di Vincenzo Scalia
Negli anni settanta Jurgen Habermas teorizzava la crisi di legittimità, definendola come il disconoscimento di una classe politica da parte dei suoi governati in seguito ad uno scollamento tra bisogni e aspettative di una società e la politica effettivamente perseguita dagli attori investiti delle prerogative pubbliche. Sin dal primo decennio del 2000, stiamo assistendo esattamente a questo fenomeno in tutto il mondo occidentale: disaffezione dell’elettorato verso i partiti tradizionali, alto tasso di astensione, formazione di movimenti populisti o comunque critici verso la dialettica politica tradizionale, incapacità da parte dei sistemi politici di tradurre in outputs corrispondenti, almeno in larga parte, ai desiderata dell’elettorato, le loro scelte. Le ragioni di questa crisi di legittimità sono molteplici: in primo luogo, il crollo del muro di Berlino ha sancito, con la fine dell’ultima utopia, la trasformazione della classe politica in amministratrice della contingenza. In secondo luogo, la modifica radicale della composizione di classe intervenuta dalla fine degli anni settanta in poi, pare aver decretato la fine “politica” degli aggregati collettivi - le classi in primis - deviando il conflitto verso direttrici “orizzontali”, come il genere, la razza, gli stili di vita. Definizioni senz’altro legittime, ma prive di respiro a lungo termine e non articolabili in senso di trasformazioni collettive. Infine, l’egemonia della precarietà economica ed esistenziale ha finito per produrre, presso individui e gruppi sociali, un panico morale che si traduce, sul solco di quanto teorizza Zygmunt Baumann, nella creazione di comunità di “complici”, che si compattano per breve tempo attorno allo scopo effimero di individuare e perseguire il capro espiatorio di turno. Ecco i Le Pen, i Salvini, i Grillo alla caccia di politici, immigrati e musulmani. Dalla crisi di legittimità scaturisce un circolo vizioso, che vede i politici inserirsi nella gara di costruzione del capro espiatorio, finendo per esacerbare il clima generale e deteriorando ulteriormente sia le condizioni materiali, sia la convivenza civile. La parabola di Theresa May si inserisce proprio all’interno delle dinamiche sopra delineate, che hanno interessato il Regno Unito forse prima delle altre società europee in quanto è proprio Oltremanica che il neo-liberismo si è manifestato nella sua esplicitezza più cruda. Sul piano della politica, Margaret Thatcher ha senza dubbio scompigliato le carte. Le sue riforme hanno, infatti, privato a lungo termine i laburisti della loro base tradizionale. La distruzione dell’assetto sociale britannico degli ultimi trent’anni ha, infatti, comportato la disaffezione e l’alienazione di una parte della classe operaia che non si sentiva più garantita dai laburisti, e che ha preferito ritirarsi dalla vita pubblica o spostarsi a destra, o ancora, al limite, votarsi a una trasgressione improntata agli stili di vita (vedi gli squatters) o a proteste mirate, a breve termine, come quelle contro la poll tax dei primi anni Novanta, che non hanno tuttavia generato soggetti politici radicali che potessero incidere in prospettiva sugli equilibri di potere. Dall’altra parte il partito laburista ha scelto di spostarsi al centro, isolando o espungendo le sue appendici più radicali e puntando sulle nuove classi medie, culminando nella terza via blairiana, che si muoveva però sempre dentro l’orizzonte neo-liberista. La recessione del 2008, nonché le prove sempre più schiaccianti che Blair avesse mentito per portare la Gran Bretagna al fianco degli USA nella seconda guerra del Golfo, hanno finito per rovinare i laburisti. La vittoria di Jeremy Corbyn appare come un tentativo disperato di rivitalizzare un partito divorato al suo interno da lotte intestine, anche se la seconda elezione del leader della sinistra laburista lascia prefigurare un orizzonte tutto sommato meno fosco. Per i Tories