TTIP: L'IMPERO COLPISCE ANCORA
31/10/2015
di Marco Palazzotto Lo scorso 5 ottobre è stato raggiunto un accordo tra Stati Uniti d’America, Giappone e altri 10 paesi, per la creazione di un trattato di libero scambio, che ha lo scopo di facilitare il commercio internazionale tra 12 paesi, attraverso la cancellazione di dazi e tasse su alcuni prodotti oggetto di negoziato. Il nome del trattato è Trans-Pacific Partnership (TPP) e coinvolge oltre a USA e Giappone, anche: Australia, Brunei, Canada, Cile, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam. Un accordo simile è in fase di elaborazione tra USA e Unione Europea e si chiama “Transatlantic Trade and Investment Partnership” (TTIP). Anche questo accordo avrebbe lo scopo di migliorare gli scambi internazionali tra gli USA e il vecchio continente, abbattendo barriere tariffarie e semplificando la normativa su alcuni settori dell’economia. Gli studi favorevoli al TTIP hanno stimato che il PIL mondiale aumenterebbe tra lo 0,5 e l’1 per cento e aumenterebbe anche quello dei singoli stati. Inoltre, per quanto riguarda la semplificazione normativa, si avrebbero benefici dalla riduzione della burocrazia. Le critiche al TTIP sono diverse, ed hanno come unico comune denominatore la sempre più accentuata marginalizzazione delle istituzioni pubbliche nella gestione della cosa economica. Addirittura si parlerebbe della previsione di arbitrati privati per la risoluzione di controversie tra le multinazionali e stati aderenti nel caso di mancato rispetto degli accordi. Per un approfondimento sul TTIP si rimanda a questo dossier pubblicato da Le Monde Diplomatique. Il promotore principale di questi due accordi è, ovviamente, il governo statunitense. Tale scelta si inserisce in una strategia d’oltreoceano diversa rispetto agli ultimi decenni che sono stati caratterizzati – fino alla crisi dei Subprime – da una crescita dei “deficit gemelli” degli USA: un deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti (aumento delle importazioni di merci e aumento delle importazioni di capitali dall’estero che, come sappiamo, hanno alimentato - tra l’altro - la bolla immobiliare che ha portato allo scoppio della crisi del 2007/2008) e un deficit del bilancio federale. Nello stesso ventennio la politica industriale della famiglia Bush, sia quella di Clinton e in parte anche durante il primo mandato Obama, ha favorito la delocalizzazione industriale principalmente verso l’est asiatico (in primis la Cina). Dall’altra parte del globo la Cina ha approfittato delle politiche statunitensi e, in parte grazie all’importazione della tecnologia e in parte grazie all’enorme “esercito di riserva” a disposizione, ha di fatto preso il posto di prima potenza manifatturiera al mondo. La Russia di Putin ha sfruttato questa tendenza USA per proporsi come primo partner commerciale – principalmente per la fornitura di materie prime - con la vicina Cina e la Germania. L’ascesa di Porošenko in Ucraina e la firma dei due trattati in premessa si inseriscono in questo cambiamento di strategia che ha il dichiarato scopo di rioccupare il ruolo di principale interlocutore commerciale con le due aree di influenza più importanti dopo la fine della seconda guerra mondiale. Cercando di isolare il più possibile i paesi BRICS (in particolare Russia e Cina). Questo è il contesto in cui si inserisce la politica di rilocalizzazione industriale statunitense. Queste nuove dinamiche fanno scaturire due ordini di riflessioni.
La prima è che la realizzazione di elevati saggi di profitto alla base dell’accumulazione del capitale si può attuare solo con un settore industriale molto avanzato. Gli USA hanno capito che devono riprendere il ruolo di prima potenza fornitrice soprattutto verso le sue storiche aree di influenza: i paesi NATO e il Giappone. Questo comporta la ripopolazione nel territorio USA delle industrie che hanno delocalizzato nell’ultimo trentennio verso l’oriente o che comunque hanno perso quote di mercato verso l’industria cinese, tedesca, giapponese. La seconda riflessione che viene in mente, dipendente dalla prima, è che si va profilando geopoliticamente una dinamica non molto diversa da quella dell’imperialismo novecentesco, con buona pace degli apologeti della globalizzazione e dei sostenitori della fine degli Stati Nazione. Ciò dimostra che l’imperialismo rimane “la fase suprema del capitalismo” contemporaneo.
