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      • UN CECCHINO DISARMATO
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      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
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      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
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      • CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'
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COME FARE LA RIVOLUZIONE SENZA PRENDERE IL POTERE...A LUGLIO

29/9/2017
di Daniel Gaido (*) 

Nel 1917 la Russia contava 165 milioni di cittadini, dei quali solamente 2 milioni e 700 mila vivevano a Pietrogrado. Nella capitale abitavano 390.000 operai – un terzo erano donne –, tra i 215.000 e i 300.000 soldati di guarnigione e circa 30.000 marinai e soldati di stanza nella base navale di Kronstadt.
Dopo la Rivoluzione di Febbraio e l’abdicazione dello zar Nicola II, i Soviet, guidati dai Menscevichi e dai Socialisti Rivoluzionari, cedettero il potere a un governo provvisorio non eletto che era deciso a mantenere la Russia belligerante nella Prima Guerra Mondiale e a ritardare la riforma agraria fino all’elezione dell’Assemblea Costituente, rimandata a data da destinarsi.
Inoltre i Soviet avevano richiesto la creazione di commissioni di soldati e avevano dato istruzioni di disubbidire a ogni ordine ufficiale che andasse contro gli ordini e i decreti del Soviet dei Deputati, degli Operai e dei Soldati.
Queste decisioni contraddittorie provocarono una duplice e precaria struttura di potere, caratterizzata da crisi di governo ricorrenti.
La prima di queste crisi avvenne nell’aprile 1917, a guerra in corso, e terminò quando i principali leader politici borghesi – Pavel Milyukov del Partito dei Cadetti (cioè il Partito Democratico Costituzionale) e Alexander Guchkov del Partito Ottobrista –vennero rimossi dalle loro cariche. Inoltre, la crisi rivelò l’impotenza del governo nella guarnigione di Pietrogrado: le truppe rispondevano alla Commissione Esecutiva del Soviet di Pietrogrado piuttosto che all’allora comandante, il generale Lavr Kornilov.
Il governo di coalizione che venne formato in seguito alla crisi comprendeva nove ministri provenienti dai partiti borghesi e sei ministri dai cosiddetti partiti socialisti. Il principe Georgy Lvov rimase primo ministro e ministro dell’interno, ma l’astro nascente del governo era il ministro della guerra e della marina, Alexander Kerensky, membro del Partito Socialista Rivoluzionario. Il gabinetto comprendeva anche i menscevichi Irakli Tsereteli, ministro delle poste e telegrafi, e Matvey Skobelev, ministro del lavoro. I Socialisti Rivoluzionari Viktor Chernov and Pavel Pereverzev si aggiunsero alla coalizione, l’uno come ministro dell’agricoltura, l’altro come ministro della giustizia.

Il Partito Bolscevico nell’estate del 1917

I Bolscevichi si trovano in difficoltà nella prima metà del 1917. Inizialmente si opposero alla manifestazione per la Giornata Internazionale della Donna, che porterà invece alla Rivoluzione di Febbraio. Successivamente il Partito Bolscevico subì una brusca svolta a destra a metà marzo, quando Lev Kamenev, Josef Stalin e Matvei Konstantinovic Muranov, di ritorno dalla Siberia, rilevarono l’organo di partito, la  “Pravda”. Sotto il loro controllo, il giornale espresse il proprio sostegno critico nei confronti del governo provvisorio, rifiutò lo slogan “Abbasso la guerra” e chiese che si mettesse fine alle attività di disorganizzazione al fronte. Queste posizioni erano in netto contrasto con le opinioni che Lenin aveva espresso nelle sue Lettere da Lontano, per cui non è certo sorprendente che la “Pravda” pubblicasse solo la prima di queste, peraltro con numerosi tagli. Secondo la testimonianza di Alexander Shlyapnikov:
 
Il giorno in cui venne pubblicato il primo numero della “Pravda riformata”, il 15 marzo, fu un giorno trionfale per i “difensisti”. Tutto il Palazzo di Tauride, dai membri della Commissione della Duma alla Commissione Esecutiva, il cuore della democrazia rivoluzionaria, era colmo di una sola notizia, la vittoria dei bolscevichi moderati e ragionevoli sugli estremisti. Nella stessa Commissione Esecutiva venivamo guardati con sorrisi velenosi.
 
Queste opinioni andavano per la maggiore tra i leader bolscevichi a Pietrogrado allorché, il 3 aprile, Lenin giunse alla Stazione di Finlandia. Il giorno dopo Lenin presentò le sue famose Tesi d’aprile ai delegati bolscevichi durante il Congresso panrusso dei Deputati degli Operai e dei Soldati. In opposizione a Kamenev e Stalin, Lenin riaffermò la sua totale sconfessione del “difensismo rivoluzionario” e invocò la fraternizzazione con i soldati nemici al fronte. Inoltre adottò la prospettiva di Leone Trotsky, descrivendo il “momento attuale” come una transizione tra un primo stadio “borghese-liberale” della rivoluzione e il secondo stadio “socialista”, durante il quale il potere sarebbe passato nelle mani del proletariato.
Lenin si oppose al “sostegno limitato” di Stalin e Kamenev al governo provvisorio, invocando invece un totale rifiuto, e respingendo l’idea che i bolscevichi potessero ricongiungersi con l’ala meno radicale dei menscevichi. Da allora in poi, i bolscevichi spinsero affinché tutto il potere passasse ai Soviet, che avrebbero poi armato il popolo, abolito la polizia, l’esercito e la burocrazia statale, confiscato i possedimenti dei proprietari terrieri e trasferito il controllo della produzione e della distribuzione ai lavoratori.
Durante il settimo Congresso panrusso del Partito Bolscevico, tenutosi a Pietrogrado dal 24 al 29 aprile, le posizioni di Lenin sulla guerra e il governo provvisorio ottennero la maggioranza.
Il Partito Bolscevico aveva ancora dimensioni piuttosto modeste all’inizio del 1917, con appena 2.000 membri a Pietrogrado, lo 0,5% del proletariato industriale cittadino. Tuttavia, all’apertura del Congresso di aprile, le iscrizioni al partito erano già salite fino a 16.000 nella sola capitale. A fine giugno erano raddoppiate. 2.000 soldati della guarnigione si erano uniti all’Organizzazione Militare Bolscevica, e altri 4.000 erano diventati soci del Club Pravda, un’organizzazione esterna al partito e riservata al personale militare, ma guidata in effetti dall’Organizzazione Militare Bolscevica.
La crescita repentina delle iscrizioni trasformò l’organizzazione. Le sue file si irrobustirono con dei nuovi acquisti che sapevano poco di marxismo, ma erano ben pronti per l’azione rivoluzionaria.
Nel frattempo, i bolscevichi cominciato a incorporare altre organizzazione già esistenti. Il 4 maggio, il giorno prima della formazione del governo di coalizione, Trotsky tornò dall’esilio. Ora che lui e Lenin avevano trovato un terreno comune, Trotsky cominciò a rinsaldare i legami tra la sua Mezhraiontsy (o organizzazione interdistrettuale) di Pietrogrado e il partito guidato da Lenin.
Ma nonostante la crescita esponenziale, i Bolscevichi erano ancora in minoranza: il 3 giugno, quando cominciò il primo Congresso panrusso dei Soviet dei Deputati degli Operai e dei Soldati, essi rappresentavano meno del 10 per cento dei delegati. A questo incontro parteciparono 1.090 delegati – 822 dei quali aveva diritto di voto – che rappresentavano oltre 300 soviet di operai, soldati e contadini e 53 soviet regionali, provinciali e distrettuali. I bolscevichi, con i loro 105 delegati, erano la terza forza, dietro ai Socialisti Rivoluzionari (285 delegati) e i Menscevichi (248). A quel tempo, a Pietrogrado c’erano tre organizzazioni del Partito Bolscevico: il Comitato Centrale, formata da 9 persone, l’Organizzazione Militare panrussa e il ‘Comitato di Pietroburgo’. Ognuna di queste aveva le sue responsabilità, il che le rendeva soggette a varie e confliggenti pressioni. La Commissione Centrale, che doveva considerare la situazione del paese intero, si trovò spesso a dover frenare i gruppi più radicali.

Preparativi

L’Organizzazione Militare Bolscevica pianificò una dimostrazione armata per il 10 di giugno con l’obiettivo di esprimere l’opposizione delle masse ai preparativi del governo provvisorio per un’offensiva militare, ai tentativi di Kerensky di ristabilire la disciplina nelle caserme e all’aumento delle minacce di trasferimento al fronte. Venne però annullata all’ultimo momento, vista l’opposizione del Congresso dei Soviet.
Alcuni elementi del Partito Bolscevico, in particolare nel Comitato di Pietroburgo e nell’Organizzazione Militare, avevano visto nella manifestazione poi abortita una potenziale insurrezione. E Lenin stesso dovette presenziare ad un incontro d’emergenza per difendere la decisione del Comitato Centrale di cancellare la mobilitazione. Lenin spiegò che il Comitato Centrale aveva dovuto osservare un esplicito ordine del Congresso dei Soviet e che, diversamente, la controrivoluzione avrebbe utilizzato la manifestazione per i propri scopi. Disse Lenin:
 
Persino in guerra può succedere che un’offensiva programmata da tempo venga cancellata per ragione di strategia; e questo è assai più probabile che accada nella lotta di classe [...]. È necessario saper determinare la situazione ed essere audaci nelle decisioni.
 
Il Congresso dei Soviet votò per manifestare la settimana successiva, il 18 giugno, e ordinò di partecipare, non armate, a tutte le unità militari del presidio. I bolscevichi trasformarono l’appuntamento di lotta in una mobilitazione contro il governo, con la partecipazione di oltre 400.000 manifestanti. Un testimone della Rivoluzione Russa come Nikolai Sukhanov ricorda:
 
Tutti gli operai e i soldati di Pietrogrado vi presero parte. Ma qual era il carattere politico della manifestazione? “Ancora i bolscevichi”, notai, guardando gli slogan “e lì dietro c’è un’altra fila bolscevica” [...] “Tutto il potere ai Soviet!” “Abbasso i dieci ministri capitalisti!” “ Pace nei tuguri, guerra nei palazzi!”. In questo modo risoluto e duro la Pietroburgo operaia, e contadina, l’avanguardia della rivoluzione russa e mondiale, espresse la propria volontà.
 
I Bolscevichi avevano programmato la manifestazione con la Federazione Anarco-Comunista di Pietrogrado, uno dei due principali gruppi anarchici attivi in quel periodo. La Commissione Provvisoria Anarchica Rivoluzionaria decise di scavalcare il proprio alleato e fece evadere dalla prigione di Vyborg F. P. Khaustov, direttore del giornale dell’Organizzazione Militare Bolscevica.
In risposta, il governo irruppe nel quartier generale degli anarchici, uccidendo uno dei suoi leader. Insieme all’offensiva di luglio di Kerensky e ai nuovi ordini di armi e uomini, l’assassinio di Asnin aumentò il malcontento militare, in particolare quello del 1° Reggimento Mitragliatrici. Furono questi soldati a pianificare una rivolta, con l’aiuto degli Anarco-Comunisti, per il primo di luglio.
Al Congresso panrusso dell’Organizzazione Militare Bolscevica, i delegati furono messi in guardia: non bisognava fare il gioco del governo mettendo in piedi un’insurrezione disorganizzata e prematura. Il discorso di Lenin del 20 luglio suonò come un avvertimento preveggente:
 
Dobbiamo essere molto attenti a non farci provocare [...] Una mossa sbagliata può mandare tutto all’aria [...] Se fossimo in grado di impadronirci del potere ora, è ingenuo pensare che poi saremmo in grado di mantenerlo.
Abbiamo detto più di una volta che l’unica forma possibile di governo rivoluzionario era quello di un Soviet dei Deputati degli Operai, dei Soldati e dei Contadini.
Qual è il peso della nostra frazione all’interno dei Soviet? Perfino nei Soviet di entrambe le capitali, per non parlare delle altre città, siamo una minoranza insignificante. Che cosa ci mostra questo? Non possiamo ignorare i fatti. I fatti ci mostrano che la maggioranza delle masse è indecisa, ma crede ancora nei Socialisti Rivoluzionari e nei Menscevichi.

 
Lenin tornò su questo concetto in un editoriale pubblicato sulla “Pravda”:
 
L’esercito ha marciato fino alla morte perché credeva di fare un sacrificio per la libertà, per la rivoluzione e per una pace il più presto possibile.
Ma l’esercito lo ha fatto perché è parte di una popolazione che in questa fase della rivoluzione sta seguendo il Partito Socialista-Rivoluzionario e il Partito Menscevico. Questo aspetto generale basilare, ovvero la fiducia della maggioranza nella politica piccolo-borghese dei Menscevichi e dei Socialisti-Rivoluzionari, che è subalterna ai capitalisti, determina la condotta del nostro Partito.

 
Ma, nelle parole di Trotsky, gli operai e i soldati:
 
Si ricordavano che a febbraio i loro leader erano pronti a ritirarsi proprio alla vigilia della vittoria; che a marzo la giornata lavorativa di otto ore era stata raggiunta grazie ad un’azione dal basso; che ad aprile Miliukov era stato buttato fuori dai reggimenti, che scesero in strada di propria iniziativa. La memoria di questi fatti incrementava la tensione e l’impazienza delle masse.
 
I leader a livello di unità dell’Organizzazione Militare di Pietrogrado sostennero in larga parte un’azione immediata contro il governo provvisorio; molti membri ordinari del Partito Bolscevico consideravano ormai inevitabile, perfino desiderabile, una rivolta al più presto.
Proprio quando l’offensiva era sul punto di fallire, ad ogni modo, il governo venne investito da una nuova crisi: quattro ministri del Partito Cadetto lasciarono la coalizione, in segno di protesta contro il compromesso trovato da Kerensky con la Rada Centrale ucraina. Questa defezione improvvisa rese il governo, ora composto da sei ministri socialisti e da cinque ministri capitalisti, disorganizzato e vulnerabile. Quando iniziarono le Giornate di luglio, i Bolscevichi conquistarono la maggioranza nella sezione operaia del Soviet di Pietrogrado, a testimonianza della crescita della loro influenza tra le masse.
 