la Lady di Ferro si è rivelata, a lungo andare una vera e propria Medea. Il carisma, il piglio decisionale della Thatcher, non ha permesso il rinnovamento di una classe dirigente che, tornata al potere nel 2010 sull’onda della delusione causata dai laburisti, si è trovata ad affrontare la recessione del 2008 senza saper fare altro che riproporre le ricette della Grande Sorella, pensando di vivere di rendita. Ne è invece scaturita la crescita dapprima del British National Front di Nick Griffin, in seguito dell’UKIP di Nigel Farage, alla loro destra. Entrambi sottovalutati. A tal punto che l’ex primo ministro, David Cameron, non soltanto ha deciso di indire un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea con insipienza e superficialità, ma non ha nemmeno svolto una campagna elettorale incisiva per vincerlo. Il dibattito sulla Brexit si è rivelato la cartina di tornasole della classe politica Tory, col partito diviso sulla permanenza all’interno dell’Unione Europea non per ragioni ideologiche, quanto per motivi strumentali. Sia Boris Johnson che gli altri membri della maggioranza avevano infatti trascurato il fatto che le elezioni del 2015 avessero conferito ai Conservatori una maggioranza di soli 25.000 voti, dovuta più che altro alla mancanza di una proposta politica incisiva da sinistra, così da spingere molti elettori all’astensione o a votare Farage. Ci si è così ritrovati di fronte ad esponenti di spicco Tory, o addirittura ministri, fare campagna contro il proprio stesso moderno, convinti che il “Remain” avrebbe vinto comunque, e che la questione fosse tutt’al più indebolire e disarcionare Cameron per sostituirlo. I fatti hanno preso una direzione diversa, causando un imbarazzo generale di fronte a scadenze politiche tanto inaspettate quanto serie: come gestire la svalutazione della sterlina del 20%? Il calo del potere d’acquisto di fronte alla fine del mercato unico? La perdita di milioni di posti di lavoro che riguarda anche, se non soprattutto, quella economia dei servizi fortemente voluta da Margaret Thatcher, in nome del quale si è distrutto un patrimonio industriale di trecento anni? È all’interno di questo dilettantismo politico che si è fatta strada Theresa May, ministro dell’interno sotto Cameron, estranea alle battaglie per la leadership che coinvolgevano Boris Johnson e George Osborne, prontamente defilatisi il giorno dopo il referendum. L’attuale primo ministro, come i suoi colleghi di partito, non è in grado di gestire la Brexit, uno scenario non previsto fino a pochi mesi fa, e, incapace di delineare una strategia propria, soffia sul fuoco dei populismi, puntando sulle corde stantie del sovranismo britannico e sulla frustrazione della precarietà sociale diffusa. La società inglese infatti si presenta sempre più frammentata dopo quasi quarant’anni di neo-liberismo: il settore manifatturiero occupa ormai soltanto l’8,5% della popolazione attiva. Rimangono i lavori del cosiddetto “terziario arretrato”, vale a dire la parte dequalificata dei servizi, dove la vecchia classe operaia bianca deve competere con afro-caraibici e polacchi, rimuginando attitudini razziste, esacerbate dalla presenza di 3.600.000 lavoratori dell’Unione Europea, attivi anche nei settori più qualificati, come l’economia della conoscenza, o remunerativi, come la ristorazione. Una nuova classe lavoratrice, che non si unisce, ma si divide semmai per linee etniche, religiose e di stili di vita. Su cui soffia minaccioso il vento dell’integralismo islamico: il Paese ospita la seconda comunità musulmana dell’Europa Occidentale, ha già subito attentati terroristici e denuncia 600 foreign fighters arruolati nelle file dell’ISIS. Gli ingredienti per esacerbare le tensioni ci sono tutti, e la May, priva di legittimità e di prospettive, li rimesta per rimanere disperatamente in sella, tralasciando di valutare le conseguenze economiche e sociali dell’Hard Brexit. Jeremy, salvaci, tu...