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CONFINDUSTRIA: GLI OPERAI GUADAGNANO TROPPO
21/10/2015
di Matteo Gaddi e Nadia Garbellini
Dopo il jobs act e i recenti accordi interconfederali (a breve potrebbe essere pure limitato il diritto di sciopero per il Giubileo e altri “grandi eventi”), continua la strategia di attacco ai lavoratori che è stata adottata di recente anche dal governo Renzi. Governo che, insieme ai precedenti, ha fatto della deflazione salariale il perno principale della politica economica per superare il problema di competitività della nostra economia. In questo articolo - che segue questo contributo della settimana scorsa - gli autori spiegano come i dati pubblicati dagli organi di ricerca e di stampa possano essere utilizzati strumentalmente per convincere l’opinione pubblica e le istituzioni deputate a legiferare che occorrono ulteriori sacrifici dei lavoratori per rilanciare l’economia. Ricordiamo che la co-autrice dell’articolo Nadia Garbellini sarà nostra ospite il prossimo 28 ottobre a Palermo per discutere delle forme di produzione statuali (qui maggiori dettagli). Il presidente di Confindustria ha recentemente motivato la rottura delle trattative con i sindacati affermando che le richieste di questi ultimi “sono ormai irrealistiche [...] per il futuro del Paese”. La base di tali affermazioni è una nota di CSC (Centro Studi Confindustria) le cui argomentazioni fondamentali si possono così riassumere: le retribuzioni dei lavoratori sono cresciute, nell'ultimo triennio, più della produttività. È quindi cresciuta la quota del reddito nazionale che va ai salari a scapito di quella che va ai profitti, riducendo la competitività delle imprese da un lato, e la loro capacità di effettuare investimenti dall'altro. Si deteriorano quindi le possibilità di crescita non solo presenti, ma anche future del Paese. A questo punto è d'obbligo chiedersi: le argomentazioni del CSC sono fondate da un punto di vista empirico? Partiamo dal dato sulle retribuzioni reali nel periodo 2013-2015. Stando al rapporto CSC, queste sarebbero cresciute del 4.6%. Consultando i dati Istat, tale cifra risulta essere il tasso di crescita dell'indice trimestrale delle retribuzioni lorde per Ula (unità di lavoro equivalenti al tempo pieno) dal primo trimestre del 2013 a quello del 2015. Intanto, si tratta di dati provvisori (quelli definitivi escono dopo 12 mesi, quindi nel nostro caso a marzo del prossimo anno). In secondo luogo, i dati trimestrali sono molto volatili: già utilizzando il secondo trimestre la crescita è del 3.7%. Incidentalmente, non si tratta di un triennio, come riportato dalla nota CSC, ma di un biennio. Infine, stiamo parlando di retribuzioni lorde, che come noto sono cosa ben diversa da quelle effettivamente percepite. In base a queste considerazioni CSC sostiene che è molto cresciuta la quota di valore aggiunto che va al lavoro “tanto che essa è tornata ai picchi storici di metà anni Settanta. Nel manifatturiero è arrivata al 74,3% nel 2014”. Per cominciare, la quota salari calcolata da CSC include tutti i costi del lavoro che fanno parte della retribuzione lorda. In secondo luogo, reddito nazionale e valore aggiunto sono identici solo in aggregato, non in ogni singola branca (o gruppo di branche). Considerazioni settoriali, ad esempio relative al manifatturiero, sono dunque contabilmente discutibili. In terzo luogo, vengono applicate due correzioni. Oltre a includere una stima del reddito da lavoro autonomo (attribuendo un costo del lavoro pari a quello medio dei lavoratori dipendenti), prassi consolidata e ampiamente utilizzata, si aggiunge – dal 1998 – l’IRAP. Per calcolare l’IRAP si sottraggono dai ricavi i costi dell’esercizio, ma non i costi del personale. Per questo motivo il CSC la associa al costo del lavoro, pur non essendo questa cifra imputabile al lavoro in quanto tale. L'IRAP risulta nel 2014 pari a 30.468 milioni di euro (–4.299 milioni di euro, pari a –12,4%: rispetto Al 2013). Dai soggetti privati affluiscono 20.921 milioni di euro (–3.892 milioni di euro, pari a –15,7%) e dalle amministrazioni pubbliche 9.547 milioni di euro (–407 milioni di euro, pari a –4,1%). (Dati MEF, Bollettino entrate tributarie). Lo studio CSC effettua quindi un confronto con il resto d’Europa, dove non necessariamente viene compreso nel costo del lavoro qualcosa di simile all’IRAP. Come indicatore aggiuntivo, si utilizza il rapporto MOL/valore aggiunto. Il MOL (Margine Operativo Lordo) viene ottenuto sottraendo al valore aggiunto gli altri costi di produzione interni, principalmente il costo del lavoro (i costi esterni sono già stati detratti calcolando il valore aggiunto). Il MOL è molto diffuso nell’analisi di bilancio in quanto consente di valutare (essendo al lordo di ammortamenti, svalutazioni e accantonamenti, cioè grandezze che esprimono costi non monetari) il valore delle risorse finanziarie (cioè il capitale circolante netto) create dall’attività operativa dell’azienda. E’ quindi un indicatore di redditività di una azienda, utile per comparare i risultati di diverse aziende che operano in uno stesso settore; esso viene quindi utilizzato per valutare il prezzo di una azienda e quindi il prezzo di un'offerta pubblica iniziale. Ha senso utilizzarlo per una valutazione macroeconomica? Sempre secondo il CSC, la crescita della produttività del lavoro italiana (10,9% tra nel 2000-2014) è bassa rispetto agli altri Paesi europei: 31,5% in Germania, 41,3% in Francia, 40% in Spagna. Tuttavia, dato il modo in cui la produttività viene calcolata, tale dinamica potrebbe essere dovuta a fattori di costo non imputabili al rendimento del lavoro. Tale ipotesi è avvalorata da quanto scritto più sotto: la dinamica dei salari in Italia è stata molto simile a quelle di Spagna e Germania. Si fa poi riferimento al CLUP (costo del lavoro per unità prodotto), che non è a sua volta un indicatore della produttività, ma dei costi unitari, del