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TROPPO BARDO PER ESSERE VERO

30/9/2016
di Alfonso Geraci e Emiliano Morreale

Omaggio ad Ann Righter
Una di quelle rarissime opere di critica che cambiano il nostro modo di pensare in merito all’argomento trattato
(John Wain, recensendo Shakespeare and the Idea of the Play sull’Observer, 1962)

 
Una dozzina d’anni fa abbiamo minacciato di dare alle stampe un pamphlet anti-bardolatrico, il cui bersaglio principale era l’intellettualità italiana compradora del periodo dell’”Ulivo Mondiale” (quello di Clinton, Blair, Prodi & Veltroni), del tutto subalterna a tutto ciò che è – o fa - angloamericano. La pubblicazione integrale del testo[1] ci pare ormai fuori luogo (la battaglia è vinta, seppure nel peggiore dei modi, dato che all’entusiasmo sguaiato e scriteriato per Shakespeare è subentrata una sostanziale reticenza, non meno indiscriminata); prendiamo però parte alle celebrazioni per il 400esimo della morte del Nostro presentando ai lettori di PalermoGrad uno dei capitoli rimasti inediti, nel quale ci lanciavamo all’assalto del luogo comune del ‘Teatro nel Teatro’ quale strumento impareggiabile di palingenetica presa di coscienza. Già all’epoca non ci illudevamo di chissà quale originalità (nel campo in questione è impossibile): adesso, però, avendo finalmente potuto leggerla (grazie alla segnalazione dell’impagabile Michael Taylor, Shakespeare Criticism in the Twentieth Century, 2001) riteniamo doveroso omaggiare quale più scientifica precorritrice dei nostri sberleffi la grande Ann Righter, scomparsa nel frattempo. Nata BarbaraAnn Roesen nel 1933 a New York, morta a Cambridge nel 2013 quando era ormai nota come Ann Barton, la Righter (così firmò nel 1962 il libro che qui ci riguarda più da vicino, SHAKESPEARE AND THE IDEA OF THE PLAY) è oggi meno conosciuta del dovuto, anche a causa di quella confusione/obliterazione bibliografica che è la sorte comune alle donne che  sposandosi  - o ri-sposandosi, come in questo caso - fanno proprio esclusivamente il cognome del marito.  Più sobria di noi, l’autrice, in questo libro imprescindibile per chi studia o semplicemente ama Shakespeare, non tira il ballo il ‘Trash’, estraneo al vocabolario critico corrente all’epoca; e ritiene che la rappresentazione a corte ‘ritoccata’ da Amleto raggiunga sostanzialmente il proprio scopo (come vedrete, noi non la pensiamo così !). Ma ci sembra estremamente importante l’individuazione di una coupure  épistémologique – qui postdatata a Troilo e Cressida – rispetto alla concezione del Teatro riscontrabile in  Shakespeare, in seguito alla quale  l’idea  del Palcoscenico  Come Metafora muta prima di segno (da positivo a negativo) e poi di significato, per venir meno del tutto con l’ultima opera del Bardo,  La Tempesta.
            E ora, in attesa di leggere la Righter, accontentatevi di noi…
 
Il teatro del Trash
 
…lewd solecisms and worded trash
                 Ben Jonson, Poetaster (1601), 3.1
 
 
Il "segreto" di Shakespeare – lo sanno tutti - è la presenza del "Teatro nel Teatro", specchio della vita, grimaldello infallibile di scoperta e rivelazione, eccetera eccetera eccetera. In realtà, a noi pare che la presenza del teatro in Shakespeare susciti non di rado imprevedibili cortocircuiti, tanto sulla scena quanto nel rapporto tra scena, pubblico e testo.