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di Pavlov Dogg
C’era una volta l’America pesce-pilota, l’America che indica la strada al mondo, l’America dove le cose succedono almeno 5 anni prima che in Italia. È una storia che ha “funzionato” a lungo: e tutta l’interpretazione postmoderna della cultura dello Stivale si regge in larga misura su questo schema. Poi, però… poi però il Secolo Americano è finito. E poi, però, un bel giorno, un giornalista del Manifesto (credo Matteo Bartocci, ma non sono sicuro) definì in un editoriale – così, con nonchalance – Al Gore come il “Walter Veltroni d’America”, invertendo il senso di marcia dei pesci-pilota. E adesso, però, abbiamo appena visto Donald Trump condurre una campagna elettorale che pare frutto di un prolungato, approfondito studio della carriera politica di Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Il cinema non è ovviamente estraneo a questo andazzo: e se il grande Sciascia sosteneva che la ‘Palma va a Nord’, io, più modestamente, avendo appena visto American Pastoral, diretto e interpretato da Ewan McGregor, posso con tranquillità affermare che Veltroni ha preso casa ad Hollywood. Forse, tuttavia, sono ingiusto. Perché, se è effettivamente tipico di una cultura “veltroniana” prendere la Tragedia Personale e raccontarla come Eterna Adolescenza; prendere la Storia e farne una puntata de I Migliori Anni che Carlo Conti disconoscerebbe; prendere i Conflitti Sociali e farne talk-show; e anche se la sceneggiatura di John Romano (già responsabile di Prima ti sposo e poi ti rovino, film palloso dei Coen) fa esattamente tutto questo della vicenda dello Svedese [un probo cittadino la cui figlia Merry diventa terrorista: non racconto altro a chi non avesse letto il libro] , è anche vero che più di una volta, nel corso della proiezione, di fronte alle certezze di cui trasuda il film, ci si riduce al punto di desiderare qualcuno dei “Ma Anche” di cui il Baracca de Noantri detiene il copyright. Certo, c’è il “comune destino” (cit.) dell’imprenditore (lo Svedese) e della dipendente (la fida Vicky), però non prendiamoci in giro: l’episodio della fabbrica – durante i moti di Newark del 1967 – sta lì rigorosamente a proibire qualsiasi manifestazione di radicalismo politico a chi non sia nero e non lavori con le mani: le forme di impegno civile concesse a tutti gli altri consistono nel mormorare dissenso nei confronti del presidente Johnson davanti alla TV (ma senza parolacce, per carità) e nel “far bene il proprio lavoro” o tristezze equivalenti. Sto dicendo che il film ha “tradito” il romanzo da cui è tratto? Sto dicendo che il film “non è all’altezza” del libro di Roth? Nossignore. La questione è più grave. American Pastoral è uno di quei film che gettano una sinistra luce retrospettiva sul celebrato capolavoro che mettono in scena. Che ne sciolgono ogni ambiguità nel peggior modo possibile, ma ciò facendo ci costringono ad ammettere che l’ambiguità c’era, stava lì in bella mostra nel romanzo. Ogni cosa che in Pastorale Americana di Philip Roth poteva avere un’interpretazione intelligente ed una cretina, qui è interpretata alla seconda maniera, ma secondo una dinamica tale da farti angosciosamente sospettare che la seconda sia proprio la maniera “giusta”. Intendiamoci bene:Pastorale Americana è un capolavoro; ma è un capolavoro soprattutto per la geniale manipolazione dei punti di vista e deilivelli del racconto: il punto di vista dello Svedese non coincide con quello della moglie Dawn, né con quello del fratello Jerry, il quale racconta tutta la storia a Zuckerman, che la ri-racconta a noi e che – notoriamente, per chi ha letto qualcosa dello stesso autore – contemporaneamente è e non è Philip Roth. Un moltiplicarsi di “postazioni” dalle