lavoro. Secondo il CSC il disallineamento tra la dinamica retributiva e quella della produttività ha comportato un aumento del CLUP che si trasferisce in una dinamica dei prezzi più alta che danneggia competitività e margini di profitto. Per fortuna il rapporto CSC precisa i dati di una busta paga. Su una retribuzione media di 40150 euro, al lavoratore ne restano 20.328: 10822 se ne vanno in contributi INPS e INAIL a carico dell’azienda, altri 6.487 sono imposte sul reddito (Irpef) e 2.783 sono i contributi a carico del lavoratore per l’INPS. Il costo della retribuzione complessiva, tra il 2000 e il 2014, è aumentato del 6,5%, ma la busta paga netta solo del 2,6%. Quindi non sono aumentati i salari percepiti realmente dai lavoratori, ma è aumentata l’imposizione fiscale e contributiva sul lavoro. Infatti l’aliquota media IRPEF è passata dal 19,9% al 22,1% (Fonte: OCSE, Taxing Wages), e la contribuzione INPS a carico sempre dei lavoratori dal 9,19 al 9,49%. Si potrebbero fare molte altre considerazioni, sia teoriche che empiriche; quanto qui esposto è tuttavia sufficiente a far emergere come i dati siano utilizzati in maniera strumentale alla tesi sostenuta: che il lavoro si sia accaparrato una quota eccessiva del reddito nazionale, minando le possibilità di crescita del Paese. Matteo Gaddi è delegato sindacale a Mantova (dove è stato consigliere comunale PRC) e tra i coordinatori nazionali delle esperienze di autoconvocazione Rsu. Membro del direttivo regionale lombardo della CGIL e del coordinamento nazionale della sinistra sindacale Democrazia e Lavoro. Nadia Garbellini è economista, ricercatrice presso l'Università di Bergamo. Tra i suoi interessi di ricerca: Situazione europea attuale e prospettive del commercio internazionale. Teoria delle reti e applicazioni Input-Output. Analisi e contabilità nazionale. Produttività e cambiamento tecnico. GLI ANNI TRENTA PROSSIMI VENTURI
14/10/2015
di Annibale C. Raineri
Su il manifesto di mercoledì 30 settembre 2015 è uscito un intervento di Franco Bifo Berardi che consiglio. Pur non condividendone le conclusioni, penso che l’articolo di Bifo eviti di alimentare la nebbia con cui gli “intellettuali ed i politici di ciò che ancora si chiama sinistra” coprono l’evidenza. Ne riprendo alcuni elementi, riscrivendoli nel mio universo concettuale, sapendo di operare delle forzature. 1. La morte della sinistra era già stata certificata da Luigi Pintor nel suo testamento politico (l’ultimo editoriale su il manifesto, Senza confini, del 17 maggio 2003, che consiglio di imparare a memoria). È la premessa per cominciare a ragionare. Non si tratta di rinnegare una storia ricchissima di grandiose tensioni etiche, né di cancellare una ricchezza enorme di riflessioni teoriche (concetti e analisi storiche). Si tratta semplicemente di prendere atto di una fine. Punto. (Altra cosa è la lucida, ma difficilissima, analisi sul perché questa fine si è prodotta). 2. La prima operazione (preliminare) che Bifo consiglia è quella di una radicale pulizia linguistica. Elementare atto di verità, senza il quale è impossibile vedere il mondo, ché il vedere passa sempre per l’insieme dei significanti con cui le immagini vengono strutturate. Prendere atto che a certe parole non corrisponde nulla è preliminare al parlare di qualcosa, anziché di nulla (o meglio «al parlare in modo nascosto della postazione che vogliamo continuare a garantirci nel nostro piccolo mondo»). Bifo si riferisce alla parola «democrazia», ma altre se ne potrebbero aggiungere. 3. La seconda operazione, altrettanto necessaria, è il riconoscimento della nostra impotenza. Anche questo è un atto elementare di verità. Essa non prelude all’accettazione dello status quo, al contrario, è la conditio sine qua non per identificare l’orizzonte temporale del nostro agire: solo riconoscendo questa evidenza possiamo comprendere nel profondo come si tratta di disporsi per i tempi lunghissimi di una trasformazione di civiltà. Chi vuole continuare a far finta di agire si accomodi pure, nel teatro immaginario della politica. 4. Il centro dell’intervento di Bifo mi sembra che sia una previsione di fase. Cito: «Possiamo prevedere che nei prossimi anni l’Unione europea, ormai entrata in una situazione di scollamento politico, di odi incrociati, di predazione coloniale, finirà nel peggiore dei modi: a destra. Possiamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbattere la dittatura finanziaria europea è la destra? Dovremmo dirlo perché è quello che sta già accadendo, e le conseguenze saranno violente, sanguinose, catastrofiche dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dobbiamo allora smettere i giochi già giocati cento volte per metterci in ascolto dell’onda che arriva.» Dopo la previsione di una recessione globale e della impossibilità di una ulteriore crescita, conclude questa parte centrale scrivendo: «La decrescita non è una strategia, un progetto: essa è ormai nei fatti (anche qui si tratterebbe anzitutto di una presa d’atto, A.R.), nelle cifre e negli umori. E si traduce in un’aggressione sistematica contro il salario, e contro le condizioni di vita delle popolazioni. E si traduce in una guerra civile planetaria che solo Francesco I ha avuto il coraggio di chiamare col suo nome: guerra mondiale» (sottolineature mie, A.R.) Non entro nel merito dell’analisi economica presupposta da queste asserzioni. Ne sottolineo una possibile intelaiatura teorica: il clima che stiamo vivendo non può non riportarci alla mente l’Europa degli anni trenta, anticipati in Italia: la crisi del capitalismo liberale, combinata con la sconfitta dei tentativi rivoluzionari, determina l’avvento dei regimi totalitari e la tendenza alla guerra mondiale. Come non sentirsi in un clima analogo? Ma la natura di quei regimi, cioè la natura della risposta che le società hanno dato in quegli anni alla impossibilità del capitalismo di governare la società, non può essere iscritta in una variante