La dimostrazione armata

La serie di eventi conosciuta come “le Giornate di Luglio” cominciò il 3 luglio, quando il 1° Reggimento  Mitragliatrici iniziò una ribellione con il sostegno di altre unità militari. Lo scoppio della rivolta coincise con il secondo Congresso Bolscevico a Pietrogrado, che aprì i lavori il primo di luglio.
Solo quando diventò chiaro che molti reggimenti, sostenuti da masse di operai, erano già scesi in strada e che alcuni militanti di base bolscevichi stavano partecipando, il Comitato Centrale si unì al movimento e suggerì che le manifestazioni continuassero il giorno seguente sotto l’egida dei bolscevichi. Anche se il Comitato Centrale era a conoscenza del fatto che i manifestanti avrebbero portato con sé delle armi, la nota emanata non parlava di un’insurrezione armata o della conquista delle istituzioni governative. La risoluzione ufficiale ribadiva invece la necessità “del trasferimento del potere al Soviet dei Deputati degli Operai, dei Soldati e dei Contadini”.
Così l’Organizzazione Militare Bolscevica assunse la leadership di moti che si erano sviluppati originariamente al di fuori del suo controllo. Tale scoppio inaspettato provocò comunque scompiglio nel partito. Quanti avevano obbedito alla Commissione Centrale e sostenevano occorresse ritardare la rivoluzione si trovarono in contrasto con gli altri, in particolar modo con i membri dell’Organizzazione Militare e con il Comitato di Pietroburgo, che erano invece a favore di un’azione immediata.
Non inaspettatamente, un partito rivoluzionario cresce in maniera esponenziale durante una rivoluzione: abbiamo già visto che il Partito Bolscevico era cresciuto del 1600% in meno di cinque mesi. Questa crescita mise d’altro canto il partito sotto pressione, rischiando di distruggere l’organizzazione stessa.
Nessuna misura di carattere organizzativo può prevenire queste tipo di dinamiche. Ci sono varie circostanze – tra le quali la fiducia che la leadership del partito si è guadagnata – che influenzano lo svolgersi degli eventi rivoluzionari. Ecco perché la costruzione di un partito non può essere intrapresa nell’impeto del momento, come la rivoluzione tedesca avrebbe dimostrato.
Il 3 luglio i manifestanti armati avevano tentato senza successo di arrestare Kerensky, per poi dirigersi al Palazzo di Tauride, sede della Commissione Esecutiva Centrale dei Soviet. La loro intenzione era quella di obbligare i soviet ad assumere i poteri del governo provvisorio.
La folla – si stima ci fossero 60-70.000 persone – travolse le difese del palazzo e presentò le proprie istanze. La Commissione Esecutiva, tuttavia, le rifiutò. Trotsky colse l’ironia del momento quando osservò che, mentre centinaia di migliaia di manifestanti stavano chiedendo ai leader dei Soviet di prendere il potere, la leadership stessa andava cercando delle forze armate da utilizzare contro i manifestanti.
Nel periodo successivo alla Rivoluzione di Febbraio, gli operai e i soldati avevano dato il potere ai Menscevichi e ai Socialisti Rivoluzionari, ma questi partiti in pratica avevano tentato di cederlo ai borghesi imperialisti, preferendo far guerra alla popolazione che assumere il potere nelle proprie mani senza alcuno spargimento di sangue. Quando i manifestanti di luglio si resero conto che la leadership dei Soviet non si sarebbe liberata dei suoi alleati capitalisti – molti dei quali avevano comunque lasciato il governo di propria volontà – la situazione giunse a un punto morto.

“Prenditi il potere, figlio di un cane, quando ti viene dato!”

Il giorno dopo Lenin, che si trovava in Finlandia, arrivò direttamente nel quartier generale dei bolscevichi, al palazzo Kshesinskaia. Ben presto, anche i marinai della base navale di Kronstadt vi si diressero. L’ultimo discorso pubblico di Lenin prima della Rivoluzione d’Ottobre non fu però come i marinai si aspettavano: Lenin enfatizzò il bisogno di una manifestazione pacifica ed espresse la propria certezza che lo slogan “Tutto il potere ai Soviet” avrebbe alla fine trionfato, e concluse il suo discorso chiedendo ai marinai autocontrollo, determinazione e occhi ben aperti.
Le Giornate di Luglio posero il Comitato Centrale, e Lenin in particolare, in una luce diversa dal solito: avevano scongiurato una rivolta prematura nella capitale, una rivolta che, fosse andata a buon fine, avrebbe isolato i Bolscevichi e infine stroncato la rivoluzione, come accaduto alla Comune di Parigi nel 1871 e come sarebbe poi successo alla rivolta spartachista di Berlino nel 1919.
Una processione di circa 60.000 persone si diresse verso il Palazzo di Tauride, dove avrebbe trovato dei cecchini all’angolo tra via Nevsky e via Liteiny, nonché all’angolo tra via Liteiny e via Panteleymonov. La maggior parte delle vittime, in ogni caso, venne dagli scontri con due squadroni di cosacchi, che avevano anche utilizzato l’artiglieria contro i manifestanti. Dopo questi due intense battaglie per la strada, i marinai di Kronstadt, guidati da Fyodor Raskolnikov, raggiunsero il Palazzo di Tauride e si unirono al 1° Reggimento Mitragliatrici.
Successivamente ebbe luogo uno degli eventi più drammatici e al tempo stesso tragicomici della giornata: Victor Chernov, il cosiddetto teorico dei Socialisti Rivoluzionari, fu mandato a calmare i manifestanti. La folla lo accerchiò e un operaio, col pugno alzato, gli disse: “Prenditi il potere, figlio di un cane, quando ti viene dato!” La folla dichiarò Chernov in arresto e lo confinò all’interno di un’automobile lì vicino. L’intervento tempestivo di Trotsky salvò il ministro. Sukhanov ha descritto questa bizzarra scena:
 
La folla, che si stendeva a perdita d’occhio, era in subbuglio [...] Tutta Kronstadt conosceva Trotsky e, si sarebbe detto, si fidava di lui. Ma quando cominciò a parlare la gente non si placò. Se fosse stato sparato un colpo lì vicino in quel momento, a mo’ di provocazione, avrebbe probabilmente causato un massacro e tutti noi, incluso forse anche Trotsky, saremmo stati fatti a pezzi. Trotsky, visibilmente agitato e incapace di trovare le parole giuste in quel momento così tumultuoso, riusciva a malapena a farsi sentire dalle file più vicine [...] Quando cercò di salvare Chernov, le file intorno alla macchina si infuriarono. “Siete venuti qui per dichiarare la vostra volontà e per mostrare ai Soviet che la classe operaia non vuole più la borghesia al potere [disse Trotsky]. Ma perché danneggiare la vostra stessa causa con stupidi atti di violenza contro degli individui? [...] Ciascuno di voi ha dimostrato la sua devozione alla rivoluzione. Ciascuno di voi è pronto a dare la vita per la rivoluzione. Lo so. Dammi la tua mano, compagno! La mano, fratello!”. Trotsky allungò la mano verso una marinaio che stava protestando con particolare violenza. Ma quello si rifiutò categoricamente di reciprocare [...] Mi sembrò che il marinaio, che di certo aveva ascoltato Trotsky a Kronstadt varie volte, avesse ora la sensazione che Trotsky fosse un traditore. Ricordava i suoi discorsi precedenti ed era confuso [...] Non sapendo cosa fare, i marinai di Kronstadt liberarono Chernov.
 
Chernov tornò al Palazzo di Tauride e scrisse otto editoriali che condannavano la condotta dei Bolscevichi. Il giornale Socialista-Rivoluzionario “Delo nadora” ne pubblicò quattro.
Il governo provvisorio, comunque, si vendicò in maniera molto più perfida: il giorno dopo cominciò una campagna diffamatoria che descriveva Lenin – che aveva raggiunto la Russia viaggiando su un treno sigillato – come un agente dello Stato Maggiore tedesco.

Il temporaneo trionfo della reazione

Il 5 luglio la Commissione Centrale Esecutiva dei Soviet e il Distretto Militare di Pietrogrado lanciarono un’operazione militare per riprendere il controllo della capitale. Le truppe fedeli al governo occuparono il palazzo Kshesinskaia e distrussero le macchine da stampa della “Pravda”. Lenin si mise in salvo a fatica.
È futile chiedersi se, qualora fosse stato catturato, Lenin avrebbe incontrato lo stesso destino di Rosa Luxemburg and Karl Liebknecht dopo la Rivolta Spartachista; ma possiamo farci un’idea in base a una caricatura (foto principale dell'articolo che trovate in alto) pubblicata dal giornale di destra “Petrogradskaia gazeta” due giorni dopo.

Le truppe lealiste avevano occupato anche la Fortezza di Pietro e Paolo, che il 1° Reggimento Mitragliatrici aveva lasciato all’Organizzazione Militare Bolscevica. La Commissione Centrale del Partito aveva dato istruzioni di terminare le manifestazioni in strada, chiedendo agli operai di tornare al lavoro e ai soldati di tornare nelle loro caserme.
Nel frattempo il governo aveva ordinato l’arresto dei leader bolscevichi, tra i quali c’erano Lenin, Kamenev e Grigory Zinoviev oltre a Trotsky e Anatoly Lunacharsky, leader dell’Organizzazione Inter-distrettuale. Anche se alcuni di questi prigionieri politici, tra cui Trostsky, lasciarono la prigione durante il colpo di stato di Kornilov per organizzare la resistenza operaia, altri sarebbero rimasti in prigione fino alla Rivoluzione d’Ottobre.
Così finirono le Giornate di Luglio che furono, secondo le parole di Lenin, “molto più di una manifestazione e molto meno di una rivoluzione”.
Alcuni dei principali leader del Partito Bolscevico dovettero entrare in clandestinità, e i suoi giornali furono chiusi, ma la battuta d’arresto ebbe vita breve. Il fallimento, a causa del massiccio contrattacco austro-tedesco, dell’offensiva dell’Undicesima Armata sul fronte sud-occidentale andò ad aggiungersi alla situazione economica che peggiorava di continuo, riaffermando così la validità degli slogan bolscevichi.
E infatti i giornali bolscevichi riapparvero ben presto con testate solo leggermente modificate, mentre i comitati di partito trovarono nuovi appoggi molto velocemente. Disarmare le unità militari ribelli, come aveva ordinato il governo, fu più facile a dirsi che a farsi. Ben presto il fallimento del colpo di stato di Kornilov nell’agosto del 1917 capovolgerà la situazione, creando finalmente le condizioni per la presa del potere da parte dei Bolscevichi.
 
 
[traduzione di Daniele Vallotto]
 

(*) Daniel Gaido è un ricercatore presso il Conicet, in Argentina. Ha curato con Richard B. Day i volumi Witnesses to Permanent Revolution (2010) eDiscovering Imperialism: Social Democracy to World War I (2012)
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ADOLESCENZE FRAGILI

25/9/2017
di Erika Di Cara

Il paesaggio sociale e culturale del contemporaneo, sovradeterminato dalla crisi del capitalismo neoliberista, sembra essere caratterizzato, soprattutto nei paesi opulenti dell’Occidente, da una catastrofica crisi di senso e un generalizzato svuotamento emozionale. La deriva postmoderna che l’accompagna ha ridotto l’esperienza degli individui a una trama di flussi comunicativi dai quali emerge esclusivamente la sfera superficiale e irreale del mondo virtuale e massmediale. A soffrirne maggiormente sono le nuove generazioni. Pubblichiamo qui di seguito un intervento della psicoterapeuta Erika Di Cara che presenta – nell’ambito della serie di attività seminariali “La maladolescenza”, organizzate dal Laboratorio di Gruppoanalisi e dal Centro clinico Koinè – il convegno intitolato “Il rischio suicidario in adolescenza”, che si terrà a Palermo presso la scuola Coirag i prossimi 29 e 30 Settembre.

C’è una dimensione trasversale agli adolescenti che coltivano nella segretezza del loro mondo interno il pensiero della morte, un inghippo, qualcosa che non evolve come dovrebbe nel loro percorso di crescita. Qualcosa che ha a che fare con l’impatto con la mortalità del corpo.

È possibile rintracciare in questa breve enunciazione un paradosso, relativo al fatto che proprio nel momento di massimo splendore della propria forma, quando il corpo esprime il massimo della potenza e la mente le infinite potenzialità, in alcuni casi, sembra che sia proprio l’idea della morte a prendere il sopravvento.

In questi casi ciò che va storto è qualcosa che ha a che fare con la mentalizzazione della morte.
Per mentalizzazione si intende quel processo attraverso il quale i cambiamenti interni, sia fisiologici che fisici, passano da un livello esperito a quello mentale e trovano accesso alla simbolizzazione. Si tratta di un processo che permette di risignificare i vari cambiamenti, farli diventare contenuti di pensiero e, in questo modo, consente di riorganizzare il proprio apparato per pensare.

In questa fase il soggetto nasce nella sua essenza sociale, passa da una dimensione familiare ad un investimento verso il sociale e a quella che diventerà la ricerca di un proprio posto nel mondo. In questo lento processo, caratterizzato da tanti andirivieni, il soggetto passa attraverso dolorosi processi di separazione: si separa dal proprio mondo familiare, sottrae il proprio corpo dagli sguardi attenti del materno, prova a presidiare nuovi spazi, attraversa paludosi momenti di noia, sperimenta nuovi slanci verso il mondo sconosciuto che si pone fuori dalla portata della famiglia. 
L’adolescente crea nuove alleanze rivolgendosi al mondo dei pari e ricerca nuove conferme e nuovi confidenti.
In questa fase il suo corpo è abitato da nuove pulsioni e da un circolo ormonale che lo trasforma e lo trasfigura costringendolo a riorganizzare la propria percezione corporea e il modo di presentarsi agli altri.
In questo caotico nuovo mondo si affaccia anche l’idea della finitezza del corpo e della morte. L’impatto è quasi sempre temibile e scioccante e molti ne prendono le distanze.