quali osservare la storia e la Storia, che reca al lettore un salutare - almeno così credevo quando ho letto il libro, quasi venti anni fa - senso di confusione, affratellandolo allo spiazzatissimo Svedese. Anni dopo lessi una cattiva, ingenerosa – almeno così pensavo all’epoca – recensione di Dale Peck (l’Hulk Hogan della critica USA), al quale non fregava assolutamente nulla di tutta questa faccenda di livelli e punti di vista, e identificava senz’altro uno dei pensieri meno felici che vengono in testa allo Svedese nel corso romanzo (quello per cui tutti i fermenti degli anni Sessanta “altro non erano che rabbioso, infantile egoismo, appena camuffato da identificazioni con gli oppressi”) addirittura con il punto di vista dello stesso Roth. Be’, il film fa vedere esattamente quanto sopra: e a Roth il film è piaciuto, parola di McGregor. Le complessità del libro rimangono – sappiamo che bisogna credere al romanzo e non al romanziere ! – ma l’equilibrio interpretativo ne esce inevitabilmente modificato. Ancora: Dale Peck accusava senza giri Pastorale Americana di misoginia. Questa era, in verità, un’accusa credibile già nel 1997, ma il prestigiatore Roth è sempre bravissimo a “camuffare” [ora ci vuole] la misoginia da altro: e nel far ciò dice altre cose vere e interessanti, sebbene non vere soltanto o soprattutto delle donne. Anche in questo caso, tuttavia, la narrazione piatta del film esclude ogni gioco d’artificio e relativo fumo: Merry è gelosa, Dawn egoista, Rita Cohen fuori di cervello, l’amica di famiglia psicoterapeuta combina macelli; si salva solo la fida Vicky, in virtù di un collaborazionismo di genere oltre che di classe e di razza. Gli uomini invece, a partire dallo Svedese e dal vecchio pater familias Lou, ma anche Jerry e Zuckerman [ottima qui la scelta di David Strathairn, tragicamente sottoutilizzato] sono tutti modelli di equilibrio e generosità esistenziale. E per finire: nel libro era sì centrale il triangolo freudiano finito “a schifìo” padre-madre-figlia, ma lì c’era ancora lo spazio narrativo per immaginarlo ancillare rispetto alle grandi forze motrici storiche (il Vietnam, i conflitti razziali e di classe, la nascita dei “giovani” come soggetto politico, la crisi della famiglia…); nel film la centralità del triangolo è assoluta, e viene davvero il sospetto che il famoso bacio dato/non dato la facesse tutto sommato da padrone anche per Roth. Ma come… (già vi sento) …il film non ti ha commosso? Boh…se la lacrimuccia semi-automatica di fronte alle disgrazie del povero Svedese [come attore McGregor mi ha convinto, costruendosi un suo personaggio di ebreo americano un po’ alla George Segal, meno vispo ma più intenso] significa commozione, allora sì. Ma un minuto dopo la grottesca, pasticciona carrambata finale [e qui lo scarto con la magistrale conclusione del romanzo, il sorprendente “movimento di camera” sul vecchio Levov, è davvero enorme] ha tolto ogni rimasuglio di credibilità a tutta la faccenda; e mi ha fatto tornare in mente Dale Peck. Se vi interessa, potete leggere il suo pezzo nella raccolta Hatchet Jobs (2004). RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
21/10/2016
di Marco Palazzotto
Il fascismo è nel DNA degli italiani, la Resistenza un’anomalia, non per caso lasciata cadere nell’oblio (Umberto Santino) La strage rimossa. Nola, 11 settembre 1943. La Sicilia e la Resistenza (Di Girolamo 2016), è un libretto in distribuzione da poche settimane, pubblicato proprio nel periodo in cui si vorrebbe mettere una pietra tombale sulla Resistenza e sulla Costituzione italiana. Umberto Santino raccoglie una serie di testimonianze e documenti storici per raccontare la strage avvenuta nel 1943 ad opera di alcuni ufficiali nazisti. Le vittime: 10 ufficiali