del modo di produzione capitalistico[1], non è un caso che la sottomissione del mondo della finanza è stato ed è rimasto uno degli obbiettivi che i movimenti fascisti e nazisti si sono dati nella fase di ascesa al potere. Il dispotismo assoluto di quei regimi, cioè la totale sottomissione della società ad una direzione politico-statuale, seppure ottenuta con vari compromessi con gruppi sociali borghesi, è stata la risposta alla crisi, economica e di integrazione sociale, prodotta dal capitalismo ancor più sotto la «dittatura della finanza». Allora come oggi, venuta meno la speranza di un cambiamento radicale della società, l’unico modo in cui può ristabilirsi una forma di integrazione sociale che fronteggi l’anarchia del dispotismo del capitale finanziario è il riaffermarsi del dispotismo del potere politico-statuale. Ma, in presenza della totale distruzione delle organizzazioni sociali del movimento operaio e di una cultura solidaristica, tale dispotismo tendenzialmente assume nuovamente la forma di un potere assoluto delle destre razziste, neonaziste, fondamentaliste (anche nelle forme soft della democrazia autoritaria). Questa tendenza alla riaffermazione di sovranità statuali caratterizzate da culture fortemente reazionarie si connette, per sua logica immanente, alla tendenza alla guerra. Non ci torno. 5. L’ulteriore cosa da fare, scrive Berardi Bifo, è «immaginare. Immaginare una via d’uscita dall’inferno partendo dal punto centrale su cui l’inferno poggia: la superstizione che si chiama crescita, la superstizione che si chiama lavoro salariato». Sottolineo anzitutto l’importanza dell’immaginazione se, come credo anch’io, non sono praticabili (ormai?) le vie fin qui seguite (non lo sono sia per il livello globale imposto dalla vittoria conseguita dal capitale sia per il possibile intreccio fra la forma capitalistica delle relazioni sociali ed il dispotismo statuale tendenzialmente totalitario a partire dal novecento). Immaginare, a partire dal liberarsi delle due “superstizioni”. Ma anzitutto provando a interrogarsi su queste “superstizioni”, ricostruendone la genealogia nella torsione che la civiltà borghese (cioè la impronta data ad essa dalla dinamica del soggetto-capitale) ha imposto alla modernità nata nel Rinascimento. Non mi soffermo sulla tendenza allo “sviluppo senza-misura” (privo-di-misura è la definizione che Marx dà del capitale nel cap.4 del suo Capitale), né sulla medesima origine del fatto che il lavoro si dia unicamente nella forma del lavoro salariato[2]. I limiti “fisici” dello sviluppo (ma c’è in questo discorso sulla crescita una sovrapposizione fra valore d’uso e valore) e l’aumento della produttività su base tecnologica, fanno pensare a Bifo che la sinistra, seguendo la prospettiva borghese, dico io, dei governi ha finito per cacciare i lavoratori in un vicolo cieco, invece che proporre l’unica cosa possibile: «la riduzione drastica e generalizzata del tempo di lavoro». Condivido la critica alla politica della sinistra del tutto subalterna all’universo culturale borghese, e condivido la tesi che lo sviluppo tecnologico così straordinario rende sempre meno sensato considerare il lavoro come fonte del valore, rendendo sempre meno sensato il mantenimento universale della forma salariata del lavoro (cioè il suo essere erogato solo all’interno del sistema di scambio mercantile), ma domando: questo fatto implica per ciò stesso la riduzione massiccia del lavoro come tale, o piuttosto non può implicare la necessità, per tutta una epoca, di una sua erogazione in altra forma (naturalmente combinata con quella capitalistica, e anche con quella statuale)? Il discorso di Bifo non guarda unicamente alle aree sviluppate delle ricche metropoli? che spazio vi occupa la Terra ed il lavoro ad essa connesso? Anzitutto per la maggior parte delle aree del pianeta e delle sue popolazioni, ma anche per tantissime aree del nostro “mondo ricco”. 6. E intanto cosa fare? Stare a guardare «visto che nulla possiamo fare. Guardare cosa? La catastrofe che è ormai in corso e che nessuno può fermare (…) Sono processi scritti nella materiale composizione del presente, e nel rapporto di forza tra le classi. Ma naturalmente non si può stare a guardare, perché si tratta anche di sopravvivere. Ecco un progetto straordinariamente importante: sopravvivere collettivamente, sobriamente, ai margini, in attesa» Tralascio l’idea che si possa fare del sapere la leva del cambiamento e sottolineo l’importanza della centralità del sopravvivere. Anzitutto sopravvivere. Anzitutto vivere. Ecco il punto: sopravvivere anche col lavoro (della terra) provando a riconnetterlo a forme di vita, e quindi separandolo dalla schiavitù della merce (separare lavoro e salario), ma pur sempre lavoro, e non ozio, contemplazione (cose necessarie anch’esse), integrare, dare un senso al vivere lavorando e al lavorare vivendo. Costruire cioè comunità come nuove forme di vita, che condividono possesso di beni e lavoro comune, tempi ordinari e tempi della festa. Ci sono tantissime esperienze nel mondo che crescono in questa direzione, piccole e grandi. Rinascono, qualcosa è in movimento. Non si tratta di modelli, né credo che la trasformazione sociale può avvenire per contagio (ci vorrà una rivoluzione per rompere certi poteri, credo, ma quando??). Sono però i segni di un altro modo di vivere, la testimonianza che oltre la catastrofe c’è dell’Altro nella vita e nel mondo. Solo questa testimonianza, la presenza di questi segni può far nascere la speranza e allentare il senso di impotenza che paralizza i cuori migliori. Generare una nuova cultura, un universo di senso. Poi si vedrà. Solo per questa via può riformarsi una capacità di vivere il noi, il legame comune. Far crescere nella vita reale il sentimento di solidarietà, ecco cosa soltanto può sciogliere l’identificazione a massa su cui si regge ogni dispotismo totalitario (razzista, neo-fascista, genericamente di