Prendiamo il fallimento della recita a corte in Amleto (l’idea era visivamente molto forte nella messa in scena di Carlo Cecchi al Teatro Garibaldi di Palermo, una quindicina d’anni fa: gli attori se la davano comicamente a gambe in quattro e quattr' otto, addirittura seguiti dal riarrotolarsi del tappeto sul quale si era svolta la recita). Amleto gongola, mentre in realtà la rappresentazione ha sortito l’effetto opposto a quello da lui sperato. Il giovane vestito di nero (di nero, come Amleto) Luciano, dichiara nella pièce di voler avvelenare lo zio: pare proprio una minaccia di Amleto allo zio Claudius, che per questo ha la scusa per infuriarsi e far sospendere lo spettacolo. Ciò è vero indipendentemente dal fatto che l’usurpatore si sia davvero sentito accusato dalla ‘Trappola per Topi’ (cosa di cui sono sicuri il Principe e una tradizione di lettura maggioritaria ma dubbia e invero banale). E a dirla tutta, il turbamento di Claudius avrebbe benissimo potuto palesarsi già durante la Pantomima, in cui si ripercorre per filo e per segno l’avvelenamento così come denunziato dallo Spettro, ma ovviamente non si parla ancora di nipoti e zii. Per questo motivo le messe in scena metateatralmente trionfalistiche (la Forza del Teatro, etc…) tendono a eliminare, a tagliare la Pantomima. Noi sposiamo invece la lettura “fallimentare” della recita a corte, avanzata per primo da W.W.Greg in un articolo del 1917 intitolato Hamlet’s Hallucination, e ripresa, in differenti contesti e con varie sfumature, da critici molto diversi tra loro quali John Wain, Franco Moretti, Arthur McGee (autore di un libro in cui si ipotizza nei dettagli come la tragedia potesse apparire ai suoi  primi spettatori) fino a Terence Hawkes[2]. Altro che “specchio per la natura” (come dice Amleto proprio mentre prepara la recita-fallimento)! Louis Althusser allude a questa celeberrima metafora dello specchio (presa invece per buona dal Dr. Johnson) quando, al contrario, sottrae Shakespeare e Molière al teatro del “riconoscimento“, “della specularità”: “lo specchio in cui essa [la società, l’ideologia] si riflette per riconoscersi” è invece “quello specchio che dovrebbe appunto spezzare per conoscersi”[3].

Una delle prime e più famose apparizioni del “teatro nel teatro” in Shakespeare si trova nel primo atto del Sogno di una notte d’estate, quando una compagnia scalcagnata composta da borghesi e artigiani intende mettere in scena a corte la storia di Piramo e Tisbe. Le prove si dipanano dal primo al terzo atto, con problemi sempre più cavillosi e soluzioni sempre più assurde. Nel mezzo della seconda prova Bottom rientra con la testa trasformata in quella di un asino, gettando nello scompiglio la compagnia. Infine, il “tragico spasso” come lo definisce Filostrato, va in scena a corte con esiti disastrosi, tanto che Teseo rinuncerà ad ascoltare l’epilogo. La rappresentazione è una sorta di trasfigurazione (tragica in prima istanza, ridicola infine) delle vicende che hanno costellato la notte. Tanto che alla fine, Puck Oberon e Titania devono solo chiudere la rappresentazione e ringraziare a loro volta il gentile pubblico.

Più che di una valore di rivelazione, dunque, si tratta di un valore di liberazione attraverso il caos: non catarsi, ma catastrofe.
Nel Macbeth la celeberrima metafora della vita in bocca al protagonista (“Life’s but a walking shadow, a poor player that struts and frets his hour upon the stage and then is heard no more” V, 5) parla di un “attorucolo”, una “attore da poco, che tutto tronfio si sbatte per un’ora sulla scena, e poi non se ne sa più nulla”: un attore fallito, insomma.

Nel momento-clou dello scioglimento (atto V, scena 1) di Pene d’amor perdute, due classici pedanti di provincia, il curato Nataniele e il maestro Oloferne, insieme a don Armado, mettono in scena la commedia I nove prodi per allietare la regina (la quale è già reduce da un piccolo trionfo personale avendo gabbato il re e i suoi che si erano presentati in maschera). La regina si frega le mani: “Il divertimento più piacevole è quello che piace a sua insaputa. Allorché lo zelo si sforza di soddisfarci, la soddisfazione vien meno per lo zelo eccessivo di coloro che ne sono animati. È lo scompiglio della loro situazione che crea la situazione più ridicola, quando grandi cose partoriscono un bel nulla.” Gli interpreti fanno alla bell’e meglio alcuni uomini illustri in un pot pourri storico (Giuda, Ercole, Pompeo, Alessandro), declamano pompose battute, sbagliano i tempi, mentre il principe tra il pubblico si prende gioco di loro. E qui non c’è davvero niente da rivelare, perché ciò che accade poco dopo non è in nessun modo prodotto dalla messinscena: anzi, la rappresentazione viene bruscamente interrotta da un messaggero, che annuncia la morte del padre della principessa, che conduce la commedia alla conclusione.