Nel lavoro con gli adolescenti che tentano il suicidio, o che vivono una fascinazione/attrazione nei confronti della morte, si impatta con una reazione completamente diversa. Se la maggior parte teme il pensiero della morte, lo allontana o lo esorcizza attraverso rituali e credenze, loro lo coltivano e lo fanno diventare un progetto segreto, una fantasia alla quale tornare nei momenti di sconforto, quasi un compagno di viaggio. Si tratta di un compagno feroce che si insedia nella mente con la promessa di un riscatto, con un miraggio di riabilitazione agli occhi del mondo rispetto la propria fragilità.

Quando si parla di questi adolescenti si fa riferimento a soggetti portatori di una grande fragilità che non permette loro di fronteggiare le criticità di questo periodo. Tale fragilità è quella che porta a un grande senso di inadeguatezza e alimenta all’interno del proprio mondo un senso di vergogna e timore  che si traduce inevitabilmente in un grande dolore. In tal senso il progetto suicidario diventa un elemento consolatorio, in quanto rappresenta una via di uscita da tale dolore.
In questi ragazzi riemerge spesso un aspetto scissionale: pur essendo consapevoli della morte è come se nell’idea di uccidere il proprio corpo non corrispondesse una cessazione totale e inderogabile di sé, ma è come se nella loro idea ad essere uccisa fosse quella parte fragile e inadeguata. 
Riemergono spesso fantasie di onnipotenza o idee di riscatto o, ancora, idee vendicative. 

In altri casi l’idea della morte rimane ferma nel proprio campo mentale come qualcosa da scacciare e sopprimere costantemente. È lì che troviamo il bisogno di esorcizzare la paura della morte. In assenza di una simbolizzazione adeguata si va alla ricerca di atti al limite, siano essi legati al consumo di sostanze, rituali pericolosi o a sport estremi, dove uscirne vivi è sempre una vittoria, perché a perdere è la morte. In questo caso la ricerca dell’estremo è un tentativo di mettere continuamente in scacco la morte (G. Pietropolli Charmet, 2009). 
Un esempio è dato dai nuovi giochi di gruppo, che propongono tecniche di apnea o modalità in cui il soggetto perde coscienza nell’asfissia “quasi letale”, rappresentano un modo per sfidare la morte, per guardarla in faccia, per provare quella dimensione eccitatoria che ne deriva (D. Le Breton, 2016). Dove l’eccitazione e la sensorialità sembrano prendere il posto di una dimensione affettiva piena. Come dire che il godimento sosta al posto del desiderio, costringendo a saziare bisogni inconoscibili. Lì il processo di simbolizzazione ha una battuta d’arresto.
A differenza di coloro che sfidano, mettono costantemente in pericolo la propria vita, gli adolescenti che coltivano progetti suicidari stringono un patto tacito e segreto con la morte attendendo il momento in cui tutto si svolgerà. 

Vorrei a questo punto allargare lo sguardo al contesto culturale sociale in cui siamo immersi, guardare al punto di convergenza tra l’aspetto scissionale individuato in questi adolescenti fragili, ovvero questa difficoltà a concepire la morte nella sua qualità irreversibile e totale, e la rappresentazione della morte nella nostra società.
 
Potremmo intanto pensare a che tipo di rappresentazione della morte viene fornita nel mondo mediatico, nelle cronache e nelle famiglie. 
Il mondo virtuale ci presenta personaggi invincibili o immersi in un mondo in cui si può morire diverse volte e acquistare tante vite e ogni nuova vita nasce potenziata di nuove armi. Le cronache propongono una continua spettacolarizzazione della morte, oppure una riabilitazione post mortem. 
I nostri costumi si sono sicuramente spogliati di tutti quei rituali che ci permettevano di dare l’estremo saluto ai nostri cari dentro un rituale sociale che permetteva il contatto con la salma, la condivisione del dolore e l’impatto doloroso con la fine della vita. Il saluto a ciò che abbiamo perso, alla parte di noi che si perde nella morte dell’altro.
Oggi si tende a nascondere la morte, si sono persi i rituali. Verso i più giovani si attiva un comportamento di “tutela”, si impedisce la vista della morte.
Guardare al modo in cui si tende oggi a trattare la morte ci permette, forse, di capire un po’ meglio dove si collocano tutte le fantasie che accompagnano il segreto progetto. 
La non parlabilità sembra rappresentare il terreno ideale dove le fantasie distruttive trovano alimento.
In conclusione vorrei sostare brevemente su ciò che accade nella stanza d’analisi. 
L’obiettivo primario, la porta d’accesso alla cura, è rappresentato proprio dalla possibilità di creare una falla, di rompere la segretezza, rendere parlabile la dimensione mortifera di tali fantasie. Da lì, da quel punto, diventa possibile depotenziare la spinta verso la messa in atto di atti suicidari. 
È alla relazione terapeutica che l’adolescente può affidare le proprie parti più angoscianti e può fare simbolicamente il “morto” per poi, in un lento lavoro di elaborazione, in un nuovo campo affettivo,  pian piano riuscire a intravedere il futuro (I.Castellucci, 2009).
Il lavoro con questi adolescenti fragili impone la necessità di riavviare un lavoro di riorganizzazione interno ed esterno, intervenendo anche sull’ambito familiare e scolastico, in modo da attivare una ricognizione di risorse che aiuteranno l’adolescente a intrattenere migliori relazioni col mondo.  
È a partire da queste ultime considerazioni che si può ricavare come la famiglia in primo luogo e poi anche la scuola, nelle sue componenti docenti e studenti, rappresentano interlocutori essenziali nel riaccendere la speranza di scelte vitali.  


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Gustavo Pietropolli Charmet, Antonio Piotti (2009), Uccidersi, Raffaello Cortina.
I. Castellucci (2009), Parlare della morte,in Uccidersi, Raffaello Cortina.
David Le Breton (2016), Fuggire da sé, Raffaello Cortina.
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PIÙ CHE UN ROMANZO LA VITA MIA

22/9/2017
di Giovanni Di Benedetto

È notizia di questi giorni l’accordo fra due grandi gruppi della siderurgia mondiale, la Tata Steel e la ThyssenKrupp, per unire in un unico soggetto produttivo le loro attività in Europa. Si tratta di un imponente processo di concentrazione che dovrebbe fare del nuovo gruppo il secondo produttore di acciaio del mercato europeo. Un grande gruppo industriale con 48.000 dipendenti, che dovrebbe però prevedere anche la cancellazione di 4.000 di lavoro. In Italia la ThyssenKrupp è proprietaria dell’Acciai Speciali Terni, dove sono impiegati oltre 2000 dipendenti. Qui di seguito pubblichiamo una recensione dell’ultimo libro di Alessandro Portelli sulla storia industriale delle acciaierie di Terni.



Di Alessandro Portelli avevo letto, parecchio tempo fa, L’ordine è già stato eseguito (Donzelli 2001), un libro monumentale di testimonianza civile e resistenziale, oltreché di riaffermazione della verità storica, sull’attentato di Via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine. Nelle scorse settimane estive sono incappato, scartabellando tra le novità editoriali degli scaffali in libreria, ne La città dell’acciaio. Due secoli di storia operaia (Donzelli 2017, pp. XII-449). Al centro dell’indagine è la città di Terni, il suo indissolubile legame con lo sviluppo prima, e il lento declino dopo, dell’economia industriale in Italia. Il libro si propone come la continuazione di altri due testi scritti nell’arco di trent’anni, Biografia di una città (Einaudi 1985) e Acciai speciali (Donzelli 2008). Con essi, scrive l’autore, condivide un’unità di luogo (la città di Terni, per l’appunto) e di metodo (la storia orale). 
L’autore tratteggia le vicende della classe operaia di Terni e dei suoi altiforni come un tutto storico che racchiude, in un toccante affresco sociale e politico,  opposizione e proposta, protesta e progetto di una società nuova, più uguale e democratica. L’uso delle fonti orali in storiografia mette in gioco, attraverso il dialogo, la dimensione relazionale tra soggetti in carne e ossa, con i loro differenti vissuti e i loro diversi punti di vista. Ne scaturisce la possibilità di scardinare canoni e paradigmi disciplinari, per fare esplodere, in tutta la sua composita globalità, il simbolico racchiuso nell’esperienza dell’altro. Perché la narrazione orale, nell’ambivalenza che risiede nel condensare per iscritto il fluire dinamico del discorso, ha questo di bello, quello di essere non solo l’asettico resoconto dell’evento sollecitato dal campo di indagine dell’intervistatore ma anche l’improvviso baluginare del non detto, di ciò che, celato come non rilevante, non pertinente, o addirittura straniante, getta una nuova luce sull’insieme della storia. D’altra parte questa, anche quando presume di assumere i caratteri dell’ufficialità, rimane sempre il condensato della storicità delle vicende personali: “più che un romanzo, la vita mia” (12) ebbe a dire Giuseppina Migliosi, operaia nella fabbrica di iuta Centurini e nel lanificio Grüber di Terni. 

Sono stato subito attratto dal riferimento alle vicende secolari della comunità operaia di Terni, della città fabbrica del fordismo, come si sarebbe detto un tempo neanche troppo lontano, perché il racconto che viene elaborato dallo storico mi ha riconnesso alle travagliate vicende legate alle lotte che attorno al 2001-2002 non riuscirono a impedire la chiusura della Fiat di Termini Imerese. Per me, che sono stato in anni passati, per ragioni di lavoro, testimone privilegiato di quelle lotte e di quella sconfitta, è stato come ripiombare dentro una vicenda che, pur con le dovute differenze, avevo già vissuto. Come se non bastasse, pur nell’insignificanza del riferimento, mi piace ricordare, per di più, come la cittadina umbra sia legata ai miei ricordi adolescenziali, teatro di una fortunata partecipazione sportiva ad un campionato italiano di rotellismo; ero ragazzino, i primi anni ’80, ma tornai con il vivido ricordo di una città efficiente e pulita, ordinata e organizzatissima, come erano allora molte città del centro e del nord Italia amministrate da giunte guidate dal Partito Comunista. 

Il libro racconta, sulla base di una ricchissima raccolta di interviste orali che va dai nati di prima del 1890 a quelli del 1980, l’origine, lo sviluppo e il declino delle acciaierie di Terni, dal 1830 fino ai giorni nostri. La sagacia con la quale Portelli compone le testimonianze è unica, il senso del ritmo col quale viene montata la trama storica di vicende, insieme personalissime e collettive, sembra essere  espressione di un sapere consumato e di una tecnica registica dalle cadenze cinematografiche. 
La storia della fabbrica si interseca, nel racconto di Portelli, con la storia della città, facendo emergere la componente operaia come componente sociale protagonista di lotte e conflitti. Dal tempo della stagione risorgimentale, passando per il rifiuto della prima guerra mondiale, l’occupazione delle fabbriche del biennio rosso, la marcia su Roma e la lotta partigiana di liberazione contro il nazifascismo. Dagli anni della ricostruzione a quelli della protesta che sfociarono nella contestazione del ’68, dalla stagione del riflusso e del grande freddo ai giorni nostri. Sullo sfondo, la transizione dalla società contadina, con il suo retaggio del latifondo feudale, le sue tradizioni e il suo ethos, alla società industriale con le sue conquiste in termini di benessere ma anche di egoistico consumismo e svuotamento emozionale delle coscienze.

Ma dicevo dell’associazione, quasi automatica e inconscia, con la trama causale di eventi che sfociarono nella dismissione della fabbrica di Termini Imerese. L’accostamento, a circa quindici anni di distanza, è stato, per me, implacabile e rivelatorio. Una linea di produzione ferma assomiglia a qualcosa che muore, mi aveva allora raccontato, in una lunga intervista, un delegato sindacale metalmeccanico. Mettere all’angolo la centralità del lavoro operaio significava perdere competenze, saperi pratici e teorici insieme, tecnologia, orgoglio professionale. Tutto un patrimonio condiviso che non si edifica dall’oggi al domani.
Dalle testimonianze raccolte da Portelli sembra emergere l’identica sensazione che il mondo del lavoro sia stato abbandonato a se stesso. E tuttavia, quasi inaspettatamente, l’autore riporta in più d’una occasione l’orgoglio di attori sociali che continuano a essere consapevoli del valore del lavoro come elemento che, oltre a essere zavorra di incarichi noiosi e ripetitivi, permette il riscatto sociale, si fa veicolo di cittadinanza e tramite di libertà. Ricordo ancora adesso come anche davanti i cancelli dello stabilimento di Termini Imerese si respirava lo stesso senso di appartenenza, lo stesso riconoscimento di quell’identità operaia che, pur tra mille differenze, a tutt’oggi si palesa, nel racconto di Portelli, come possibile e concreta.     

Come è ovvio, il resoconto di Portelli è, dunque, e del resto non poteva essere altrimenti considerata la travolgente offensiva del capitalismo neoliberista dell’ultimo trentennio, anche una storia di sconfitte. Ancora negli anni ’80 la Terni, con i suoi altiforni sciorina risultati che ne fanno uno dei fiori all’occhiello dell’economia italiana, con più di 10.000 addetti e fra i primi 5 produttori mondiali di acciaio inossidabile. Ma nel 1994 è venduta a una cordata di imprese private con a capo la multinazionale ThyssenKrupp. Per inciso, la stessa multinazionale i cui manager sono stati condannati perché ritenuti responsabili della morte di sette operai per il rogo divampato tra il 6 e il 7 dicembre 2007 nell’acciaieria di Torino appartenente allo stesso gruppo.
La privatizzazione porta con sé immissione di nuova forza lavoro con contratti precari e con mansioni appaltate a ditte esterne, riduzione dei volumi produttivi, trasferimento delle produzioni. E, soprattutto, risulta essere l’esito consequenziale del disimpegno programmatico e consapevole dello Stato e delle sue classi dirigenti che, a differenza di quello che ancora oggi accade in Francia (si pensi alla vicenda che riguarda il controllo da parte di Fincantieri di Stx e dei cantieri navali di Saint-Nazaire per adesso nazionalizzati dal governo Macron) e in Germania (Lufthansa ha ottenuto il sostegno del governo tedesco per rilevare buona parte degli asset di Air Berlin), dimostrano, con una miopia suicida e scellerata, di non volere farsi carico di salvaguardare i settori strategici più importanti dell’industria italiana, magari investendo in ricerca e innovazione. Oggi la ThyssenKrupp-Acciai Speciali Terni ha poco più di duemila addetti e, sottoposta dai vertici dirigenziali da almeno quindici anni a un costante dissanguamento, sembra destinata, in assenza di prospettive certe sul proprio futuro, a una lenta agonia.