italiani. L’idea nasce da racconti ascoltati dall’autore in ambito familiare: infatti tra gli ufficiali italiani uccisi in quell’episodio c’era anche Mario De Manuele, zio della moglie di Santino. L’eccidio è avvenuto l’11 settembre del 1943 a Nola, a soli tre giorni dal famoso 8 settembre, giorno dell’armistizio di Cassibile, firmato dal governo Badoglio del Regno d’Italia con gli Alleati. L’appassionante racconto storico di Umberto Santino mette in luce aspetti poco esplorati di quella vicenda: ad esempio il rapporto con i tedeschi rimane a tutta prima immutato, e nello stesso tempo vengono avviate trattative segrete con gli anglo-americani. Mussolini viene arrestato, poi liberato dai tedeschi: da Salò proclamerà la Repubblica omonima durante la quale il rapporto con i tedeschi sublimerà in totale sottomissione. La ricostruzione dell’eccidio di Nola da parte di Santino inizia con una breve storia della città, famosa per aver dato i natali a Giordano Bruno, filosofo bruciato al rogo dall’Inquisizione nel 1600 e al quale sono dedicati diversi monumenti della cittadina napoletana. Quella dell’11 settembre può essere considerata la prima strage operata dai nazisti dopo l’armistizio del Cassibile e dimostra quanta efferatezza e crudeltà caratterizzasse i gerarchi tedeschi dell’epoca. Nelle esecuzioni, come quelle avvenute a Nola, veniva applicata la regola del 10x1: per ogni tedesco ucciso dovevamo morire 10 italiani. E così avvenne nella caserma Principe Amedeo di Nola nella quale 10 ufficiali italiani vennero prelevati su ordine del maggiore tedesco Walter Reder e fucilati nella piazza antistante. Nella stessa piazza dove il giorno prima, nello scontro tra forze italiane e tedesche, era caduto un militare nazista. Nella seconda parte del volume Santino affronta temi come Resistenza, crisi dell’antifascismo e demolizione della Costituzione italiana. Nell’esprimere le proprie opinioni il Nostro raccoglie varie testimonianze sugli argomenti suddetti. Interessante in particolare la posizione di Claudio Pavone, secondo il quale “c’era una sostanziale continuità tra fascismo e nuovo Stato, con la ricomposizione del blocco dominante e il permanere degli stessi funzionari nell’apparato burocratico” (p. 73). La storiografia negli anni ‘60 s’interrogherà sul ruolo della Resistenza nella storia italiana mettendo al centro dell’attenzione il rapporto tra continuità e rottura. In questo periodo Santino fu testimone di tale dibattito, in cui s’inseriscono gli studi di Guido Quazza secondo il quale la Resistenza diventa una lotta di liberazione da riprendere e attualizzare. “Per Quazza la Resistenza si colloca all’interno di una prospettiva di lungo periodo segnato dal passaggio dall’età liberale al fascismo e dal fascismo alla democrazia repubblicana. Modificazioni sociali, politiche e istituzionali che convivono con elementi di continuità come l’immutabilità dei gruppi di potere economico-finanziario e degli apparati burocratici”. (p. 83) Secondo Luciano Canfora le formazioni partigiane si muovevano nella prospettiva che la guerra potesse concludersi con un “finale” anticapitalistico. Ovviamente questa non fu mai la strategia e l’obiettivo del gruppo dirigente comunista, come dimostra – sempre secondo Canfora – l’atteggiamento di Togliatti, regista autorevole del periodo postbellico. Alla fine del volume Santino discute sulla contrapposizione Fascismo/Antifascismo, che dagli anni ‘90 in poi viene abbandonata per far posto ad una retorica anticomunista. All’epoca dei governi Berlusconi nel dibattito pubblico la Costituzione diviene opera dei comunisti legati alla ex-URSS. Si recuperano narrazioni anticomuniste come quella delle foibe. S’indice addirittura un giorno di ricordo dei crimini dei partigiani di