destra, demo-autoritario, fondamentalista, ma anche neo-stalinista, variamente populista di destra o di sinistra)[3]. [1] va presa estremamente sul serio l’origine socialista del fascismo italiano e il nome di «nazionalsocialismo». Il tema è quello del modo di produzione statuale, confrontandosi con le sue teorizzazioni in Henri Lefebvre, Mario Mineo, Luigi Cavallaro. Nell’analisi storica, inoltre, occorre saper distinguere il piano sociologico delle dinamiche delle classi dal piano strutturale. [2] sulla natura borghese della ideologia lavorista rimando alla marxiana Critica al programma di Gotha e alla lettura che ne fa Walter Benjamin nella tesi n.11 delle sue Tesi di filosofia della storia [3] Su solidarietà e massa dei regimi fascisti sono illuminanti le pagine di Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in particolare il cap. XII della seconda versione tedesca e la nota 17 NEOLIBERISTI SU MARTE
6/10/2015
di Pavlov Dogg
Muoviamo insieme queste mani/Come farebbero i marziani (E.Vianello) Sopravvissuto - The Martian regia di Ridley Scott La versione italiana di questo film propala l’errata informazione che presso il ristorante newyorchese dell’Algonquin si svolgessero delle “tavole rotonde”. E chissà se alla fin fine è un bene che l’unica citazione colta di tutto il film[1] fallisca clamorosamente nelle sale del nostro paese, mantenendo al cocktail servito da Ridley Scott l’immacolata purezza dei suoi due ingredienti: una parte scientifica desunta dai fumetti dei Fantastici Quattro e una parte “umana” da far impallidire i fumetti cinesi dell’epoca di Mao, in cui tutti incessantemente si sacrificavano per la patria e per il popolo. Indicare le due fonti e componenti di questo Sopravvissuto – The Martian non equivale però a un “verdetto” necessariamente negativo. In primo luogo perché il regista è lo stesso de I duellanti, Alien e Blade Runner (certo, è anche lo stesso di Il Gladiatore e Hannibal, come potreste ribattere voi!), pur sempre capacissimo di proiettare ambiguità sul soggetto francamente fascista (ecco, ce l’avevo sulla punta della lingua) che ha per le mani. In secondo luogo perché la trasparenza dei contenuti (e non c’è contraddizione con l’ambiguità di cui sopra, come vedremo) è pur sempre un valore: e il film ci spiattella davanti i problemi e le prospettive, le tensioni e le fobie della fase attuale della dominazione di classe - negli USA, in tutto il pianeta e potenzialmente in tutto il sistema solare – con una chiarezza encomiabile, talché poco mi preme far l’imitazione della Guida Michelin e valutarne con una o due stelle la riuscita “artistica”. E va detto che la lunghezza (2 ore e 21 minuti) e le lungaggini, la stessa scelta - teoricamente suicida - di dar luogo a una interminabile “prova d’attore” del legnosissimo Matt Damon, sono altrettanti perfetti correlativi – stilistici e oggettivi – del tema centrale della pellicola, ovverosia la totale flessibilizzazione della forza lavoro, con particolare attenzione alla realtà del lavoro straordinario. Non solo questo problema è espressamente sottolineato (“Ci costerà una fortuna in straordinari!” esclamano alla NASA, non appena si accorgono di aver dimenticato Matt Damon su Marte); non solo l’unico personaggio davvero “geniale” del film, il nerd interpretato da Donald Glover, è costantemente a pezzi per l’assoluta mancanza di riposo (nella prima scena in cui appare non fa altro che cascare a terra per il sonno, e più avanti lo si vede letteralmente “attaccato” al computer d’ordinanza); ma addirittura gli altri 5 astronauti – e i loro cari sulla Terra! – non battono ciglio di fronte alla prospettiva di restare nello spazio per mesi e mesi più del dovuto, pur di assecondare il piano propagandistico e rischiosissimo portato avanti da Sean Bean (che in quanto neolib “prestato” al governo alla fine non ha problemi a dimettersi dalla NASA, di contro al direttore che è un burocrate “puro”, con il volto prudente e perdente di Jeff Daniels); e la stessa modalità con cui Bean istiga l’ammutinamento della ciurma dell’Ares 3, ovvero un messaggio segreto inviato hackerando la casella di posta elettronica della moglie di uno degli astronauti, segnala l’abbattimento del confine tra ambito e orario lavorativo e dimensione privata. Ed è proprio in base allo slogan “Lavorare di Più/Ma Non Lavorare Tutti” (vedi le folle di sfaccendati che seguono passo passo le vicende dell’ Ares 3 dai maxischermi di New York, Londra e Pechino) che va inquadrato lo stesso tema della colonizzazione dello spazio, per come lo affronta The Martian. Non si tratta tanto di arare un suolo vergine e da fertilizzare, in cerca di un’alternativa alla Terra orami invivibile: “Su questo pianeta non cresce un cazzo” chiarisce subito il botanico Damon a proposito di Marte. Qui si tratta piuttosto di accumulare nuovi rapporti di classe; la precondizione per ritrovare la profittabilità perduta è una rinnovata espropriazione dei lavoratori, ovvero l’azzeramento dei diritti acquisiti per rendere flessibile la prestazione d’opera: espropriazione che, con un “effetto fionda” (altro correlativo messo in bocca a Donald Glover, ma che - rispetto a quello immaginato dall’astrofisico del film - funziona in senso di marcia inverso: da Marte verso la Terra) parte dall’assoluta disponibilità lavorativa dei coloni (Matt Damon, stakanovista del capitalismo suo malgrado, all’inizio del film si trova di fronte alla prospettiva di dover prolungare di quattro anni la missione rispetto al contratto di ingaggio) e arriva fino alla NASA, mobilitandone 24x7 il personale caffeina-dipendente. Se tutto questo è vero, la questione dell’atteggiamento di Ridley Scott, della sua “distanza” rispetto alla materia del racconto, non deve turbarci più di tanto. Certo, alla fine del film Damon (che si appresta a catechizzare i nuovi aspiranti coloni), seduto sulla panchina del college, è chiaramente un uomo finito; certo il grigiore assoluto e fastidioso dell’equipaggio