L’assenza di prospettive, per l’appunto, perché il problema della memoria si congiunge, nello sguardo di Portelli, col problema dell’identità, con la questione relativa al tipo di società che vogliamo. È un problema che riguarda il futuro, le aspettative, la volontà di non arrendersi. E allora si capisce di più dallo scorcio di una testimonianza dai toni pittoreschi e gergali, ma non per questo meno drammatici, che non dall’ispezione di mille trattati sociologici. Il punto della questione, a detta di Marco Bartoli, è proprio questo: “Basterebbe guarda’ agli interessi non tanto tui, ma a quelli di tuo figlio un domani: che cazzo gli lasci? Mi’ padre a me m’ha lasciato i diritti del lavoro, una villa co’ lu campo de patate, la vigna e i piantoni. Mo’ io me so’ giocato li piantoni, la vigna e lu campo de patate, a mi’ figlio che cazzo gli lascio? Gli lascio un mondo di precarietà, gli lascio un mondo altamente inquinato dove esiste lo sfruttamento eccessivo della natura, delle persone, de li diritti, ecco quello che cazzo gli lascio io a mi’ figlio” (419-420).

Oltre al dominio e allo sfruttamento nel luogo di lavoro, dentro le acciaierie c’era dell’altro, un soggetto che si faceva protagonista attivo e consapevole di un processo organizzato e, in fin dei conti, finalisticamente orientato alla riproduzione e allo sviluppo sociale. Con tutte le contraddizioni implicite, come quelle devastanti derivanti dall’inquinamento e dal disastro ambientale. E tuttavia, si trattava di un soggetto, la classe operaia, che nel corso del Novecento ha saputo costruirsi un lessico politico fondato sull’emancipazione e l’avanzamento sociale. Al contrario, i nuovi operai sembra che non abbiamo più una visione, esprimono, anche nei momenti più alti della lotta, un assenza di futuro e di aspettative. Certo, non è soltanto lo spirito del tempo, è un problema di rapporti di forza.   

​Il fatto è che la fabbrica non è un’entità metafisica che si staglia con la sua densa e ostinata oggettività di fronte a un osservatore neutro e disincarnato. “La fabbrica è fatta di macchine, di persone, e di parole: esiste nello sguardo, nelle parole, nell’esperienza di chi la racconta” (437). Essa è tutt’uno con l’immaginario e la lingua dei soggetti che la rendono viva e che la esprimono. I due secoli di storia operaia, raccolti nelle testimonianze orali degli interlocutori di Portelli, diventano allora quel patrimonio di identità e di memoria che può rendere possibile un futuro diverso e dotato di senso. La memoria infatti, come del resto il sapere, non è un involucro vuoto, da colmare con dati e nozioni astratte, ma la matrice prima, lo stampo originario e sempre mutevole in grado di generare nuovi significati. Peccato che troppo spesso ci si dimentichi del fatto che è solo ripartendo dalle proprie radici che una comunità, senza restare incagliata al proprio passato, può inventare il proprio futuro.
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CAPITALISMO CONCRETO, FEMONAZIONALISMO, FEMOCRAZIA

14/9/2017
Sara R. Farris intervistata da George Souvlis

​George Souvlis: Potresti presentarti descrivendo le esperienze formative (accademiche e politiche) che più ti hanno influenzato?


Sara Farris: Sono cresciuta in un piccolo paese di 12.000 persone in Sardegna. Lì mi sono politicizzata ed è sicuramente in quel periodo – tra i 12 e i 18 anni di età – che ho vissuto alcune delle più importanti esperienze politiche ed accademiche della mia vita. Vengo da una famiglia di operai; come molti della loro generazione, i miei genitori hanno investito molto nell’educazione per assicurare mobilità sociale alle loro figlie. Inoltre, sono cresciuta in una famiglia in cui il dibattito politico – o meglio – i monologhi di mio padre su avvenimenti di politica interna ed internazionale erano di routine durante la cena. Mio padre era in qualche modo socialista, credeva fermamente nella giustizia sociale ma era molto scettico circa la possibilità che i lavoratori – per come li conosceva lui – sarebbero stati in grado di apportare qualche tipo di cambiamento sociale. 

Ad ogni modo, quel che cerco di dire è che l’ambiente familiare mi ha sicuramente esposto all’importanza dello studio e alle idee di sinistra. Successivamente ho frequentato il liceo classico nel mio paese. È lì che ho iniziato a politicizzarmi ed è lì che ho scoperto il mio interesse per la sociologia. All’età di 14 anni fui avvicinata da un amico – un anarchico con simpatie marxiste – che mi chiese di entrare nel gruppo politico formato da lui ed altri/e per scuotere la noiosa vita culturale del nostro paese e per richiedere al sindaco maggiori investimenti per la cultura. Era un gruppo molto particolare, composto principalmente da trotskisti e anarchici (ovviamente abbiamo litigato spesso su Kronstadt!) ma anche da giovani che non si identificavano in alcuna particolare tradizione politica pur essendo attratti/e dai discorsi della sinistra radicale. I trotskisti del gruppo appartenevano alla quarta Internazionale; organizzavano discussioni teoriche sulla congiuntura politica invitando i più giovani tra noi a leggere Marx e Lenin. Ero particolarmente affascinata da loro, perché mi sembrava che fornissero le risposte più coerenti ai problemi che discutevamo; ma ero anche allergica, in qualche modo, a ciò che percepivo come un certo comunitarismo e settarismo da parte loro.

Qualche anno dopo, quando mi iscrissi all’Università La Sapienza di Roma, divenni prima membro di Rifondazione Comunista e poi della quarta Internazionale. I compagni e le compagne trotskisti/e a Roma erano molto più aperti/e di quelli del mio paese ed ero d’accordo con le loro idee politiche, in particolare con la loro enfasi sull’importanza del femminismo. Durante quegli anni a Roma fui anche molto affascinata dal multiculturalismo della città e mi interessai molto alle lotte dei migranti e alla condizione specifica delle donne migranti nei cosiddetti Paesi di destinazione. Penso che sia stata questa combinazione di fattori a plasmare il femminismo marxista e antirazzista che probabilmente meglio descrive il mio approccio. 


Parliamo di Max Weber, la cui opera è argomento della tua prima monografia, Max Weber’s Theory of Personality. Weber fu uno dei primi osservatori a riconoscere che il cambiamento strutturale della moderna politica di massa minacciava i principi basilari del parlamentarismo liberale del diciannovesimo secolo. L’avvento dei partiti di massa nelle prime due decadi del Novecento ha radicalmente messo in discussione le convinzioni e le pratiche dello status quo politico del tempo. Una delle audaci risposte intellettuali di Weber a questa crisi in corso fu la teoria della democrazia carismatico-plebiscitaria. Pensi che ci siano delle affinità dirette o elettive tra questa concettualizzazione e la teoria di Carl Schmitt sulla legittimità plebiscitaria dell’Imperatore del Reich? Si può dire che Weber abbia preparato – insieme ad altri liberali disillusi – il background intellettuale per l’avvento di teorie autoritarie come quelle di Carl Schmitt?

La questione dell’affinità tra Weber e Schmitt sulla democrazia carismatico-plebiscitaria è una delle più dibattute, da Mommsen (che fu il primo a proporla) ad Habermas e altri. Mommsen non sosteneva che le posizioni teoriche e politiche dei due pensatori fossero generalmente compatibili – dal momento che erano assai distanti su molte questioni – bensì che le loro idee convergessero in un caso particolare: l’idea di Weber circa la necessità di una democrazia carismatico-plebiscitaria dopo la rivoluzione tedesca e l’opposizione di Schmitt alla democrazia parlamentare negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.

A dire il vero, il pensiero politico e le posizioni di Weber oscillavano  tra il liberalismo e tendenze più autoritarie. Da un lato Weber invocava un “accordo” tra le forze liberali della Germania e l’aristocrazia operaia del partito social-democratico al fine di consolidare la transizione del Paese al capitalismo e alla “modernizzazione”. E dobbiamo ricordare che per Weber il leader carismatico non è qualcuno che usa il suo appeal per cercare consenso, bensì qualcuno il cui potere è già legittimo in sé per via del dono carismatico che egli (perché Weber pensa implicitamente ad un uomo) possiede.

C’è qualcosa di molto aristocratico nella nozione weberiana di potere carismatico. Penso che l’idea di un’affinità tra Weber e Schmitt, tra l’idolo della democrazia liberale tedesca agli albori del Novecento (Weber) ed il nemico del liberalismo alla vigilia del nazismo (Schmitt), sia ancora interessante e ricca di spunti, anche perché fondamentalmente ci ricorda il legame storico-teorico tra liberalismo e autoritarismo.


In uno dei tuoi articoli utilizzi il dibattito tra Marx e Bauer sulla questione ebraica per spiegare la legge francese sui simboli religiosi cospicui. Come può questa discussione passata aiutarci a comprendere meglio la nostra realtà attuale? Vedi delle analogie tra i due dibattiti? In quell’articolo critichi anche i valori universali dell’Illuminismo che influenzano in una certa misura il sistema giuridico francese. Come pensi che si possano dimostrare – in questo contesto e in merito a questo dibattito – le antinomie della modernità senza ricorrere a un relativismo culturale postmoderno? 

In quell’articolo volevo dimostrare che il dibattito circa la possibilità di assegnare pieni diritti politici agli ebrei nel 1840 in Prussia presenta alcune somiglianze sorprendenti con il dibattito sull’integrazione dei musulmani nella società francese di oggi. Più precisamente, il mio punto è che la richiesta del governo francese alle minoranze religiose (in particolare ai musulmani) di rispettare il principio della laicità nello spazio pubblico ricorda la posizione di Bruno Bauer sulla questione ebraica. Bruno Bauer credeva che gli ebrei meritassero la concessione dei diritti politici solo se avessero smesso di essere ebrei e avessero abbracciato il pensiero illuministico. In altre parole, Bauer concepiva l’emancipazione politica come una sorta di premio che gli individui ricevono solo se rinunciano alla propria identità religiosa e abbracciano l’identità che lo Stato laico ritiene appropriata. Allo stesso modo, lo stato francese richiede che i musulmani si liberino delle pratiche religiose e culturali per dimostrare la loro volontà di integrarsi nella società francese.

La nozione di laicità, avanzata sia da Bauer che dallo stato francese è tale che individualizza il laicismo, lo concepisce quasi come un tratto della personalità dell’individuo piuttosto che come una questione istituzionale. In altre parole – sebbene io sia d’accordo sul fatto che gli spazi pubblici non debbano privilegiare una religione a scapito di un’altra, e quindi, per esempio, nelle classi non dovrebbero essere esposti crocifissi alle pareti, come avviene in Italia – non ritengo giusto che gli individui non possano esprimere le proprie credenze religiose negli spazi pubblici. Questa è una visione molto gretta e problematica del laicismo. Ma soprattutto, l’idea per cui le persone appartenenti a una minoranza religiosa stigmatizzata debbano negare la loro religione per dimostrare che meritano lo status di cittadini è profondamente razzista. Proprio come Bauer era fondamentalmente un antisemita che si nascondeva dietro l’idea di un Illuminismo laico, così lo Stato francese sta rafforzando l’islamofobia in nome della laïcité.

Sottolineando alcune analogie tra la discussione sull’emancipazione degli ebrei in Germania nella prima metà dell’Ottocento e la discussione sull’integrazione dei musulmani in Francia oggi, voglio anche sostenere che oggi i musulmani ricoprono il ruolo degli ebrei di ieri. Dopo l’Olocausto siamo stati abituati all’idea che le atrocità commesse contro gli ebrei non abbiano paragone. Ma quello che dobbiamo ricordare è che in Europa c’è una lunga storia di razzismo anti-ebraico che ha assunto forme diverse e che ha preceduto la tragedia dell’Olocausto. Dobbiamo essere consapevoli di quella storia proprio per evitare di ripeterla, non solo contro gli ebrei ma contro qualsiasi altro gruppo di persone. La mia seconda idea in quell’articolo è che la posizione di Marx sulla questione ebraica era molto più avanzata di alcuni marxisti contemporanei rispetto al pericolo di mettere in discussione il diritto delle minoranze religiose alla loro libertà di espressione, e qui penso in particolare ad alcuni marxisti francesi o ad altri esponenti di sinistra. Durante il dibattito che ha portato a vietare il velo nelle scuole pubbliche, alcuni di loro ritenevano che le donne musulmane non avrebbero dovuto indossarlo negli spazi pubblici, rifacendosi alla laicità, all’ateismo e ai diritti delle donne per giustificare la loro posizione. Non c’è assolutamente niente di marxista in tutto ciò. Quando Bruno Bauer accusò gli ebrei di esser rimasti ebrei e quindi di non meritare i diritti politici, Marx gli rispose che i diritti politici possono tranquillamente coesistere con le identità religiose. Il problema per Marx, piuttosto, era lo Stato borghese in sé e la sua pretesa di rappresentare uno spazio di inclusione universale, mentre in realtà era solo l’espressione dell’esclusione e delle disuguaglianze della società civile.