E che dire del ruolo fondamentale dei vari clowns shakespeariani: da Touchstone a Feste al Fool del Lear a Parolles? Sono tutti quanti, per dirla con Marco Giusti, supertrashioni [4].

Shakespeare pare vedere insomma una forza dirompente del teatro proprio nella sua approssimazione, nel suo incepparsi e nel rischio del ridicolo. Ci troviamo assai lontani da un’idea di scena come catarsi, esibizione delle passioni a scopo purificatore. A voler forzare, si potrebbe dire che il teatro in Shakespeare causa alcune delle reazioni estetiche che poi andranno sotto il nome di trash. Il trash è una nozione complessa, che riguarda più la ricezione dell’opera d’arte che la sua creazione. Il trash non viene mai progettato e attuato come tale; se lo è, non è vero trash. Suo principio è l’eterogenesi dei fini, la sproporzione tra fini e mezzi. Ed esso inoltre presuppone la superiorità dello spettatore rispetto all’artista e alla sua opera. Il senso di sproporzione però, e il piacere che esso suscita, non è forse troppo dissimile dal sublime/orrido indagato a fine Settecento da Edmund Burke: un piacere opposto a quello del bello, legato alla disarmonia e a un sottile dispiacere, anzi a un certo grado di paura.

C’entra certo anche la “laicità”, la prospettiva squisitamente mondana sulle vicende umane che il teatro shakespeariano parrebbe proporre, il suo aver “trasferito il mondo nella parola” con una impareggiabile vastità di toni e di orizzonti. Come ha scritto George Steiner in una celebre, provocatoria “stroncatura” di Shakespeare: “I limiti del suo linguaggio sono, secondo la terminologia del Tractatus, i limiti del nostro mondo. Non c’è quasi campo o componente dei lavori e dei giorni degli uomini che Shakespeare non abbia linguisticamente mietuto, dove non abbia gettato la rete della sua ineguagliata ricchezza lessicale e grammaticale”. Disponendo di un lessico di circa trentamila parole (dieci volte quello di un Racine), Shakespeare si è spinto particolarmente a fondo nella rappresentazione della banalità e della bruttezza, e questo percorso è stato forse uno dei punti di maggior auto-riflessività del suo teatro, non nel senso del teatro nel teatro,  o di una concezione del teatro direttamente o indirettamente messa in bocca ai personaggi;  ma nel senso della parodia, del cortocircuito che fa saltare.

Cortocircuito metafisico e insieme reale, connaturato alla natura più nuda del teatro. Come quello, nel Novecento italiano, della Compagnia D’Origlia-Palmi, adorata da Alberto Arbasino nonché da Carmelo Bene, il quale ne dice: “Era una costellazione sublime di amnesie, di vuoti di scena, d’identità smarrite e scambiate come patacche in un mercato dell’arteriosclerosi. Eroi involontari, suggeritori inadempienti dimenticati nelle buche e su tutti, gigantesco, il nonagenario scheletro del cavalier Bruno Emanuel Palmi, crocifisso in scena e interrogato da Madame D’Origlia, alias Maria, mentre un funzionario SIAE spazientito reclamava fuori scena il borderò del giorno. ‘Oh... dove hai messo il borderò?’ implorava la Madonna ai piedi del Cristaccio morente che, con un fil di voce, biascicava: ‘Nel primo cassetto del baule delle ciglia... nel tuo camerino’, per poi spirare. Mai visto più nulla di simile. Grandissimi.”

Non è molto lontana da tutto ciò la funzione del teatro nelle trame shakespeariane. Il teatro in Shakespeare, più che rivelare, inceppa; più che illuminare, porta a un grado salutare di delirio; non è arte che sta più in alto della vita e la risolve, ma incidente fatale che la fa precipitare.
 



[1] Ad ogni modo, significative porzioni della nostra polemica si trovano in: Ma Shakespeare fa sempre bene? in Segno 205, Maggio 1999; Shakespeare alla fine di un’era (incontro con Terence Hawkes), in Lo Straniero 66/67, 2005-6; e I sette magnifici Shakespeare, in Margini 2, 2006-7.