dell’Ares 3 non può che essere voluto (basta fare il paragone con il ben più caloroso “popolo della NASA”); e, certo, se c’è identificazione fra il protagonista “marziano” e lo stesso regista, questa è nel senso di un compito ingrato e triturapalle che spetta a entrambi (rispettivamente, sopravvivere su Marte e dirigere questo film). È legittimo però il sospetto di trovarsi di fronte a una “doppia verità” di bellarminiana memoria, e pertanto ad una doppia morale. Un primo livello di fruizione nel segno dell’entusiasmo tecno-scientifico-futuribile, con i “sacrifici” che passano in cavalleria; ed un secondo livello – non certo sbandierato - in cui affiora la verità dei sentimenti, e dunque tutta un’altra storia. Ma non è questa la cosa importante. Il punto è che il magari un po’ annebbiato Ridley Scott perlomeno una cosa la vede benissimo: la classe dirigente USA e i suoi ideologi hanno deciso che non è vero che “non c’è futuro”: il futuro c’è, ed è uguale al presente. Su Marte c’è vita, ma “Non C’E’ Alternativa” (cit.). Uomo avvisato, mezzo salvato. [1] Con la possibile eccezione della canzone Waterloo degli ABBA, utilizzata però in una scena di lotta indomita che conduce alla vittoria. Verosimilmente un errore in fase di postproduzione (o com’è che si chiama), dato che Scott ha pur sempre diretto il napoleonico Il duellanti e non può avere dimenticato del tutto la storia. di Roberta Di Bella
Il pretesto per scrivere questo articolo è stato un incontro di qualche mese fa a Palermo avente come argomento le donne e il lavoro, organizzato da donne e uomini per una platea mista. Alcuni temi riguardanti le problematiche delle donne nel mondo del lavoro e le relazioni tra i sessi sono stati messi sul piatto con il desiderio di discuterli insieme. Ma ciò è avvenuto solo parzialmente. Considero l’occasione in cui donne e uomini si incontrano per confrontarsi sul tema del lavoro un momento simbolicamente e materialmente necessario ad uno scambio di prospettive, intrecciando differenti modi per stare all’interno di relazioni di potere (economiche, sociali e culturali) che condizionano fortemente il mondo del lavoro e dunque le vite di donne e uomini. Uno stare che è un sapersi muovere resistendo e trasformando. Occasioni di scambio che considerano anche le differenti appartenenze sociali, razziali etc. ampliando e differenziando la visuale da cui osservare ed analizzare i problemi. Tuttavia è anche frequente, e questa recente occasione non l’ha smentito, che contesti multipli generino riflessioni con pesi e misure differenti, sbilanciate a favore o a detrimento di parti dei discorsi. Soprattutto dove si affrontano questioni che pongono problemi e soluzioni riguardo a finanza, economia o politica. Sembra, infatti, che introdurre anche la differenza di genere per dare una lettura degli eventi, in alcuni casi, crei imbarazzo, soprattutto alle interlocutrici donne, in particolare se “specialiste della materia”.Come se il parlarne sminuisse il valore dell’argomentazione, la rendesse meno “scientifica”, andasse a detrimento dell’immagine professionale della conferenziera. Voglio dire che molte sollecitazioni che andavano nella direzione di un approfondimento degli effetti sulle scelte e sulla condizione lavorativa delle donne, a causa di una visione parziale e poco attenta al lavoro riproduttivo, non sono state colte probabilmente perché non gli è stato riconosciuto il meritato valore. E il contesto non lo si riteneva adeguato, nonostante l’incontro fosse focalizzato sul genere. Ne deduco che il non assumere uno sguardo universale neutro in un contesto pubblico venga ancora percepito come una “colpa”, come se ci si allontanasse dalla verità e si assumesse un punto di vista troppo particolare (sguardi particolari suscitano il venir meno della scientificità del discorso!). Di contro, tutto ciò viene altresì percepito, a mio parere, da una prospettiva parziale di soggetti “situati”, come un tradimento fatto ai soggetti “incarnati”, a sguardi condizionati da una materialità del discorso che non può oggettivarsi ma collocarsi in una posizione corporea e vitale, dove i corpi si strutturano in un sistema in cui natura e cultura non sono più distinguibili ma in cui le parti non possono essere assorbite e sintetizzate in un oggettivo discorso teorico scientifico che ripropone il “vero”del “Dio” neutro universale. Mi chiedo, il problema è di auto-riconoscimento e valorizzazione di ciò che si è e delle differenze che non sono visibili, che continuano a non poter esprimersi con altri linguaggi in alcuni contesti? Sicuramente la consapevolezza o la costituzione di alleanze con altre donne hanno incoraggiato il volere o sapere “abitare la propria casa”(la frase è di Francesca Artista, segretaria regionale Fisac-CGIL, pronunciata in un’intervista rilasciatami), il prendersi di coraggio ed anche da sole riuscire a condurre delle battaglie. Tutto ciò in luoghi in cui è tuttora difficile per una donna farsi ascoltare, prendere la parola e ignorare sorrisini o frasi ammiccanti che a volte mirano a ricondurla alla condizione di oggetto-corpo, emotività-irrazionalità, metafora di confusione, vuoto o assenza di parola. Stereotipi del femminile che lo considerano non adeguata ad affrontare discorsi teorici riguardo a questioni pubbliche o di stato. Il trovare parole e modalità “altre” per essere visibili pubblicamente non è scontato e necessita percorsi di autoriconoscimento e autodeterminazione non sempre facili e non per tutte allo stesso modo. Infatti non è scontato che amiche/compagne ci concedano (per loro insicurezze o per paura di essere “oscurata” dal successo dell’altra) quello spazio che serve a riconoscerci o un’altra occasione per affrontare senza vergogna questi limiti che ci poniamo spesso noi donne nei contesti misti; pur considerando che non partiamo tutte con le stesse possibilità socialmente accreditate e gli strumenti adatti per raggiungere pari