Considerando i recenti sviluppi degli attacchi terroristici in Francia, a Bruxelles e nel Regno Unito, e considerando l'emergere in questi e in altri Paesi di una retorica razzista incentrata sulla paura e sullo stato di emergenza, quali pensi dovrebbero essere le basi per una contro-critica egemonica alla loro appropriazione ideologica da parte dell’estrema destra?

Penso che sia essenziale dire molto, molto chiaramente che questi attacchi non hanno nulla a che fare con l’Islam. I giovani terroristi che hanno commesso queste atrocità sono nati e cresciuti in Francia o in Belgio o nel Regno Unito, alcuni di loro erano soliti bere alcolici o fare uso di droghe e non frequentavano la moschea. Molti di loro erano noti alla polizia per reati minori e alcuni di loro hanno aderito alle idee dell’ISIS mentre erano in carcere, dove incontrarono altri estremisti islamici che li introdussero all’abominio del Daesh. Ciò mi ricorda il film francese A Prophet, in cui un giovane di origine algerina, analfabeta e senza credenze religiose, viene mandato in carcere per un piccolo reato. In prigione impara ad uccidere e l’“arte” dello spaccio. Il film naturalmente parla della violenza e dell’inefficacia del cosiddetto sistema di correzione e punizione, nonché del suo razzismo, dato che la maggioranza dei detenuti mostrati nel film è di origine immigrata.

Ma penso che nel film la prigione possa anche essere intesa come metafora della banlieue francese o belga, dove la seconda e la terza generazione di immigrati provenienti dalle ex colonie francesi sono state ghettizzate, fatte sentire diverse, sgradite, ridotte alla disoccupazione e costantemente bersagliate dal razzismo e dall’islamofobia dello Stato e della polizia, come dimostrano parecchi studi. In questi ambienti, in queste prigioni sociali, i giovani, soprattutto se senza lavoro e senza una chiara prospettiva per il futuro, possono sviluppare un grande senso di alienazione e alcuni di loro possono sentirsi attratti dal facile manicheismo dell’estremismo islamista e dalla sua promessa di vendetta.

La seconda cosa da ricordare con forza è che i musulmani sono le prime vittime del cosiddetto terrorismo islamista. Più di un terzo delle persone uccise dal conducente del camion a Nizza nel luglio 2016 erano musulmani, senza parlare del fatto che la grande maggioranza delle vittime dell’ISIS in Siria e in Iraq è musulmana. La sinistra deve ricordare questo fatto tanto semplice quanto atroce ogni volta che la destra strumentalizza il terrorismo per istigare l’islamofobia.

Ma la sinistra francese dovrebbe anche affrontare molto seriamente le sue responsabilità nell’esasperazione del clima islamofobo che in Francia è già intollerabile. E qui penso a Mélenchon, per esempio, che ha criticato la candidata del NPA nel 2010, Ilham Moussaid, per non essersi tolta il velo; più recentemente, nel caso del comportamento scandaloso della polizia che ha costretto una donna musulmana a svestirsi su una spiaggia a Nizza, Mélenchon ha sostenuto la polizia. Dice di assumere queste posizioni in nome dei diritti delle donne e in nome della laïcité. Ma queste posizioni in realtà negano alle donne musulmane il diritto di indossare quel che vogliono. Queste idee interpretano la laicità attraverso le lenti di un rigorismo repubblicano che è fondamentalmente intollerante alla differenza ed esclusivo nei confronti di coloro che non incarnano l’ideale di cittadino francese (cioè bianco, cristiano, ecc.). Questo dissenso repubblicano verso il velo in Francia, da destra a sinistra, è vergognoso e irresponsabile di fronte al moltiplicarsi degli attacchi terroristici che coinvolgono giovani uomini e donne francesi che si identificano come musulmani.

Ovviamente non c’è dubbio che si debba condannare strenuamente qualsiasi forma di terrorismo, e in effetti ritengo che non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo se non fosse per il fatto che viviamo tempi folli ed egemonizzati dal discorso razzista della destra. Ma soprattutto, dobbiamo affermare che la nostra politica contro il terrorismo è diametralmente opposta a quella della destra e che, in effetti, è più efficace perché la destra non ha nulla da dire su come risolvere il problema. L’unica cosa che propone è di chiudere i confini, di fermare l’immigrazione e di intensificare le misure islamofobiche. Ma che scemenza è questa, considerando che i terroristi non sono immigrati ma cittadini francesi, belgi o britannici? E quanto è irresponsabile tutto ciò, visto che è proprio l’islamofobia a creare un clima in cui il terrorismo prospera?

Penso che la lotta contro l’islamofobia ed il razzismo sia una questione politica cruciale per il futuro della sinistra. Abbiamo visto come la resa della socialdemocrazia europea di fronte ai discorsi anti-immigrazione degli ultimi quindici anni non abbia portato più voti alla sinistra socialdemocratica. Al contrario, ha aiutato l’estrema destra a crescere e consolidare la sua base di potere, almeno fino ad ora.


In un volume che hai curato insieme ad altri autori, hai scritto un pezzo incentrato sulle concezioni teoriche di Althusser e su quelle di Tronti riguardo la questione marxista del rapporto tra politica e economia. Durante l’ultimo anno la crisi finanziaria globale ha dato l’opportunità alle forze di sinistra di avvicinarsi a vincere le elezioni o addirittura – nel caso di Syriza – di andare al potere – sebbene senza riuscire effettivamente a produrre grandi cambiamenti nel sistema. Pensi che una possibile spiegazione a queste sconfitte possa essere un implicito “politicismo” adottato dai partiti della sinistra europea?

In quell’articolo definisco ‘politicismo’ l’idea per cui lo Stato sia autonomo rispetto alle determinanti economiche e che il partito sia indipendente dalla sua base di classe. Da un lato, è l’idea che lo Stato segua la propria logica e il proprio ‘ritmo’ e che non sia semplicemente il “comitato per la gestione degli affari comuni di tutta la borghesia” – come scrisse Marx nel Manifesto del Partito Comunista. Questa concezione dello Stato e di una politica autonoma dalla sfera economica ha portato Tronti a sostenere che il partito che rappresenta le classi lavoratrici deve assumere il potere statale per cambiare il sistema stesso dello sfruttamento economico. D’altra parte, Tronti ha esplicitamente sostenuto che il partito dei lavoratori (e intendeva chiaramente il PCI) doveva essere autonomo dalla sua base di classe nei momenti in cui la logica politica del potere statale lo richiedeva. Ecco un paradosso importante: da un lato, considerando la politica e l’economia come autonome l’una dall’altra, si sostiene che una non può determinare l’altra; ma dall’altro lato si propone un argomento determinista – che quindi nega l’autonomia della politica in sé – nel momento in cui si afferma che un cambiamento politico determinerà automaticamente un cambiamento socio-economico. In questo senso il «politicismo» è l’immagine speculare del determinismo economico. Nessuna di queste prospettive riesce a cogliere le complessità dei rapporti tra lo Stato e gli interessi capitalistici, o la sfera economica più in generale.

La prospettiva “politicista” è stata presentata da Tronti negli anni ’70 durante gli anni del compromesso storico per sostenere la partecipazione del Partito Comunista Italiano al governo. Tronti ha criticato la tradizione marxista per la sua presunta mancanza di una teoria coerente e sistematica dello Stato, ma ciò che lui propone invece è il vecchio adagio socialdemocratico, cioè l’idea che il partito che rappresenta gli interessi dei lavoratori debba assumere il potere statale per promuovere l’attuazione delle politiche socialiste, prima che il comunismo possa finalmente instaurarsi.

I casi contemporanei che hai citato sono certamente esempi di “politicismo” nel senso che si tratta di partiti o di forme politiche che hanno portato avanti – in molti modi differenti – un  ordine del giorno socialdemocratico e un approccio generale alla politica sulla base della classe operaia. Ma nessuno di loro mira ad abolire lo Stato, per così dire.

Tuttavia, non credo che possiamo parlare di sconfitte pure e semplici qui. Syriza ha vinto le elezioni, anche se ha completamente tradito le speranze di porre fine all’austerità. Più recentemente La France Insoumise ha ottenuto il 20% del voto nel primo turno delle elezioni presidenziali francesi e in Gran Bretagna Jeremy Corbyn ha aumentato il numero di seggi e la percentuale di voto del partito laburista come mai prima. Naturalmente, questi partiti e i contesti in cui operano sono molto diversi e non possiamo ignorare le differenze nazionali. Quello che sto cercando di dire è che la sinistra socialdemocratica che punta al potere statale per cambiare le regole dell’economia dall’alto, sembra effettivamente registrare notevoli progressi in termini elettorali quando avanza un programma esplicitamente socialista e anti-austerità. Tuttavia, l’affidarsi al “politicismo”, ovvero all’idea che il partito possa dimenticare la sua base di classe operaia in nome dell’“eleggibilità” e per restare al governo, come nel caso di Syriza, porterà molto probabilmente alla sconfitta elettorale – oltre a produrre smobilitazione e demoralizzazione.


Hai anche curato insieme ad altre un numero della rivista Historical Materialism incentrato sui recenti sviluppi teorici all’interno della tradizione marxista-femminista. Nell’introduzione appoggi il femminismo della riproduzione sociale. Potresti spiegare le origini di questa tendenza teorica e che cosa implica? In che modo può aiutarci a comprendere la complessità dell’oppressione di genere in questa congiuntura storica?

Il femminismo della riproduzione sociale si riferisce a quel filone teorico sviluppato dalle femministe marxiste negli anni ’60 e ’70 che cercavano di capire il ruolo del lavoro domestico e dei compiti riproduttivi all’interno della famiglia rispetto all’accumulazione di capitale. Il femminismo della riproduzione sociale si chiede: qual è il nesso tra la riproduzione della forza lavoro e della vita stessa che avviene tra le quattro mura domestiche e l’accumulazione di capitale? E perché sono principalmente le donne a farsi carico della riproduzione sociale? C’è un legame tra la femminilizzazione della riproduzione sociale e l’oppressione di genere nel capitalismo? Focalizzandosi sulla natura marcatamente femminile del lavoro riproduttivo, il femminismo della riproduzione sociale mira ad analizzare una delle debolezze del femminismo marxista, e cioè la tendenza a considerare lo sfruttamento di classe e l’oppressione di genere come separati l’uno dall’altra. La sfida del femminismo della riproduzione sociale è di comprendere l’oppressione di genere in maniera non isolata dallo sfruttamento di classe, dall’oppressione razziale, dalla sessualità e da altre relazioni sociali costitutive. Questo non è un compito facile, poiché i nostri modi di pensare il sociale sono frammentati o intersezionali, per così dire. Ecco perché penso che l’intersezionalità sia diventata un paradigma così importante per il femminismo. Perché concepisce diverse esperienze di oppressione e di sfruttamento provenienti da sistemi diversi e separati e cerca di ricombinare i frammenti dell’oppressione senza negare la loro singolarità. Penso che il femminismo della riproduzione sociale cerchi di includere e di andare oltre l’intersezionalità, dicendo sia che dobbiamo considerare il capitalismo come un sistema socioeconomico molto specifico in cui queste forme di oppressione vengono generate e pasciute, ma anche che non ci sono sistemi “separati” di oppressione e sfruttamento sotto il capitalismo che possano essere compresi isolandoli uno dall’altro.

Il femminismo della riproduzione sociale avanza anche una critica a quelle posizioni marxiste che sostengono che il capitalismo sia indifferente al genere o alla razza di coloro che sfrutta finché il profitto e l’accumulazione sono garantiti. Questo è un modo molto limitato e problematico di esaminare come il capitalismo funzioni e cosa sia. Come scriviamo nella nostra introduzione, lo sfruttamento e l’espropriazione esistono concretamente “solo nel e attraverso il controllo generalizzato, sistematico e differenziato, nonché nella degradazione della stessa vita umana. E il controllo e la degradazione sono garantiti concretamente in, e attraverso l’oppressione di razza, genere, sessualità e di altre relazioni sociali intrecciate.” Sono queste le relazioni che assicurano che il lavoro arrivi dinanzi al capitale pronto ad essere ulteriormente disumanizzato e sfruttato.


Nel tuo ultimo libro analizzi la strumentalizzazione delle idee femministe da parte dell’estrema destra contemporanea e dei partiti “liberali” attraverso il termine “femonazionalismo”. Potresti spiegare cosa significa e come possa essere utile un esame critico di questo fenomeno?

Il femonazionalismo è un termine che ho introdotto per descrivere sia lo sfruttamento delle idee femministe da parte dei partiti nazionalisti di destra nelle campagne islamofobe, sia il sostegno da parte di alcune femministe e “femocrate” (burocrati donne che lavorano per istituzioni statali adibite alle pari opportunità, NdT) ad un ordine del giorno anti-islam a difesa dei diritti delle donne. Nel libro analizzo come e perché partiti quali la Lega Nord in Italia, il Fronte Nazionale in Francia e il Partito per la Libertà nei Paesi Bassi abbiano mostrato “preoccupazione” per le donne musulmane descrivendole come “vittime da salvare”, stigmatizzando al contempo musulmani e altri immigrati maschi non occidentali come i peggiori nemici delle donne. Ho scritto questo libro principalmente perché volevo introdurre una prospettiva politico-economica nel dibattito accademico e militante sui nuovi volti dell’islamofobia. La convergenza tra alcune femministe e correnti nazionaliste su programmi anti-islam è ovviamente stata notata e analizzata da diversi studiosi e studiose, ma credo che la maggior parte di loro – almeno nel contesto europeo – non abbia prestato sufficiente attenzione agli interessi materiali e ai calcoli economici dietro tale convergenza.