[2] W.W. Greg, Hamlet’s Hallucination in The Modern Language Review, 12, 4 (October 1917); John Wain, The Living World of Shakespeare. A Playgoer’s Guide (1964); Franco Moretti, Signs Taken for Wonders. Essays in the Sociology of Literary Forms (1983); Arthur McGee The Elizabethan Hamlet (1987); Terence Hawkes in shakesper.net, The Shakespeare Conference: SHK 12.1807  Thursday, 19 July 2001.

[3] Louis Althusser, Il “Piccolo”, Bertolazzi e Brecht in Per Marx [or. Pour Marx, 1965; tr.it. di Franca Madonia, 1967].

[4] Marco Giusti, Dizionario dei film italiani stracult (1999), passim.
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CONTINUAVANO A CHIAMARLA GLOBALIZZAZIONE 

23/9/2016
di Marco Palazzotto

In vista dell’incontro di mercoledì prossimo con Joseph Halevi (Istituto Gramsci, ore 17,30), Marco Palazzotto introduce i principali temi che verranno affrontati. 

Le riflessioni politiche ed economiche sui concetti di neoliberismo e globalizzazione, con le conseguenti interpretazioni teoriche, hanno eliminato dal discorso italiano il problema del Mezzogiorno, ciò che una volta chiamavamo “questione meridionale”. Questa tendenza può essere allargata anche al resto dell’Europa e del mondo, in cui – secondo la vulgata corrente soprattutto a sinistra – grazie ai processi di maggiore liberalizzazione del commercio e della finanza, sviluppo delle tecnologie e unioni monetarie, avremmo assistito ad un superamento delle barriere geografiche per giungere ad un capitalismocontemporaneo postmoderno che supererebbe le categorie del secolo scorso.

Credo piuttosto che il fenomeno indicato con il termine “globalizzazione” rappresenti oggi una forma nuova di imperialismo (Guglielmo Carchedi in IL LAVORO DI DOMANI - Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, BFS 1998) nella quale, secondo le classiche categorie di sfruttamento del modo di produzione capitalistico, non sussiste discontinuità tra ’900 e oggi se non in una diversa e più sviluppata organizzazione del capitale.

Come sappiamo, alla fine degli anni ’70 il capitalismo entrò in una nuova fase. Dopo il superamento delle politiche keynesiane a causa di un periodo di stagflazione, caratterizzato anche da una guerra “del petrolio”, e dopo un ridimensionamento del ruolo dell’URSS che sfociò poi nella crisi definitiva del 1989, il capitale sferrò un attacco importante al mondo del lavoro. L’indirizzo politico ed economico che ne conseguì fu il cosiddetto Neoliberismo degli anni ’80 – dopo un breve periodo monetarista – con l’ascesa al potere di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher. Di liberismo però, soprattutto con la reaganomics, non si può propriamente parlare. Anzi assistemmo ad un aumento della spesa pubblica nel settore militare statunitense e ad una politica monetaria espansiva che non ebbe eguali. La politica estera degli Stati Uniti mutò di conseguenza.

Nel Regno Unito si assistette ad un cambio della struttura produttiva, con un processo di deindustrializzazione. Nel frattempo, dismessa ormai da decenni ogni velleità di leadership mondiale, il Regno Unito restava fedele alleato degli USA, soprattutto nelle campagne militari. Nel disegno thatcheriano, l’Inghilterra andò modellandosi intorno alla centralità dell’industria di servizi finanziari, e a Londra venne affidato il ruolo di succursale europea di Wall Street. Il conflitto di classe s’inasprì causando l’aumento di disoccupazione e precarietà e il ridimensionamento dei servizi sociali. 

Anche in Oriente gli USA cambiarono politica estera. Dopo gli accordi sui tassi di cambio di Plaza – con i quali gli Stati Uniti posero fine al continuo apprezzamento del dollaro, soprattutto nei confronti dello yen giapponese - e dopo la fine del socialismo reale, gli USA cercarono nella Cina, e nel suo capitalismo, l’alleato principale per portare avanti un nuovo modello di sviluppo che vide il trasferimento di impianti produttivi e tecnologia verso oriente, relegando nel contempo il Giappone – fino a quel momento economicamente egemone nell’area – alla stagnazione di lungo periodo. Nel nuovo modello, si aprirono nuove possibilità di accumulazione anche grazie all’immenso “esercito di riserva” che poté offrire la Cina e, poco dopo, l’India.