riconoscimenti delle nostre rispettive differenze. Quello di cui ho appena trattato mi serve per parlare del modo di vivere delle donne i diversi contesti lavorativi? Sì, se rivolgo l’attenzione a leggi di mercato che ci impongono prestazioni in cui dobbiamo continuamente essere “tutto” e “al meglio”, o anche di più. Leggi e criteri di valutazione che ci costringono in ruoli naturalizzati (lavori di cura) e mai valorizzati oppure ci negano abilità e competenze acquisite ma non riconosciute, di fatto, al nostro sesso. Le ripercussioni sui differenti soggetti, a causa delle soluzioni prese per arginare gli effetti della crisi, mettono in luce i costi pagati ed i benefici realmente ottenuti nei tempi di produzione e nei tempi di riproduzione della nostra società. E’ importante mettere l’accento sulle modalità competitive e poco collaborative del sistema capitalistico/neoliberista che tende a posizionarci l’una-o contro l’altro-a, puntando soprattutto alla produttività e molto poco alla qualità della nostra vita. Qualità della vita che implica l’avere uno spazio/tempo per sé e un tempo da dedicare al lavoro adeguatamente retribuito, dove io donna o uomo possiamo disporre di servizi che non ci obbligano a sacrificare aspetti importanti che riguardano la cura di noi stessi e di coloro cui siamo legati affettivamente. In un momento storico in cui i tagli alla spesa pubblica colpiscono soprattutto le possibilità di ricevere quell’assistenza che sempre più viene scaricata sul lavoro gratuito e non sempre volontario delle donne, è sempre più impellente un confronto su quali pratiche sono necessarie per facilitare (in modo paritario) l’accesso alle possibilità di formazione e l’entrata/permanenza nel mondo del lavoro. In Italia, in questi ultimi quaranta anni, sembra essere avvenuta una maggiore apertura alle istanze delle donne. Ci sono state delle conquiste importanti da parte dei movimenti femministi e differenti soggetti hanno raggiunto una maggiore visibilità (mi riferisco anche alle istanze dei soggetti Lgbtqi) e in Italia si parla ultimamente anche di leggi sulle Unioni Civili. Queste aperture e contraddizioni, il mettere in discussione i ruoli sociali tra i generi connessi anche alla conquista da parte delle donne di libertà e di accesso ad alcuni diritti, ha causato al genere maschile la perdita di punti di riferimento e in molti casi le difficolta ad affrontare il cambiamento (aumento dei casi di femminicidio e violenze omofobiche). Una delle cause che sta trasformando il nostro modo di pensare si può individuare in una reale, ma spesso rifiutata idealmente, frantumazione anche nell’immaginario collettivo del modello normativo dominante del maschio bianco, di classe media, abile, adulto, eterosessuale e produttivo. Le reazioni sociali refrattarie a quest’ultima rottura con un immaginario classico sono state anche quelle di riaffermare un concetto di natura che ingabbia le persone, soprattutto le donne ma anche gli uomini, in ruoli e comportamenti prestabiliti, rassicuranti, attraverso i quali giustificare e far apparire effetto di naturali propensioni il ritorno delle donne entro le mura domestiche. Ai nuovi programmi educativi nelle scuole, come reazioni a questa involuzione dell’immagine della donna, sono seguite risposte pretestuose di accusa da parte di alcune figure istituzionali e da personaggi del mondo estremista cattolico di voler diffondere la cosiddetta 'Ideologia gender' tra gli adolescenti per indurli a comportamenti 'innaturali'(nei confronti di quella che viene chiamata ‘lobby gay’ e di alcuni gruppi del femminismo formatisi sui GenderStudies). Allo stesso tempo, in questi ultimi anni, le aziende, in una loro logica della conciliazione, hanno esaltato i ruoli della donna multitasking: brava mamma, moglie e lavoratrice. Sono nati anche progetti che prospettano facili soluzioni per la conciliazione vita-lavoro. Nuove prospettive che sembrano andare incontro all'esigenza delle donne, ma in realtà le obbligano a svolgere più compiti, ad aumentare il carico di lavoro, dentro e fuori casa, oltre a far gravare sulle stesse aspettative e ansie per prestazioni che non possono essere deluse. Una lotta continua per affermare il proprio valore in ambito professionale, senza mettere veramente in discussione i ruoli “naturali” di genere, e senza scalfire una idea di femminilità rassicurante soprattutto per un modello sociale che mira ad esaltare un sistema produttivo, individualista e non collaborativo. Un sistema di produzione che rinforza dinamiche interne alla nostra società e che sistematicamente porta avanti in ogni rapporto sociale, culturale, economico ed interpersonale quegli atteggiamenti di prevaricazione e di sfruttamento dei più deboli che vengono condotti con metodicità dalle società rette da sistemi capitalisti. Le stesse società e sistemi, tengo a sottolinearlo, che definiscono, tramite operazioni sociali e culturali quindi costituite anche secondo meccanismi giuridici, economici, etc., l'appartenenza sessuale delle persone, la delimitazione e la numerazione dei sessi, la definizione biologica e/o genetica del sesso. Motivo per cui un'interpretazione della crisi economica che consideri solo la dimensione di classe rischia di cancellare l'impatto sul sistema di riproduzione sociale della forza-lavoro, lasciando quindi invisibili i costi pagati dalle donne in termini di lavoro domestico/di cura. L’assumere anche una prospettiva riproduttiva del lavoro permette di individuare l’intervallo spazio-temporale che separa valorizzazione per il profitto altrui e pratiche e istituzioni di auto valorizzazione (Federica Giardini e Anna Simoni, La riproduzione come paradigma. Elementi per una economia politica femminista, pubblicato su www.globalproject 8/1/2015). Continuano ad esserci forti disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro: lo dicono i dati Istat. Solo dal 2013 sembra che sia aumentata la richiesta di occupazione da