Nel libro ho scritto che dovremmo prestare attenzione al doppio standard di genere applicato agli uomini e alle donne migranti (musulmani e non musulmani) nei media mainstream, e che dobbiamo decifrarne la logica economica insieme alle sue espressioni “culturali”. Gli uomini musulmani e gli uomini immigrati del Sud del mondo sono di solito descritti non solo come potenziali stupratori e oppressori delle donne, ma anche come ladri di “posti di lavoro”. Sono i “cattivi irrecuperabili” in tutti i sensi. D’altra parte le donne migranti musulmane e non occidentali sono rappresentate come vittime di culture patriarcali e arretrate, ma anche come quelle che possono essere assimilate ai valori occidentali (perché, in quanto “donne,” non hanno una propria personalità) e che possono contribuire positivamente alle economie occidentali lavorando nel settore della riproduzione sociale (in particolare nell’assistenza sociale agli anziani e ai bambini) per salari molto bassi. Loro sono quelle “recuperabili”.

Penso che questa rappresentazione razzista dicotomica di genere, o doppio standard, che i media mainstream e la destra utilizzano per riferirsi alle popolazioni migranti, sia fondamentale per rivelare la razionalità politico-economica del femonazionalismo. In altre parole, nel mio libro sostengo che le offerte di salvazione che i nazionalisti di destra propongono alle donne musulmane (ma anche alle donne migranti non occidentali in generale), sono legate al ruolo molto importante che queste donne giocano (o potrebbero giocare) nell’economia della riproduzione sociale. Ma sono anche legate alla volontà di questi partiti politici di mantenere il settore del lavoro domestico e di cura esattamente come è: femminilizzato, super-sfruttato, anti-sociale e a bassissimo salario.

D’altra parte, il libro esamina attentamente le femministe e le “femocrate” che sostengono politiche anti-islamiche in nome dei diritti delle donne, e ciò che propongono alle donne musulmane in particolare per liberarle dai musulmani “cattivi”.

Quello che ho notato qui è che, in primo luogo, queste femministe coprono l’intero spettro politico; non sono solo femministe di destra (o femministe auto-proclamate come Ayan Hirsi Ali nei Paesi Bassi o Souad Sbai in Italia) che hanno sostenuto discorsi e politiche anti-islamiche come il divieto del velo, ma anche femministe di sinistra come Giuliana Sgrena in Italia, o Najat Vallaud-Belkacem in Francia. In secondo luogo, sottolineo le profonde contraddizioni di questo fronte femminista anti-Islam. Da un lato, queste femministe e “femocrate” considerano l’Islam come una religione misogina e trattano le donne musulmane che portano il velo come individui auto-schiavizzati che non capiscono cosa sia veramente la libertà e l’emancipazione. D’altra parte, queste stesse femministe dimenticano di menzionare che molte donne migranti e musulmane oggi in Europa sono obbligate a sottoporsi a programmi di integrazione, talvolta ideati e implementati dalle stesse femocrate, che le spingono verso i settori della riproduzione sociale per diventare addette alle pulizie, assistenti sociali, o babysitter. Ma in che senso questa sarebbe emancipazione per le donne? Non erano esattamente queste le attività e le occupazioni contro cui il movimento femminista ha combattuto la sue battaglie più dure per denunciare i ruoli fissi di genere e la mancanza di riconoscimento economico del lavoro riproduttivo e di cura?

[Traduzione di Stefano Oricchio]


Sara Farris è Senior Lecturer alla Goldsmith University di Londra e autrice di In the Name of Women’s Rights: The Rise of Femonationalism (Duke University Press, 2017).
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IL MARCHESE DI VENEZIA

11/9/2017
di Marcello Benfante 

“Era fondamentalmente ed evidentemente il testamento di un uomo d’affari e non di un poeta (…) C’è stato un solo Shakespeare. Non ce ne sarebbero potuti essere due; di certo, non ce ne sarebbero potuti essere due allo stesso tempo”
Mark Twain, Shakespeare è davvero morto?



L’incipit de Il testamento di William S. di Yves Sente e André Juillard è sotto il segno di J. M. Barrie, nei fatati giardini di Kensington, ove sorge come un genius loci la statua di Peter Pan. 
Cala la sera sul parco e con essa la frescura, del cui refrigerio persino il leggiadro monumento del ragazzo senz’ombra pare rallegrarsi.
È un inizio che promette uno sviluppo fiabesco, da Sogno di una notte di mezza estate, per restare in tema. Sarà invece il Mercante di Venezia, fosca e drammatica commedia, l’opera scespiriana di riferimento. 

Siamo alla fine dell’agosto del 1958, in una Londra accaldata, ma non troppo, senza nebbia e senza fascino, che si direbbe perfino senza mistero, se la complessa trama del racconto non presentasse molteplici segreti ed enigmi, fino al punto da risultare un po’ farraginosa nel suo vorticoso sviluppo. 
Il testamento di William S. è infatti un erudito e ingegnoso divertissement sull’antico dilemma riguardante l’identità del Bardo di Stratford upon Avon, a cui tributa un omaggio pieno di arguzia e di ammirazione.
Che è un omaggio anche all’Italia, alla malinconica eleganza di Venezia, all’aurea bellezza di Verona, alla maestosità di Ravenna con la ieratica facciata della chiesa di San Francesco. E poi allo splendore dei motoscafi Riva (con le loro “ventiquattro mani di vernice applicate su un legno dell’Honduras invecchiato dieci anni nei cantieri di Sarnico”) e alla scattante magnificenza delle rosse Ferrari.
L’Italia di Dante, dei tesori artistici e degli oggetti ben fatti. Ma anche l’Italia intesa come luogo deputato dell’immaginazione di Shakespeare, di Romeo e Giulietta, di Desdemona e Porzia, di Antonio e Bassanio, di Shylock e Otello.
È un’immagine un po’ levantina del Bel Paese, che Sente e Juillard riassumono nella figura emblematica di Salman, inappuntabile maggiordomo “moro” del Marchese veneziano Stefano Da Spiri.

Il complicato plot di questa ventiquattresima avventura della saga del professor Philip Mortimer e del capitano Francis Blake si articola in una serie di filoni che ovviamente finiranno per intrecciarsi, integrarsi e chiarirsi a vicenda.

D’acchito, il lettore si trova coinvolto in una storia poliziesca: nei pressi di Hyde Park si aggira nottetempo una banda “di delinquenti sfaccendati che non rispettano niente e nessuno”, i cosiddetti “Teddys”. Li vediamo subito all’opera, allorché, azzimati e feroci, aggrediscono e uccidono a bastonate un gentiluomo tedesco, primo segretario dell’Ambasciata di Germania.
Il probabile risvolto giallo-spionistico si complica subito di particolari gotici: la banda fa uso di bizzarri bastoni caratterizzati da pomi raffiguranti teste di animali ed è agli ordini di un sinistro personaggio, un misterioso e lugubre dandy dai lunghi capelli corvini.

A questo primo spunto si aggiunge il vero leit motiv del racconto: la disputa ideologica e perfino settaria tra la Loggia di Oxford, che considera Shakespeare un semplice prestanome di un anonimo intellettuale aristocratico, e la “William Shakespeare Defenders Society”, che si batte invece per affermare l’autenticità della figura storica di Shakespeare e la sua effettiva paternità del corpus di opere a lui tradizionalmente attribuite. 
A capo di quest’ultima compagine troviamo una vecchia amica di Mortimer, o per meglio dire una sua giovanile fiamma: Sarah Summertown. Gli aficionados delle (nuova) gesta di Blake e Mortimer ricorderanno che il giovanissimo Philip, appena diciottenne e fresco di diploma, l’aveva incontrata a bordo del piroscafo Cecilia che salpato da Edimburgo dopo un lungo giro approdava finalmente a Bombay.
Sarah in quel lontano 1933 è una scrittrice ventisettenne di romanzi thriller a sfondo archeologico di cui Philip è un fervido lettore (e si spiega così la sua passione per l’archeologia). Il loro incontro è tuttavia del tutto casuale: lei inciampa e cade tra le braccia di lui, facendo ovviamente scoccare la fatidica scintilla dell’amore a prima vista (ma in realtà Philip di lì a poco incontrerà la bellissima principessa indiana Gita e se ne invaghirà perdutamente).
Tutto ciò è narrato ne I sarcofagi del sesto continente (volume I, 2003), realizzato sempre dalla coppia Sente-Juillard, i quali poi ne Il santuario di Gondwana (2008) chiariranno che Mortimer, afflitto da parziali amnesie, ritrova notizie e vecchie foto di Sarah in un dossier delle sue memorie (nel frattempo obliato).
Apprendiamo così che Philip e Sarah hanno avuto una breve relazione, improvvisamente interrotta dalla donna per stroncare i “nascenti pettegolezzi”, forse dovuti al divario d’età tra i due amanti. Poco dopo Sarah sposava un uomo più anziano che le avrebbe dato una figlia: Elizabeth.
I due ex amanti si incontrano molti anni dopo. Nel frattempo il marito di Sarah è morto. La vedova, pur conservando la sua bellezza, ha ormai i capelli bianchi, mentre Mortimer conserva intatta la sua folta chioma castano-rossiccia.
Il loro breve colloquio di amici ritrovati è pervaso dal delicato riaffiorare di un’antica tenerezza e forse dall’ombra di un rimpianto.

Ciò che Sente e Juillard sembrano suggerirci è che la rottura del rapporto tra il giovane Philip e l’affermata scrittrice e studiosa di etnologia sia stata causata dal timore di uno scandalo ben maggior che il semplice divario d’età, ossia la scoperta da parte di Sarah di essere incinta.
Con molto garbo e senso della misura, gli autori glissano su questi aspetti, accennandovi appena. Ma è evidente che tale deriva sentimentale ha poco a che fare con lo spirito originario del nostro eroe.
Trasformato in un uomo in carne ed ossa, Mortimer deve necessariamente scontare un ridimensionamento alla vita reale che francamente non gli giova.
A compensare la misoginia (la cui matrice ovviamente va cercata in Conan Doyle) di Jacobs, sia grafica che narrativa, i suoi epigoni hanno popolato le avventure di Blake e Mortimer di molte figure femminili, positive o negative, di primo piano o di seconda fila, senza peraltro aggiungere mai un’oncia di credibile erotismo. 
D’altronde, la linea chiara è in sé refrattaria alla materialità dei corpi, che perfeziona e sterilizza in forme geometriche di astratto realismo, per usare un calzante ossimoro.
A qualcuno ciò potrà sembrare un limite, laddove è invece un’opzione di rigore estetico che traduce il mondo in una cifra stilistica, in emblemi di una incontaminabile allegoria. La vita è altrove. E così pure la storia. 
Ad ogni modo, coll’inserimento dell’elemento femminile (sdoppiato nella figura bifronte della madre e della figlia) si viene a formare un terzo filone narrativo che potremmo definire rosa, per quanto attiene i fatti passati, e feuilletonistico per quanto riguarda i rapporti tra Mortimer ed Elizabeth, sui quali aleggia il tema dell’agnizione paterna, tipico del romanzo d’appendice. 

Torniamo però al filone centrale. L’antica querelle tra oxfordiani e stratfordiani nel corso dei secoli ha dato luogo ad aspri scontri e a cruenti duelli, fino a trovare una soluzione nell’arbitrato pacificatore e nel ricco lascito testamentario di un filantropico nobiluomo, Lord Sandfield, con una clausola che vincola i suoi futuri eredi. La fazione che riuscirà a ottenere la prova certa e definitiva che conferma la propria tesi potrà incassare la somma generosamente stanziata da Lord Sandfield, che già cospicua in partenza, è diventata nel corso tempo, con l’accumularsi degli interessi, una cifra enorme. 
La contesa filologica, deposte provvisoriamente le armi, eccetto quelle della critica, diventa dunque una specie di gara sportiva con in palio un notevole premio in denaro. Il che, ovviamente, comporta un potenziale ritorno alla violenza dopo la stipulazione del faticoso armistizio del 1858.
Cent’anni dopo, il casuale ritrovamento di un clamoroso documento, custodito e nascosto da secoli all’interno di una specie di cripta segreta di un palazzo nobiliare di Venezia, riapre improvvisamente l’annosa controversia scespiriana quasi allo scadere dei termini testamentari, previsto per il primo settembre 1958, cioè allo scoccare di un secolo esatto dall’accordo fra le parti in causa.
Sente e Juillard, en passant, fanno pertanto un doveroso omaggio (sebbene nella forma minima di un occulto scantinato) al tema prediletto di Jacobs, quello dei sotterranei, del labirinto ctonio, della catabasi, dell’epifania speleologica. Il mistero di Shakespeare è sepolto nel profondo cuore di Venezia in quella che potremo definire una sorta di macchina scenica ad enigma, ovvero una “trappola diabolica” e un plateale sarcofago.
La scoperta dà adito a nuove possibili interpretazioni del paradosso scespiriano, ossia: com’è possibile che un attore di modeste origini provinciali fosse dotato di una vasta e raffinata cultura come quella che emerge dalle opere del Bardo?

La risposta escogitata da Yves Sente presuppone (non del tutto in contrasto con Mark Twain) l’esistenza di due Shakespeare, associati in una specie di ditta segreta: il geniale poeta e il dotto aristocratico. Quest’ultimo sarebbe, in tale ipotesi, un rampollo di un nobile casato veneziano, scultore per diletto e appassionato di drammaturgia. Anche il mistero della famosa Dark Lady dei Sonetti troverebbe conseguentemente una soluzione in chiave italiana (Ornella De Spiri, cugina di Guglielmo), sebbene non senza la sfumatura equivoca del ménage à trois.
Qualcuno ha osato perfino di più (e i siciliani non hanno ovviamente perso l’occasione per rivendicare le origini isolane dell’autore di Molto rumore per nulla, ambientato in una improbabile Messina), ma possiamo ben dirci gratificati dalle inverosimili, ancorché non prive di validi supporti culturali, supposizioni de Il testamento di William S..
In questo vertiginoso gioco di rivelazioni spettacolari messo in scena da Sente e Juillard trova posto perfino il grande Ben Jonson, complice di un amicale complotto consistente in uno scambio di spoglie mortali e sepolture sotto l’egida di un enigmatico epitaffio. La materia trattata è dunque densissima e perfino difficile da riassumere, tanto che immaginiamo che qualche solerte critico possa approfittarne per aggiungere al pleonastico eufemismo di graphic-novel anche la definizione di graphic-essay (ammesso che già non esista).

