il denaro, in cui cioè il denaro in quanto capitale è in posizione dominante. Denaro è, in questo senso, una forma di relazione sociale (fra gli essere umani che sono sottoposti al suo dominio) dotata di vita propria, cioè di una intrinseca tendenza espansiva (denaro che produce più denaro) e caratterizzata dall’essere mera relazione quantitativa, qualitativamente indifferente (nello scambiare un kg di mele con una cerniera attraverso la identica misura in denaro del loro prezzo, si istituisce non una relazione fra due cose ma una relazione – sociale – fra esseri umani, e si struttura questa relazione come relazione meramente quantitativa, qualitativamente indifferente, “piatta”, superficiale, senza profondità). Il capitale è una relazione sociale dotata di una straordinaria potenza espansiva (se non si espande, crolla), che progressivamente penetra in tutti gli ambiti della vita: dalla produzione di oggetti concreti alla produzione dell’immaginario sociale (televisioni commerciali), alla produzione di strutture di relazioni interpersonali (social network: facebook, twitter, instagram, whatsapp), fino alla penetrazione nella riproduzione biologica della vita (ogm e biotecnologie), e della vita umana. Questo lungo processo ha come effetto: - progressiva dissoluzione di ogni fissità sociale tramandata - dissoluzione di ogni autorità - individualismo sempre più accentuato e dissoluzione di ogni legame sociale concreto - relazioni prive di stabilità e durata - relazioni prive di profondità A livello di questo ciclo storico, la riproposizione ideologica dell’autorità e del potere dello stato sovrano, combinato con il diffondersi di ideologie razziste, nazionaliste e neofasciste, appare come il tentativo (periodicamente riproposto) di contrastare la tendenza di lunga durata delle società capitalistiche, ricostruendo (illusoriamente?) senso di identità duraturo, certezza di sé, stabilità della struttura sociale. La guerra è la pratica sociale che, paradossalmente, più si presta a realizzare questo compito, in quanto combina “virtuosamente” “rinforzo identitario” e lotta di potenza fra le diverse componenti sociali (sia verticalmente che orizzontalmente) delle concrete società capitalistiche, per loro natura anarchiche. Il paradigma della guerra è quindi, oggi, punto di intersezione fra il ciclo immediato della congiuntura storica attuale ed il ciclo lungo del tempo del capitale. Terzo ciclo Il tempo della guerra, infine, si sovrappone al lunghissimo tempo della storia umana inaugurato dall’imporsi del patriarcato e da forme di comunità umane fondate sulla coppia amico/nemico, che erigono muri ed armano eserciti (a segnare simbolicamente questo passaggio è il confronto fra l’antica Cnosso priva di mura e la rocca di Micene). Non è un caso che negli anni trenta del secolo scorso Simone Weil, mentre l’Europa si avvia verso l’epoca più nera della sua storia, si rivolge all’Iliade omerica per intendere il tempo che sta vivendo, che interpreta come espressione pura del lungo ciclo storico delle società fondate sull’oppressione: la forza come potenza della “bestia sociale”. (Significativamente Simone Weil indica fra i principali errori di Marx l’aver ignorato il ruolo della guerra nella storia umana, considerando unicamente la lotta sociale, indice ulteriore della sua subalternità alle idee del XIX secolo). Identicamente Lanza del Vasto in quegli anni parte per l’India dove diviene discepolo di Gandhi, e in quel “oltre l’occidente” individua nella nonviolenza l’orizzonte spirituale per uscire da quella storia dell’uomo di cui la notte dell’Europa è manifestazione estrema. Il terzo strato del tempo che stiamo vivendo è quindi quello del lunghissimo ciclo che abbraccia cinquemila anni della storia umana, il tempo del patriarcato e degli stati. Il carattere fondante che la guerra ha in questo universo sociale fa sì che il paradigma della guerra sia punto di intersezione del tempo attuale anche con questo lunghissimo ciclo della storia umana. Confrontarsi con questo lunghissimo ciclo, segnato dall’imposizione del patriarcato e di forme di comunità fondate sulla coppia amico/nemico, e sulla negazione del carattere umano (non “meramente animale”) della generazione della vita umana e della cura di e per essa, significa fare i conti con la potenza sociale della forza – in particolare quando essa si organizza a partire dal carattere