In Europa, la Germania mantenne un modello di accumulazione basato sulla produzione di beni ad alto valore tecnologico. Fu però necessario contrastare l’Italia, principale concorrente europeo per i suoi “distretti industriali” e le sue svalutazioni competitive. Dopo il fallimento dello SME nei primi anni ’90, il processo d’integrazione europea ricevette un’accelerazione per soddisfare le esigenze del modello imperialistico francese (vedi Joseph Halevi in questo intervento su PalermoGrad).L’unica contropartita atta a coinvolgere la Germania nella costruzione europea consistette nella cessione del controllo delle politiche economiche e fiscali al paese teutonico. La Francia poté così continuare la sua politica imperialista imperniata sull’asse “aeronautico-militarindustriale”. 

In questo modo la Germania riuscì ad imporre il modello di austerità a tutta l’Europa (tranne la Francia, che invece potrà espandere il proprio doppio deficit a suo piacimento).

In Italia il quadro politico ed economico si modifica nettamente a partire dai primi anni ’80. Con il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, il nostro paese s’incamminò su una strada di continui deficit pubblici, caratterizzati però da una diminuzione di spesa pubblica corrente e in conto capitale ed un aumento della quota interessi. Lo SME e il successivo Trattato di Maastricht segnarono la fine del welfare italiano e del modello industriale dei distretti. Lo sviluppo sarà successivamente dipendente dalle bolle speculative che porteranno l’Italia, nel nuovo secolo, ad aumentare i “twin deficit”, ovvero l’indebitamento nel settore privato e pubblico. Questi indebitamenti sfociarono nella crisi del 2008 quando i capitali privati lasciarono la periferia europea.

I “meridioni d’Europa” rimangono pertanto tali, ovvero paesi subordinati in un quadro sempre più centralizzato verticalmente. Come rileva Halevi in questo intervento, non esiste alcun fenomeno di “mezzogiornificazione”: semmai le aree sottosviluppate rimangono tali anche dopo l’integrazione europea (è il caso di Grecia, Spagna, Portogallo). 

Il ruolo del meridione italiano cambia radicalmente dopo la fine dei “Gloriosi Trent’anni”. Come rileva Domenico Moro inGlobalizzazione e decadenza industriale (Imprimatur 2015) assistiamo negli ultimi trent’anni alla fine del modello che vedeva ad esempio la Sicilia, come il resto del Meridione, quale destinataria della sovraccumulazione di capitale dei grandi gruppi del Nord Italia. In pratica la fine di un modello di interimperialismo economico in cui il Sud era destinatario kaleckianamente delle eccedenze industriali del Nord Italia. 

Oggi le differenze socioeconomiche tra nord e sud d’Italia (ed Europa) si sono accentuate, e le regioni che ricevevano le eccedenze di capitale del centro-nord Europa sono state sostituite dai paesi in via di sviluppo dell’Est europeo, del Sud America e dell’Asia.

Anche il ruolo delle criminalità è cambiato col mutare del capitalismo. Un modello criminale meridionale, prima strumentale al modello di sviluppo del settentrione, non ha più ragione di esistere in un mondo in cui il nord dell’Italia diventa il sud dell’Europa. Il controllo politico viene sempre più centralizzato in una fase in cui i sistemi elettorali hanno superato il problema della gestione del consenso territoriale.

In conclusione, assistiamo ad una continuità del predominio mondiale della cosiddetta triade, ovvero il centro produttivo e finanziario mondiale suddiviso in tre grandi aree (USA, Europa e Asia orientale). Certo assistiamo a una maggiore internazionalizzazione del capitale produttivo e a una “globalizzazione” – se proprio vogliamo usare questo termine – del settore finanziario. Le catene produttive invece hanno mantenuto ferma la loro base geografica di controllo, mentre possiamo assistere ad una transnazionalizzazione delle catene, con cui parti differenti dello stesso prodotto si possono costruire in paesi diversi. Continua invece il fenomeno di centralizzazione del capitale (Hilferding 1910). Semmai, come rilevano Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi, assistiamo ad una tendenza alla centralizzazione senza concentrazione: sempre più monopoli e sempre più differenze lavorative dentro la stessa azienda, non solo differenze geografiche, ma anche nei contratti dei lavoratori appartenenti alla stessa unità produttiva.