Tito, voluto fortemente anche dall’ex comunista e allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Comunismo e nazifascismo sono messi sullo stesso piano. Il “problema” diventa la Costituzione italiana, fondata sulla Resistenza e frutto, secondo Umberto, di “un patto-compromesso tra varie culture, la cattolica, la liberale, la socialcomunista, che ad un certo punto si è rotto e non si è più ricomposto” (p. 88). La domanda che ci si pone in coda al lungo dibattito seguito al 70° anniversario del 25 aprile è se l’Italia si sia davvero liberata dal fascismo. Secondo Santino in una prima fase si è costruito il mito della Resistenza (peraltro enfatizzando la partecipazione popolare alla lotta partigiana e sottovalutando al contempo il ruolo giocato dalle donne). A questa fase segue quella caratterizzata dalle parole d’ordine della “Resistenza tradita” e della “Costituzione inattuata”, ben presto “superata dal revisionismo storico e dall’insistenza sulla necessità di una riforma costituzionale, voluta da Craxi, e con De Felice nel ruolo di predicatore dell’abolizione della << retorica dell’antifascismo>> considerata una merce superata” (p. 92). Il punto di non ritorno è rappresentato dalla legge n. 92 del 2004, che istituisce il giorno della memoria per ricordare le foibe. A questa legge seguiranno vari tentativi per modificare la carta Costituzionale. Santino conclude la rassegna su questo argomento evidenziando come ci sia in effetti una sostanziale continuità tra la legge 129 del 1939, con la quale Mussolini sostituì la Camera dei deputati con la Camera dei fasci delle corporazioni, e il combinato disposto del cosiddetto Italicum e della nuova riforma costituzionale Renzi, quest’ultima oggetto del referendum che si andrà a votare tra poche settimane. Alla fine del testo Umberto dedica un’appendice alla situazione siciliana, evidenziando come le lotte contadine possano considerarsi la vera Resistenza siciliana. Il cammino avviato dai Fasci siciliani continuerà con la “Resistenza” postbellica di migliaia di contadini guidati dai partiti di sinistra che si organizzarono contro il potere mafioso latifondista. Morirono più di 150 manifestanti, tra il 1944 e il 1968, sotto i colpi della mafia e alcuni anche per mano delle forze dell’ordine. Il culmine di questo conflitto sarà simboleggiato dalla Strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947. UNA FATICA SEMPRE PIU' INUTILE
7/10/2016
di Pavlov Dogg
“Più che a una dissoluzione del Super Io dovremmo fare riferimento ad una sua mutazione, o a ad un suo slittamento funzionale. Alla prevalenza della Coscienza Morale sembra oggi essersi sostituita la prevalenza dell’Ideale dell’Io. Alla tirannia dell’io devo quella dell’io posso”. Calogero Lo Piccolo in L’Inutile Fatica Nell’ambito della manifestazione Una Marina di Libri si è svolto a Palermo l’estate scorsa un ricco e partecipato dibattito sul volume L’Inutile Fatica. Soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo (curato da Salvatore Cavaleri, Calogero Lo Piccolo e Giuseppe Ruvolo per Mimesis Edizioni) di cui PalermoGrad si è occupato qui e qui. Diamo qui conto della discussione svoltasi. Il primo degli interventi principali, quello dello scrittore e insegnante Mario Valentini, ha ricondotto con sicurezza le tipologie della sofferenza psichica cui allude già il titolo del libro nel quadro dell’ attuale “assetto neoliberista”: in particolare il lavoro intellettuale (scuola, editoria, giornalismo, eccetera) in Italia è passato negli ultimi 40 anni dal “regime garantito” ad una precarizzazione selvaggia con ricadute pesantissime sulla psiche. Eppure il discorso pubblico egemone seguita a colpevolizzare il singolo [pungendo l’asino in piena salita, diremmo noi] oppure imbocca strade