D’altra parte, un simile lavoro di documentazione creativa rientra a pieno titolo nella tradizione jacobsiana (si pensi, per esempio, agli studi sul Crizia e il Timeo di Platone per elaborare la trama fantarcheologica de L’enigma di Atlantide).
Il testamento di William S. si svolge in un variegato scenario anglo-italiano che costringe Mortimer a muoversi velocemente in un vasto campo d’azione. Il ritmo della narrazione è serratissimo, ma è pure regolato da una serie di limiti alla mobilità.
Uno sciopero dell’aeroporto di Londra costringe i personaggi a spostarsi per terra o per mare, dando modo all’avventura di perlustrare località suggestive ed evocatrici, da Stratford alle tappe di un ameno e avvincente Voyage en Italie.
Olrik, ancora una volta chiamato a dirigere le forze del Male, è immobilizzato nella prigione di Wandsworth (dove peraltro gli è stata garantita dalla Loggia di Oxford una certa autonomia di manovra, corrompendo una guardia carceraria).
Analogamente Mrs Sarah Summertown è messa fuori gioco da un infortunio al piede sinistro. Il suo posto al fianco di Mortimer in questa avventura a perdifiato sarà dunque preso dalla figlia Elizabeth.
La schermaglia di sguardi curiosi e di mute domande fra il maturo scienziato scozzese e l’affascinante ragazza (in cui gli esegeti più spericolati potrebbero intravedere la larvata allusione a un tema sessuale o addirittura incestuoso, sebbene represso) rischia di tradursi in un incidente stradale: Mortimer, al volante della Ferrari messa a disposizione dal Marchese Da Spiri, si è distratto per un attimo e ha preso a guidare a sinistra, dimenticando che in Italia bisogna tenere la destra, cosicché sta quasi per schiantarsi contro un camion che sopraggiunge.
Anche questa gag non è aliena al repertorio di Jacobs, il quale talvolta esponeva il suo eroe (fra le proteste dei lettori) a contrattempi ridicoli, che generalmente derivano dall’attitudine di Mortimer a inciampare.
Nella reinterpretazione di Sente e Juillard, incontriamo un Mortimer umanizzato e forse addirittura ridimensionato, il quale arriva a confessare a Elizabeth di avere ormai poca dimestichezza col latino, pregandola dunque di tradurre l’antico documento di cui sono venuti in possesso. Ignoranza che francamente è piuttosto strana per un archeologo! Anche riguardo a Dante, questo Mortimer sminuito si dimostra piuttosto approssimativo (lo definisce l’autore dell’Inferno).
Ora, Mortimer è sì un uomo di scienza, un fisico nucleare e uno studioso di biologia molecolare, nonché un ingegnere aeronautico che al suo esordio viene presentato come l’“inventore di un misterioso apparecchio denominato L’Espadon”, ma è pure, nell’eroismo umanistico di Jacobs, un intellettuale totale.
Ecco infatti come Jacobs lo descrive nella sua autobiografia: 

“Mais son insatiable curiosité supporte mal le cloisonment de la spécialisation. C’est le chercheur humaniste par excellence, ouvert à toutes les disciplines et à tous les problèmes de son temps” (Un Opera de Papier, Gallimard, 1981, p. 100)

Di contro Olrik, canaglia sagacissima ma nient’affatto dedita a spassionati interessi culturali, deve avere nel corso del tempo (e a nostra insaputa) studiato parecchio: conosce bene il latino, infatti, al punto di poterlo tradurre senza nemmeno l’ausilio di un vocabolario, e sa pure molti particolari sulla vita di Shakespeare. 
D’altronde, questa nuova dimensione intellettuale bilancia la sua forzata esclusione dal vivo dell’azione (affidata a uno Sharkey sempre più tonto che duro, inverosimilmente truccato con una barba posticcia e occhialini tondi, a stento riconoscibile dietro questa maschera carnevalesca per via del suo tipico naso da boxeur).
Sono comunque obiezioni di poco conto: Orlik è un indefinibile (e irrinunciabile) deuteragonista machiavellico dall’oscuro passato militare, e queste sue tenebrose scaturigini ne fanno indubbiamente un diabolico superuomo (di massa, direbbe Eco) a cui possiamo agevolmente attribuire ogni talento.

​Tra ricerca storica e avventura, entrambe gestite magistralmente da Sente e Juillard, il racconto si concede diversi e assai godibili intermezzi ironici. Tra questi spicca il simpatico cammeo di Peggy Newgold (parodia di Peggy Guggenheim), collezionista d’arte dal comportamento non proprio ineccepibile, visto che, alla ricerca di un indizio, non esita assurdamente a distruggere la copia in gesso risalente al XVI secolo di un busto modellato da Guglielmo Da Spiri, presunto amico e collaboratore italiano di Shakespeare.
Il racconto lascia trapelare solo qualche vago e velato accenno alla tesi dell’omosessualità (o bisessualità) dell’autore de La Dodicesima Notte e altri capolavori dell’ambiguità. E d’altronde, gli stessi Blake e Mortimer (proprio come Holmes e Watson) non convivono in affettuosa amicizia, pur dandosi del voi, sotto lo stesso tetto?
Nella divisione dei compiti (Mortimer in giro per l’Europa alla caccia del tesoro e Blake a Londra per smascherare e sgominare la banda degli spietati Teddys e i loro altolocati complici) a ciascuno dei due protagonisti resta poco spazio per assurgere ad assoluto primattore. Il racconto procede infatti in modo corale, sfoggiando in forma di flashback accuratissime ricostruzioni storiche.

Con Il testamento di William S. la bande dessinée franco-belga si conferma scuola di straordinaria sapienza e forza espressiva.
Prezioso il disegno, che ha grazia, dinamismo, raffinata precisione in ogni dettaglio, armonioso equilibrio nella composizione della tavola: André Juillard, pur dovendo per convenzione editoriale imitare lo stile di Jacobs (peraltro inimitabile), si rivela comunque un grande autore provvisto di una personalità e di un talento spiccatissimi e preziosi.
Anche Yves Sente compie un ottimo lavoro, orchestrando una sorprendente storia fitta di riferimenti culturali impliciti ed espliciti che forse ha il solo difetto di essere un po’ troppo compressa (tant’è che qualche mistero resta sospeso a metà e non del tutto svelato). La sapiente sceneggiatura cerca il più possibile di velocizzare il ritmo della narrazione, sgrovigliando un intreccio complesso.
Impeccabili anche i colori di Madeleine de Mille che esaltano il nitore del tratto e l’attenzione adamantina nella resa degli interni e degli esterni.

Il testamento di William S., di Yves Sente e André Juillard, Alessandro Editore, 2016, pagine 64, euro 18,99
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​VIOLENTA, NON TROPPO

8/9/2017
di Mike Haynes (*) 

​Viviamo in un mondo violento e non possiamo evitare di affrontare da un punto di vista politico questo problema.
Nel 1917, la violenza della guerra si era propagata in ogni dove. Nell’ultimo capitolo della sua Storia della rivoluzione russa, Trotsky scrive:
«Non è forse significativo che il più delle volte a indignarsi per le vittime delle rivoluzioni sociali siano gli stessi che, se pur non sono stati fautori diretti della guerra mondiale, ne hanno almeno preparato ed esaltato le vittime, o quanto meno si sono rassegnati a vederle cadere?»[1].
Si stima che il numero dei morti durante la prima guerra mondiale, fra militari e civili, ammonti a una cifra tra quindici e diciotto milioni. Alla fine del 1917, un medico socialista calcolò che “la folle corsa della giostra della morte” aveva portato a “6.364 morti al giorno, 12.726 feriti e 6.364 disabili”. Probabilmente, la precisione che dimostra non è corrispondente alla realtà, ma il suo senso delle proporzioni lo è. La gente moriva in battaglia, nonché per le privazioni e le malattie che ne conseguivano.
La Rivoluzione di febbraio scoppiò nella 135ª settimana di guerra. Quella di ottobre si verificò nella 170ª. Nei circa 250 giorni che intercorsero tra l’una e l’altra – un intervallo che alcuni storici presentano come un periodo di eccidi rivoluzionari, in cui ci furono forse 2.500 morti – una sconvolgente cifra di 1.500.000 morti, o addirittura di più, si contò nel cuore dell’Europa.
Sui fronti orientali, tra febbraio e ottobre ci furono meno morti, anche se il bilancio delle perdite fu comunque superiore ai 100.000 caduti. Questa calma relativa fu in larga misura determinata dal fatto che l’esercito russo aveva cominciato a dissolversi, talvolta reagendo con le armi contro chiunque avesse tentato di fermare la diserzione. Omicidi commessi per sfuggire alla morte, per evitare che altri venissero uccisi: la violenza è qualcosa di complesso.
E fluisce in diverse direzioni. Nel maggio 1917, le lavandaie di Pietrogrado scesero in sciopero. Cercarono di spingere tutti fuori dai luoghi di lavoro gettando acqua sui fornelli e sui ferri da stiro. Alcuni proprietari di lavanderie, a loro volta, usarono acqua bollente contro gli scioperanti, minacciandoli con ferri da stiro arroventati, attizzatoi e persino pistole.
È sì vero che nessuna reale rivoluzione è mai incruenta. Ma gran parte di questa violenza arriva più tardi, quando il vecchio ordine, dapprima disorientato, inizia a reagire.
Nel 1917, il livello di violenza fu modesto, se paragonato alla brutalità della Prima guerra mondiale o della guerra civile incipiente. Si rinvengono persino esempi di atti di generosità da parte dei rivoluzionari verso i loro nemici: gesti insensati, se pensiamo al fatto che quelli, non appena liberati, subito si univano alle armate controrivoluzionarie.
È troppo facile dire “la violenza genera violenza”. È meglio approfondire alcune leggende sulla rivoluzione e la sua violenza.


La sanguinosa rivoluzione incruenta
La Rivoluzione di febbraio è apparsa quella col maggior sostegno di massa, ma fu estremamente violenta rispetto agli altri eventi di quell’anno. Soldati e polizia spararono sulla folla e dalla folla alcuni risposero al fuoco. Soldati spararono contro altri soldati.
La maggior parte dei resoconti calcolano il numero dei caduti a Pietrogrado in 1.500, ma molto probabilmente si tratta di un bilancio sottostimato. Coloro che caddero in difesa della rivoluzione furono onorati con la più grande commemorazione di massa mai vista. La metà circa della città – un milione di persone – vi partecipò.
Il vecchio sistema era crollato. Le folle piangevano e festeggiavano con un nuovo senso di fratellanza. Ancor oggi, siamo portati a vedere il Febbraio tutto rosa e fiori, forse perché il clima sarebbe presto cambiato di lì a pochi mesi.
Il nuovo governo provvisorio – più a sinistra di tutti gli altri – voleva stabilire la più avanzata forma di democrazia liberale che si potesse immaginare, ma doveva farlo sulle rovine del vecchio ordine zarista.
Scrisse in seguito Alexander Kerensky: «In tutto il territorio della nazione russa non solo non esisteva un potere governativo, ma addirittura neanche un poliziotto». In febbraio le porte delle prigioni vennero spalancate e ne uscirono non solo prigionieri politici, ma anche migliaia di criminali comuni. Le masse assaltarono i depositi di armi.
Il governo cercò di mettere in campo nuove politiche, nuove istituzioni e nuove organizzazioni, comprese milizie popolari per mantenere l’ordine. Proclamò amnistie, abolì la pena di morte, concesse il diritto di assemblea.
Voleva anche diventare un ponte tra ricchi e poveri. Ciò poneva un problema: le élite volevano un tipo di sistema e il popolo un altro. Pochi giorni dopo l’abdicazione dello zar un ufficiale scrisse: «Essi [i soldati della truppa] pensano che le cose dovrebbero andare meglio per loro e peggio per noi». Le due parti si scontravano su cosa dovesse significare giustizia e ordine, e su che tipo di forza sarebbe stata necessaria per realizzarli.
In aprile, l’allora primo ministro, il principe L’vov, emanò dei decreti per chiedere alla popolazione di smettere di commettere reati. È necessario, si legge, «porre fine a ogni manifestazione di violenza e rapina facendo ricorso a tutta la forza della legge». Ciò significava non solo fermare le rapine in strada, ma anche l’occupazione delle terre della nobiltà da parte dei contadini.
Stabilire l’ordine era pressoché impossibile. Le pressioni locali spingevano le nuove autorità ad agire – o non agire – con modalità tali da indebolire le direttive di Pietrogrado. Alla fine di ottobre, solo trentasette della cinquanta province della Russia europea si erano anche dotate di milizie delle nuove forze di polizia. Frattanto, larghi settori dell’esercito erano diventati inquieti.