Delle relazioni tra i meridioni e questo nuovo contesto produttivo parleremo il prossimo 28 settembre a Palermo con Joseph Halevi. 
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POVERI E PICCOLI - Animalismo e fratellanza in Anna Maria Ortese

16/9/2016
di Marcello Benfante

​“Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo”
Anna Maria Ortese, Corpo celeste
 
“Le piccole Persone” (Adelphi, 2016) di Anna Maria Ortese è un libro prezioso, sebbene per lo più costituito da testi occasionali oppure non definitivi, perché consente di mettere a fuoco uno degli elementi basilari del pensiero e della poetica dell’autrice dell’Iguana e del Cardillo, ovvero ciò che potremmo definire, forse riduttivamente, il suo animalismo.
Si tratta di trentasei scritti, quasi sempre brevi, di cui solo tredici editi, benché mai finora apparsi in volume. Gli altri ventitré sono stati invece trascelti dalla curatrice, Angela Borghesi, che firma anche l’interessante postfazione, dai documenti del Fondo Anna Maria Ortese dell’Archivio di Stato di Napoli.
Il risultato di questa apprezzabile operazione di recupero e di selezione tematica è una silloge, per quanto eterogenea, densissima di spunti e materiali indispensabili per un approfondimento della filosofia ecologista (ma anche qui s’avverte subito che la definizione è approssimativa) della Ortese, della sua tormentata dimensione spirituale, nonché della sua attività sul fronte giornalistico ed etico-politico.
Il volumetto, ideale complemento minore dell’imprescindibile  “Corpo celeste” (Adelphi, 1997), si compone di due parti: una raccoglie scritti di taglio più teorico e caratterizzati da una maggiore ricerca di approfondimento; l’altra è invece costituita da testi più militanti, concepiti a caldo con un’urgenza polemica che spesso si traduce in vere e proprie invettive.
Invettive, soprattutto, contro l’ignavia degli intellettuali, contro i pregiudizi del cattolicesimo (con rare eccezioni francescane), contro l’Italia, “inferno degli animali”, e la Spagna con le sue infami tauromachie, contro l’ostentazione dei corpi squartati nelle macellerie e l’orgia carnivora delle festività consacrate, contro la “ferocia e mollezza” dello spirito consumista o l’incapacità di provare ammirazione per la natura.
Non per questo, tuttavia, ne risulta una sostanziale discontinuità tra le due sezioni, sebbene vi si possano riscontrare talune incongruenze, peraltro poco significative, che la stessa curatrice individua nel suo commento e che d’altronde sono ovviamente attribuibili al carattere appassionato e veemente di certi interventi scaturiti da fatti di cronaca esecrabili contro cui l’autrice si scaglia, per così dire, a testa bassa.
D’altronde, quello di Anna Maria Ortese non è un pensiero sistematico, ma piuttosto un ribollente crogiuolo di sensazioni e intuizioni, esperienze e visioni, percezioni misteriose e immediate.
Un insieme di idee e posizioni morali che tuttavia non può ricondursi a una semplice emotività, ma ha invece una fondamentale coerenza.
Forse il solo punto su cui l’orientamento della Ortese sembra realmente oscillare (tra ripudio e redenzione) è quello relativo all’uomo, alla sua essenza e al suo ruolo.
Negli scritti più ponderati (e quindi in un certo senso più attendibili) la Ortese si pone, rispetto a questa centrale problematica, nei termini di quello che si potrebbe definire un umanesimo integrale e segnatamente animalista (1).
Il suo è un paesaggio animista e insieme indecifrabilmente antropomorfico dove con folgorante epifania “un albero ci si mostra improvvisamente umano, stanco”.
Ma, in certi attacchi più indignati e come sopraffatti dal dolore, il j’accuse assume toni e modi di una misantropia implacabile. Almeno, a una prima lettura e a un’immediata percezione.
D’altra parte, lapalissianamente, ogni discorso umano è rivolto agli uomini. Li considera e coinvolge necessariamente. Ma non è questo il punto, soprattutto laddove il grido della Ortese in soccorso degli animali (o delle stelle) è più disperato e sconsolato. Il nodo cruciale è invece il discorso sulla fratellanza (che peraltro è un discorso tipicamente italiano, essendo il nostro paese storicamente refrattario a questo tema, al punto che perfino Pinocchio, “che è il più famoso italiano giovane di tutti i tempi, non ha fratelli”).
È opportuno però giungervi attraverso la definizione del concetto di Persona, che campeggia su tutto, a partire dal titolo stesso della raccolta.
Come spesso usa fare in questi e altri scritti, Anna Maria Ortese prende le mosse da un aneddoto personale che le offre lo spunto per una trattazione più distesa. Leggendo un racconto di Natalia Ginzburg, “Borghesia” del 1977, la Ortese rimane colpita dall’uso insolito della parola “faccia” riferito al musetto di un gatto. Il particolare le pare indicativo di un atteggiamento di rispetto che riconosce nel gatto un essere equiparabile all’uomo, cioè una persona. Anzi, un fratello.
 