concentrato e monopolistico della violenza. Arca La sconfitta dell’ipotesi di cambiamento radicale della condizione umana per via politica, che era stata la scommessa del ’68, ha riattivato la ricerca di trasformazione profonda delle forme di vita come risposta all’istanza di radicalità. Questo processo ha coinvolto molte esperienze e molti ambiti, di cui senz’altro il più rilevante, per i suoi effetti e per gli insegnamenti che ha prodotto, è stato il movimento delle donne (penso al pensiero della differenza); ma sono stati coinvolti anche ambiti provenienti dal marxismo rivoluzionario (penso ad esempio alla evoluzione/trasformazione di Socialismo rivoluzionario in La comune umanista socialista). Anche l’ambito del movimento non violento è stato toccato da questo processo, ed in esso in particolare l’Arca. Lo sviluppo e la riflessione sull’esperienza della vita nelle sue case comunitarie hanno portato l’Arca ad immaginare una via per affrontare il dilemma fra le due alternative non mediabili: svuotamento di senso-superficializzazione della vita versus costruzione identitaria attraverso la coppia amico/nemico. Questa via consiste nell’approfondimento della dimensione relazionale del legame comunitario fondato sulla differenza e non sull’identificazione, dimensione che si sviluppa lungo i tre assi della relazione con l’Altro che abita il centro interiore di ciascuno, della relazione con la sorella ed il fratello che vivono accanto a me, della relazione con la Terra di cui mi prendo cura attraverso il lavoro. La nonviolenza, in questa evoluzione, viene sviluppata come dimensione positiva (non oppositiva) di costruzione di stili di vita che si sottraggono al potere violento e oppressivo dei sistemi sociali, potere che, proprio in forza del suo carattere sistemico, sovrasta il singolo gettandolo nell’impotenza. Si tratta cioè, anzitutto, di sottrarsi alle regole del gioco del sistema sociale, non di contrapporsi ad esso in una battaglia frontale. Il valore di questa direzione della vita è immediatamente evidente quando la violenza sistemica assume le forme del potere democratico, in particolar modo nella sua forma perversa (in Italia esemplificato dal governo Berlusconi), e il mondo sociale assume la forma della piena libertà individuale del consumismo (libertà di scegliere fra le infinite opzioni di godimento offerte dal mercato). In queste formazioni sociali il potere (conformato al denaro-capitale) si presenta come un muro di gomma che progressivamente assorbe ogni tentativo oppositivo. Di fronte ad esso non vi è altra strada che perseguire il proprio indirizzo di vita con coerenza, mirando con forza metodica all’essenziale. Tuttavia, come penso ormai da qualche anno, siamo entrati in un’altra fase, se ciò che ho esposto all’inizio corrisponde effettivamente allo spirito del tempo. Viviamo tempi drammatici dai quali dobbiamo lasciarci interrogare, senza voltare lo sguardo altrove. L’immagine dei trattamenti subiti dai migranti e delle vittime civili delle guerre sono innanzi ai nostri occhi. Il primo passo è uscire dalle nostre case, dalle nostre comunità, essere presenti accanto a chi subisce violenza, ed insieme camminare accanto ai tanti in movimento animati da un’irriducibile sete di giustizia. Essere presenti al nostro presente, tempo della disumanizzazione del mondo, là dove l’esercizio della forza riduce, per propria natura, esseri umani a mere cose, là dove non soltanto chi è sottoposto alla forza oppressiva perde la propria umanità, ma anche chi quella forza agisce (Simone Weil); tempo in cui la violenza torna in tutta la sua evidenza brutale a mostrarsi come il modo di funzionamento della macchina sociale, sbattuta in faccia ad ognuno senza che si possa più dire “non avevo visto”. No, la sottrazione non basta più, sebbene continui ad essere dimensione fondamentale del vivere libero. Di fronte alla affermatività del male non basta sottrarsi alla sua seduzione, occorre fronteggiarlo. Ogni tempo richiede un diverso bilanciamento dei principi che guidano il vivere secondo giustizia e verità: oggi è tempo che il Sì torni a sostenere e far vivere il No dei profeti, e che la forza interiore si trasformi in potenza di interdizione. Il duro nodo della forza è nuovamente la questione alla quale non possiamo sottrarci. Annibale C. Raineri Palermo 25 agosto 2018 |
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