fuorvianti come quella del “Ritorno al Padre”. Cristina Alga, ricordando che “non si può sfuggire all’Economia” ha focalizzato la tematica del disagio psichico odierno sulle “idee disfunzionali” – nocive all’individuo - imperanti in ciò che resta del mercato del lavoro, rilevando oltretutto come le stesse “idee sbagliate” siano nolens volens introiettate anche da chi intenderebbe cambiare le cose: di qui l’identificazione provata rispetto a personaggi e situazioni del libro del compianto Luca Rastello I buoni, ambientato nel mondo del volontariato. Improntate a un misurato, ragionato ottimismo le conclusioni, con la significativa rivendicazione della “vulnerabilità come assertività”. Riprendendo un motivo fondamentale del saggio intorno a cui ruota il volume in discussione, Calogero Lo Piccolo ha messo l’accento sull’Ideale dell’Io (l’“io posso”) al tempo della crisi economica, alla quale l’ideologia neoliberista chiede di porre rimedio attraverso una sommatoria di produttività individuali (una somma di tanti “io posso”, in altre parole). Diversamente dai confini più chiaramente delimitati del conflitto di classe così come presentatosi fino agli anni ’70 del secolo corso, lo sfruttamento oggi “passa attraverso l’Io”. La pratica terapeutica ha pertanto bisogno dello “smascheramento dell’ideologia” imperante, nella prospettiva di una fuoriuscita intellettuale ed esistenziale insieme dall’ideologia stessa. Decisamente “forte” nelle tematiche affrontate, l’intervento dello psicoterapeuta Salvo Federico – che ha scritto la Prefazione al volume e ne ha curato l’Introduzione – ha puntato il dito sulle determinanti storico-sociali [legata alle modalità correnti dell’estorsione del plusvalore, potremmo dire noi] del disagio psichico, spaziando dalle aporie del “pensare individualmente” (indissolubilmente legato all’imperativo: “Sii imprenditore di te stesso”) alle caratteristiche del tutto inedite che assumono oggi (in tempi in cui la gente misura le proprie performance con un occhio costantemente rivolto alla “concorrenza”) fenomeni come ad esempio la ninfomania: “le categorie classiche della psicoanalisi vanno in crisi” - avverte Federico - di fronte alle modalità odierne di questa patologia. Assai pregnante m’è sembrato infine il richiamo ai disastri prodotti sulla psiche da un’economia post-taylorista ma ineludibilmente legata al tempo (“la gente traduce i soldi in ore, o giorni di lavoro”) con buona pace di ogni fantasia postmoderna. Salvatore Cavaleri (che nel volume in oggetto firma l’importante contributo su La fatica di essere creativi) ha esordito ricordando come - nelle intenzioni degli organizzatori - l’incontro prevedesse la presenza di Luca Casarini, colpito però da un provvedimento ristrettivo della libertà personale. Proprio la modalità di detto provvedimento – che escludeva l’affidamento ai servizi sociali - pare a Cavaleri sintomatico di una concezione del servizio sociale “depurata persino dal sospetto della conflittualità”. L’intervento di Totò è proseguito con la constatazione di come oggi in Italia il lavoro intellettuale abbia le “spalle scoperte”: “20-30 anni fa i ‘nostri’ lavori stavano dentro un contesto che prevedeva dinamiche di garanzia e tutela”, oggi è vero il contrario. Dovendo immaginare una pars costruens, urge un confronto che vada oltre le diversità pur riscontrabili in superficie: “poi ci guardiamo negli occhi e ci diciamo che in fondo facciamo lo stesso lavoro”. Gli interventi a “microfono aperto” hanno affrontato direttamente temi come il Terzo Settore e la lotta per i Beni Comuni, già toccati dai contributi introduttivi di Alga e Cavaleri. Pavlov Dogg ha fatto notare come anche attività solidali di tangibile utilità pratica (tanto per fare un esempio: la gestione