parte delle donne vicine all’età pensionabile; ricoprono incarichi di basso profilo per compensare la crescita di disoccupazione degli uomini. Nel lavoro esiste ancora una forte segregazione orizzontale e verticale: le donne sono concentrate in un ristretto numero di attività (esistono tuttora “lavori da uomini e lavori da donne”) e concentrate ai livelli più bassi della scala gerarchica (risultato di stereotipi di genere, il fenomeno del ‘soffitto di cristallo’); insomma le donne faticano il doppio per dare libera espressione alle loro capacità. I dati indicano ancora una disuguaglianza contrattuale, es. l’occupazione femminile è più concentrata nelle posizioni dipendenti, anziché indipendenti. Il part-time è fortemente femminilizzato. Concepito per facilitare la conciliazione tra lavoro e famiglia, penalizza le lavoratrici dal punto di vista salariale, rispetto ai lavoro full-time, e dà loro scarsa possibilità di carriera: spesso non è una scelta volontaria. La segregazione occupazionale e la disuguaglianza contrattuale sono le cause principali della disuguaglianza retributiva(Alcune delle problematiche legate alle differenze di genere nel mercato del lavoro sono trattate nel volume ‘La costruzione del Genere’ curato da Barbara Pizzini e nell’articolo di Giovanna Vertova ‘Il mercato del lavoro in un’ottica di genere’). Sia il sistema di produzione delle merci che il sistema di riproduzione sociale della forza-lavoro fanno parte di quel sistema capitalistico di produzione delle merci che tende ad inglobare in sé e mercificare lo spazio dei diritti. Un esempio riguarda la “femminilizzazione del lavoro” che ha ridiscusso i tempi del lavoro aumentando la flessibilità e dunque la precarietà del lavoro. Secondo le economiste femministe le condizioni di vita delle persone dipendono dall’interazione di due sistemi: il sistema della produzione di mercato che riguarda acquisto di beni e servizi prodotti dal lavoro salariato di lavoratori e lavoratrici e il sistema di riproduzione sociale della forza lavoro che riguarda i bisogni materiali (lavoro domestico e/o lavoro di cura) tutto ciò che serve anche a riprodurre nuova forza lavoro. Questo secondo sistema si basa sul lavoro non pagato delle persone che se ne fanno carico dentro la famiglia. E’ risaputo che in tutti i paesi europei sono le donne a farsene più carico. Ad esempio il lavoro in casa e il lavoro delle madri è stato sempre nascosto dietro concetti ideologici come “l'amore materno” o “la natura femminile” e mai questi lavori sono stati apprezzati e considerati come lavoro reale, cui si è riconosciuto un valore non solo morale. Il modello di famiglia che tende a prevalere in Italia e le conseguenti divisioni di ruoli relativi ai generi fanno persistere il divario tra uomini e donne riguardo alle ore investite per i lavori di cura interni alla famiglia e quelle dedicate al lavoro retribuito. Mi sono chiesta se il reddito di base così discusso in questi mesi riuscirebbe a ridurre il divario dei generi nel lavoro riproduttivo. Come influenzare un sistema di produzione e dei modelli relazionali che sono andati sempre felicemente a braccetto?I rapporti di classe, le differenti visioni delle relazioni tra i sessi e dei ruoli tra i generi, insieme ad una concezione tradizionale di cosa è famiglia, condizionano le scelte di welfare, le leggi sul lavoro e la volontà che esista un reddito minimo per tutti. Come,viceversa, il welfare incide attraverso le sue norme e convenzioni sociali e culturali ad accrescere le disuguaglianze di genere. Dunque, come aiutare i differenti soggetti a poter essere più autonomi nel decidere e nel rifiutare situazioni di sfruttamento? Le circostanze sfavorevoli di questi ultimi tempi, unite alla riduzione della spesa sociale e alle misure di consolidamento fiscale varate nell'ultimo decennio dal governo italiano e non solo, hanno contribuito a segnare una battuta d'arresto nel processo emancipatorio di accesso ai diritti e di realizzazione delle differenze femminili, ma hanno anche accelerato il percorso involutivo di un ritorno delle donne nel privato. Il momento storico, politico ed economico che stiamo attraversando necessita di maggiori garanzie per l’accesso ai diritti e allo stesso tempo alla possibilità di autodeterminarci, nella libertà di scegliere: ci si autodetermina a partire da un particolare posizionamento, il luogo in cui si è situati, così come le differenze che ci attraversano e costituiscono come soggetti ci condizionano e costituiscono i nostri percorsi conflittuali, mai lineari e sintetizzabili in una unica e replicabile via. Ma per realizzare ognuna/o il suo percorso si ha bisogno di un lavoro, di mezzi di autosostentamento che ci consentano l’accesso a beni e servizi, che permettano anche una più equa redistribuzione dei carichi di lavoro di cura. Quali consigli su come intervenire? Quali effetti può avere un reddito minimo per tutti-e le cittadine e i cittadini? In che modo i criteri differenti di gestione del tempo di lavoro e del tempo di vita, da parte delle donne, possono contrastare una struttura capitalistica, mettere in discussione l’ordine sociale sessista, razzista, classista, eteronormato, etc? Oggi molte donne vogliono che le problematiche del lavoro siano affrontate da punti di vista non strettamente economicisti, fuori da una logica solo produttiva, oltre uno sguardo universalistico e sinottico di un “soggetto senza corpo” che è dappertutto ed in nessun luogo. Pensiamo sia necessario considerare i differenti posizionamenti dei soggetti attraverso il riconoscimento dell’implicazione dei corpi, della loro parzialità e pluralità. Qui la posta in gioco è riappropriarsi non del valore, bensì dei criteri e delle misure di attribuzione del valore. In buona sostanza, chi decide e come in cosa consiste il sentirsi bene? |
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Gennaio 2021
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