Un mondo sottosopra
In febbraio, uno scaltro criminale fece una rapina in una casa dicendo che veniva da un comitato rivoluzionario. Altri seguirono presto il suo esempio. Gli indici di criminalità aumentarono dovunque.
In ottobre, John Reed scriveva: «Le colonne dei giornali del mattino [di Pietrogrado] erano piene di resoconti di assassini e di audaci furti. I criminali restavano impuniti »[2]. La gente smise di portare oggetti di valore e di chiudere a chiave le porte. I criminali scherzavano, dicendo di essere loro ad avere ora bisogno della protezione della polizia, dato che erano gli unici a possedere qualcosa che valesse la pena di rubare.
Il crollo dell’esercito rappresentava un enorme problema. Laddove aveva retto, mantenne in gran parte l’ordine, ma il controllo sfuggì dalle mani del governo per passare in quelle dei rivoluzionari. Intanto, diserzioni di massa producevano gravi episodi di violenza mentre bande di soldati si abbandonavano al saccheggio nel tentativo di fare ritorno alle loro case o di sopravvivere ai margini della vita delle città.
Il problema più grande, però, era che la rivoluzione aveva messo il mondo sottosopra. La vecchia Russia ove regnavano il rispetto e la deferenza era scomparsa. Chi aveva indossato uniformi civili e militari, galloni e spalline, spillette, fasce e nastri dappertutto, ora non poteva arrischiarsi ad uscire di casa per timore di subire violenze.
All’inizio, le classi dominanti osservavano lo svolgersi degli eventi con lo sguardo divertito. «La rivoluzione era vista dagli strati inferiori come qualcosa di simile a un Carnevale cinese – scrisse  un contemporaneo – i domestici, ad esempio, scomparivano per giorni interi, passeggiando con le loro coccarde rosse, scorrazzando con le automobili, e rientravano in casa al mattino solo per il tempo necessario a lavarsi, per poi uscire di nuovo a divertirsi».
Ma l’umore cambiò quando apparve chiaro che la rivoluzione non si sarebbe fermata. Le masse smisero di essere rassegnate e patriottiche, persino riconoscenti per le briciole. Ora, riunite con i loro abiti sporchi e laceri per l’umidità, iniziavano ad avanzare rivendicazioni. Mugugnavano, sputavano, sbraitavano, bestemmiavano. «Da mito patriottico – scrisse Trotsky – il popolo è divenuto una terribile realtà»[3].
È possibile percepire il cambiamento d’umore dal modo in cui gli osservatori descrivevano la gente comune. Gli eroi di febbraio venivano ora dipinti come gentaglia ignorante.
Quando Vladimir Nabokov, un elegante membro del partito cadetto, descrisse le giornate di luglio a Pietrogrado, disse che la gente aveva «gli stessi volti folli, ottusi e bestiali che tutti ricordavamo nelle giornate di febbraio». Rappresentava «lo scatenarsi delle forze della natura» di cui aver paura.
Senza alcuna ironia, i privilegiati dicevano “non fate a noi quel che abbiamo fatto a voi”. Quando comunità contadine si appropriavano delle terre, se le distribuivano in parti uguali. In alcuni casi, davano una quota di terra al vecchio proprietario, che, vedendo la casa padronale data alle fiamme, probabilmente lo riteneva un ultimo gesto di umiliazione. Per i contadini, invece, si trattava di un autentico atto di giustizia.
Quando gli ufficiali imprigionati si lamentavano delle condizioni della fortezza di Kronstadt, i loro nuovi carcerieri rispondevano: “È vero che il carcere di Kronstadt è orribile, ma è la stessa prigione che è stata costruita per noi dallo zarismo”.
Trotsky, che era stato arrestato dal governo provvisorio, restò perplesso quando, in ottobre, i sostenitori del governo lo supplicarono che i ministri arrestati non fossero gettati in quelle stesse celle in cui anche lui era stato prigioniero. E così, egli ne autorizzò gli arresti domiciliari per un periodo.
La Rivoluzione del 1917 non è stata portata avanti su astratte questioni di legge e ordine: le masse popolari combatterono vere e proprie battaglie su quale legge e quale ordine dovessero reggere il Paese.


La terra di chi?
La legge sorge dalle strutture politiche e sociali. Un quotidiano sottolineava che «i più elementari principi [sono] la sicurezza personale e il rispetto della proprietà privata», ma uno striscione a una manifestazione recitava: «Il diritto alla vita è più importante del diritto alla proprietà privata».
Non ci fu terreno di scontro tanto acuto quanto la questione della proprietà della terra.
La maggior parte dei contadini credeva che l’aristocrazia usasse il potere dello Stato per appropriarsi delle loro terre. «Il possesso della terra a titolo di proprietà è, fra i crimini, uno dei più innaturali», ma «questo crimine è considerato un diritto secondo le leggi umane», scrisse un contadino autodidatta. «L’ingiustizia della proprietà fondiaria è inevitabilmente legata alle tante ingiustizie e ai misfatti necessari per la sua difesa». Riprendersi le terre divenne un atto risarcitorio.
Alcuni rappresentanti locali del governo provvisorio condividevano questa visione, ma i latifondisti ovviamente no. A Pietrogrado, il governo promise ambiguamente una riforma agraria per il futuro. I radicali la pensavano diversamente.
«Tra noi e i nostri avversari c’è una contraddizione di fondo nel modo di concepire l’ordine e la legge», disse Lenin:
«Fino ad ora si riteneva che l’ordine e la legge fossero ciò che conveniva ai grandi proprietari fondiari e ai funzionari; noi affermiamo invece che l’ordine e la legge sono ciò che conviene alla maggioranza dei contadini[4] […] ciò che conta per noi è l’iniziativa rivoluzionaria e la legge deve esserne il risultato. Se aspetterete che la legge sia scritta, invece di esercitare voi stessi la vostra energia rivoluzionaria, non avrete né la legge né la terra[5]».
Questa opinione richiedeva un nuovo sistema giuridico, promosso dal basso.
In Stato e rivoluzione, Lenin approfondì questa straordinaria affermazione scrivendo che per far fronte a eccessi e crimini:
«… non c’è bisogno di una macchina speciale, di uno speciale apparato di repressione; lo stesso popolo armato si incaricherà di questa faccenda con la stessa semplicità, con la stessa facilità con cui una qualsiasi folla di persone civili, anche nella società attuale, separa delle persone in rissa o non permette che venga usata la violenza contro una donna»[6].
Maxim Gorky non era d’accordo, e citava episodi ai quali aveva assistito in villaggi contadini, in cui c’era chi partecipava a cuor leggero ad atti di violenza, anche contro le donne. La maggior parte degli storici ha dato ragione a Gorky, curiosamente prestando scarsa attenzione alle conseguenze che di fatto questo conflitto tra vecchio e nuovo ordine produceva.
Dopo il Febbraio, nuove forze dell’ordine cominciarono ad apparire. I soviet e i comitati di fabbrica crebbero in numero e presero a organizzare, sia pure non adeguatamente, le loro forze. A Kronstadt – che qualcuno ha visto come l’incarnazione della brutalità rivoluzionaria – i soviet e i comitati di fabbrica chiusero bordelli, proibirono l’ubriachezza in pubblico e misero fuori legge persino i giochi a carte.
Si formarono anche milizie composte da lavoratori, che si mantenevano separate da quelle che rispondevano al governo provvisorio. Queste milizie fecero la loro apparizione spontanea a Pietrogrado e in qualche altro luogo. Forse con un pizzico d’esagerazione la Pravda sostenne che, grazie a questi gruppi, «il vandalismo è scomparso dalle strade come polvere soffiata via da venti di tempesta».
Alla fine di marzo, mentre il governo cercava di creare la propria forza di polizia, i lavoratori istituivano altre unità di Guardie Rosse, soprattutto a Pietrogrado. Il loro numero variò nel corso del tempo, ma ebbe un’impennata in ottobre. Alla vigilia della rivoluzione, le si poteva incontrare per tutta la Russia.
Giovani e inesperti, ma assolutamente più efficienti della demoralizzata milizia civica, questi ufficiali rappresentavano l’esempio di un ordine alternativo. «La stampa accusava la milizia di violenze, di requisizioni e di arresti illegali», scriveva Trotsky:
«Senza dubbio, la milizia usava la violenza: era stata organizzata appunto per questo. Ma il suo crimine consisteva nel fatto di usare la violenza nei confronti dei rappresentanti di quella classe che non era abituata a subirla e non voleva farci l’abitudine»[7].
Allo stesso modo, i rivoluzionari fecero appello a unità dell’esercito a unirsi alle file dei bolscevichi, ed esse giocarono un ruolo chiave in ottobre.
Lo scontro tra visioni del mondo si sostanziava nel modo in cui venivano descritti questi soldati. Il governo provvisorio li definiva “inaffidabili”, ma per chi sosteneva la rivoluzione le sole “unità inaffidabili” erano quelle che ancora appoggiavano il governo.


Ordine dal basso
Nella sua ricerca di un ordine, il governo provvisorio passò alla violenza. Le proteste al fronte contro la guerra furono punite con i lavori forzati. Kerensky lanciò l’offensiva di giugno nella speranza di aiutare lo sforzo bellico degli alleati incentivando l’ordine interno, ma molti soldati si rifiutarono di combattere. Quindi, in luglio, in una caotica manifestazione svoltasi a Pietrogrado, trovarono la morte cinquantasei persone.
Il governo definì le giornate di luglio un tentativo di colpo di stato. Trotsky fu catturato e Lenin dovette nascondersi. L’esercito reintrodusse la pena di morte al fronte, ma il numero delle esecuzioni fu basso perché le truppe stesse vi si opponevano.
Le classi dominanti cominciarono a vedere nel comandante in capo, il generale Kornilov, l’uomo forte di cui c’era bisogno. Quando il suo avventuroso tentativo di prendere il potere fallì, la situazione divenne ancor più tesa. Le occupazioni di terre nelle campagne aumentarono e il governo dispiegò le proprie poche truppe affidabili per fermarle.
Il contrasto tra gli avvenimenti dell’Ottobre e la violenza caotica del Febbraio fu enorme. Forse quindici persone morirono a Pietrogrado, con una cinquantina di feriti. Il governo provvisorio era diventato un guscio vuoto. «Puzziamo di carne putrefatta», disse un ministro. La violenza fu contenuta grazie alla nascita di un nuovo potere: il soviet.
Il 22 ottobre, domenica, il regime di febbraio vide centinaia di migliaia di persone invadere le strade per celebrare la Giornata del soviet di Pietrogrado. Se fosse scoppiato un vero conflitto, il precario governo avrebbe potuto schierare al massimo 25.000 uomini. Almeno 100.000 soldati erano invece pronti a combattere per il soviet.
Di fatto, i rivoluzionari presero il potere in maniera sorprendentemente ordinata. Il soviet di Pietrogrado pubblicò dei manifesti in cui si leggeva:
«Il soviet di Pietrogrado dei Deputati dei Lavoratori e dei Soldati assume su di sé il compito di proteggere l’ordine rivoluzionario in città … La guarnigione di Pietrogrado non permetterà nessun atto di violenza o disordini. Si esorta la popolazione ad arrestare teppisti e membri delle Centurie nere e a portarli presso i commissari del soviet nelle caserme più vicine».
Quando il Palazzo d’Inverno cadde, i comandanti bolscevichi salvarono dalla fucilazione i vecchi ministri traendoli invece in arresto. I soldati andavano a caccia di assassini, oppositori e qualche ladro per prevenire saccheggi.
 
La presa del Palazzo d’Inverno
Il ministero della guerra, a malapena funzionante, rivolse ai rivoluzionari degli ambigui complimenti in uno dei suoi ultimi messaggi:
«Gli insorti stanno preservando l’ordine e la disciplina. Non si stanno verificando casi di devastazione o pogrom. Al contrario, pattuglie di insorti hanno arrestato soldati che vagabondavano … L’insurrezione è stata indubbiamente pianificata per tempo e portata avanti inflessibilmente e armoniosamente».
Il 26 ottobre, il soviet diramò un appello alla restante parte della Russia perché fosse adottato il nuovo ordine: «Tutta la Russia rivoluzionaria e tutto il mondo stanno guardando a voi». A Pietrogrado le cantine vennero distrutte per limitare la possibilità che i vincitori si abbandonassero all’ubriachezza.
A Mosca si svolsero pesanti combattimenti e diverse centinaia di persone morirono. Ma in tutto il Paese – come avrebbe poi detto Lenin – «arrivati in una qualsiasi città, proclamavamo il potere dei soviet e dopo pochi giorni i nove decimi degli operai erano con noi»[8].
La violenza cominciò a essere più evidente nella periferia, dove i sostenitori del governo provvisorio poterono utilizzare settori del vecchio esercito per resistere alla rivoluzione. Fu lì che lo spargimento di sangue fu maggiore.


Imparare la spietatezza
Le rivoluzioni sono atti violenti, ma la violenza ha diverse facce. All’inizio del 1918, la rivoluzione russa sembrava aver vinto. Fece appello alla pace e chiese al popolo di sollevarsi per ottenerla.
Ma le potenze europee non volevano né la pace, né che vi fosse una rivoluzione vittoriosa alle loro porte: sicché, le potenze centrali ruppero l’armistizio e rivolsero la loro violenza verso il fronte orientale. Appoggiarono inoltre la violenza controrivoluzionaria all’interno della Russia. Di fatto, senza un aiuto esterno è difficile immaginare come la conseguente guerra civile avrebbe potuto sostenersi.
Alla fine del 1917, l’ex comandante in capo, il generale Alekseev, sollecitò le forze antibolsceviche a riunirsi sul Don e sul Kuban. A febbraio 1918, soltanto 4.000 soldati avevano accolto l’appello presentandosi. L’anno precedente, gli ufficiali erano all’incirca 250.000. A quanto pareva, in pochissimi avevano voglia di continuare a combattere.
Senza un maggiore aiuto dall’esterno, questi controrivoluzionari non avrebbero avuto né la fiducia, né i mezzi per continuare la loro guerra. In questo contesto, come Trotsky avrebbe detto in seguito, anche la rivoluzione dovette imparare a essere spietata.

(*) Mike Haynes è uno storico che lavora nel Regno Unito. Ha curato tra l’altro il volume  History and Revolution. Refuting Revisionism (Verso 2017).


(Traduzione di Ernesto Russo. Tutte le note a piè di pagina sono del traduttore)


 
 
[1] L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Arnoldo Mondadori Editore, 1978, vol. II, p. 1253.
[2] J. Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, BUR, 2001, p. 81.
[3] L. Trotsky, op. cit., p. 1099.
[4] V.I. Lenin, “Primo Congresso dei deputati contadini di tutta la Russia: 2. Discorso sulla questione agraria”, Opere, Edizioni Lotta comunista, vol. XXIV, 2002, p. 502.
[5] V.I. Lenin, “Settima conferenza panrussa del Posdr (b), ivi, p. 292.
[6] V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, op. cit., vol. XXV, p. 436.
[7] L. Trotsky, op. cit., vol. I, p. 456.
[8] V.I. Lenin, “VII Congresso del partito comunista (bolscevico) della Russia: 1. Rapporto sulla guerra e la pace”, op. cit., vol. XXVII, p. 84.


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