su base volontaria di un doposcuola per i figli dei migranti) se non divengono mai “vertenza”, se non si pongono in una dialettica conflittuale con la cosa pubblica, confermano in definitiva proprio l’esclusione e lo svantaggio che intendono combattere. E Gilda ha rimarcato il carattere ciclico di tale problematica, osservando come la propria tesi di laurea “Contro il Volontariato” sostituzionista del welfare rechi la data 1994; ferma restando l’irrinunciabilità di iniziative volontarie ma che hanno una forte ricaduta nella lotta contro l’oppressione e per il cambiamento sociale, nella fattispecie il Sicilia Queer. A questo punto Andrea ha evidenziato l’analogia tra le suaccennate aporie del Volontariato e l’invito ad “Essere Volenterosi”, slogan con il quale un ‘Pubblico’ neoliberista, impoverito e rinunciatario, vuole irretire quanti provengono dal movimento di lotta per i Beni Comuni: a tal proposito, l’esperienza – condivisa da molti dei convenuti – dei Cantieri che Vogliamo, momento di punta della lotta per i Beni Comuni a Palermo, e che come tale non può essere considerata un fallimento, non ha tuttavia certo risolto una contraddizione di fondo del tutto analoga a quella vista sopra riguardo al volontariato. Sulla stessa lunghezza d’onda concettuale, ma più amaro nelle conclusioni, l’intervento di Giuseppe che – fatta salva la bontà di manifestazioni come ad esempio il Queer - ha sottolineato come “il sistema non investe in cultura; casomai investe sulle cose sbagliate” ed ha efficacemente caratterizzato gli apparati del volontariato artistico-culturale come un “tritacarne”. Di qui il polemico auspicio di una sana dose di “luddismo” (Lo Piccolo dal canto suo ha parlato di “diserzione in senso militante”) nei confronti dei nuovi rituali che si vorrebbero oggi codificare. Un’indicazione – paradossalmente – positiva è venuta dall’incisiva boutade di Alberto, per il quale l’acuirsi della crisi ha spostato il centro del discorso dai Beni Comuni al “Male Comune” della precarizzazione, con un guadagno di consapevolezza che non potrà non giovare. Ampliando molto opportunamente la casistica del lavoro intellettuale, Ilaria ha fatto notare come figure che in teoria dovrebbero svolgere un positivo ruolo di mediazione tra Stato, comunità e mercato del lavoro, come quella dell’Educatore Professionale, rischino ogni giorno di oliare di fatto i meccanismi della deregulation contrattuale che intere categorie di forza-lavoro patiscono sulla propria pelle. Il tono di urgenza e l’alto livello del dibattito hanno confermato come l’area di intellettuali militanti (e militanti-intellettuali!) che gravita al momento intorno al libro in oggetto (alle cui spalle sta tra l’altro un intenso percorso di confronto seminariale) sia oggi tra le più vive e “pungenti” in città. Riguardo ai contenuti, è importantissimo che nella riflessione in corso ‘Lavoro’ sia oggi più che mai ‘Labour’, ‘Fatica’ per l’appunto: il che costituisce di per sé un fertile terreno di confronto analitico tra un pensiero di matrice post-operaista (avvertibile nell’impostazione del discorso di buona parte degli intervenuti) e quanti, come PalermoGrad, vogliono indagare la realtà odierna utilizzando creativamente le categorie “classiche” della Critica dell’Economia Politica. Sullo sfondo, l’”eterna” questione della proletarizzazione del lavoro intellettuale: tendenza dimostrabilissima già sul piano meramente statistico come su quello di una sociologia descrittiva, ma non per questo univoca né omogenea, e tantomeno di semplice ricomposizione a livello di lotta politica. Ma su tutto ciò dovremo tornare presto a confrontarci. |
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Marzo 2021
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