“L’uomo, infatti, riconoscendo che anche gli animali hanno una faccia (due occhi, spesso supremamente belli e buoni, naso, bocca, fronte), ammette implicitamente che gli animali sono suoi fratelli”.
 
Sono creature che “quanto lui partecipano del mistero e il dolore e il cammino della vita”. Compagni di strada e di sofferenza che tuttavia non possono rivendicare alcun diritto. Sono un “immenso popolo muto” costituito da una moltitudine di “piccole persone”.
Piccole, non in un senso gerarchico, in un’accezione che si riferisce a una qualche minorità o inferiorità, bensì nel senso di un’oppressione subita da un tempo immemore, di una straziante negazione operata dall’uomo.
Il concetto di persona implica l’io, l’individuo. Ma l’io implica l’altro, gli altri. L’io, per Ortese, è “tutt’uno con la diversità e lacompassione”. È quindi un concetto plurale di solidarietà tra i viventi.
Che cosa interviene dunque a infirmare e inficiare questa fraternité ontologica? Il concetto di utile, soprattutto monetario, ovvero “l’inumano Denaro” assurto a divinità che annulla oggi legge naturale in nome di una logica di sfruttamento e di prevaricazione. A cui corrisponde la reificazione di tutte le anime viventi (i subumani) che non dispongono di denaro e che pertanto sono relegate in un “inferno” che l’uomo “ha realizzato per i più deboli”.
Ma così facendo l’uomo si è disumanizzato, è divenuta una nullità.
Perché l’uomo, o è pietà e speranza – e raramente lo è – superando i suoi limiti, o è condannato alla negazione di se stesso, al pari di quella natura che ha ridotto ad “Allevamento”, a vita artificiale e meccanica.
Se l’uomo pertanto è il distruttore per antonomasia, è però anche il soggetto principale di una residua speranza.
 
“Nessuno degli animali che conosciamo ha affermato il principio della pietà, come l’animale-uomo. La natura conosce soltanto il principio dell’amore in quanto partecipazione di un godimento, e davanti al dolore ritorna indietro”.
 
Solo l’uomo può superare i limiti dell’amore, insieme a quelli del dolore e della morte, per mezzo di una sua virtù, ancorché quasi sempre disattesa, di compassione.
In ciò sta forse il cristianesimo non cristiano di Anna Maria Ortese (2). E il suo umanesimo misantropico (3).
La storia dell’uomo è certamente una “storia di violenze, di sopraffazioni, di sangue”, ma è pure la storia di un “ente” che vive nella natura e di uno “sguardo” che penetra profondamente nella natura “per conoscerla, giudicarla, e, infine, compatirla e rifiutarla insieme”.
Questa ambiguità umana spiega la ragione dell’apparente oscillare della Ortese tra posizioni opposte di inclusione e rigetto dell’uomo dall’armonia, ancorché “devastante”, della vita.
Per l’uomo, d’altronde, non esiste altra via di salvezza se non quella della solidarietà e della compassione nei confronti di tutto ciò che palpita, di un atteggiamento di “rispetto e tenerezza” nei suoi confronti. E il fatto che egli non la percorra che in rarissimi casi, quest’erta difficile e impervia, non significa che non la possa e non la debba percorrere.
 
“Non è possibile che un uomo il quale ami veramente l’altro uomo, cioè tutti gli uomini, e dica di lavorare per essi, svolga questo lavoro con tutta la delicatezza e la profondità necessaria, se il suo cervello non ha mai avvertito la vastità e vita delle cose che sono intorno all’uomo, e che, siano alberi o animali, si chiamano però Natura; se della Natura ha spavento, e quasi odio, e certo disprezzo, come sento da moltissimi uomini della nuova generazione”.
 
Ne consegue che non è possibile amare l’uomo che non ama la natura, che ha cioè accettato la propria disumanizzazione. E purtroppo l’uomo si è arroccato nel suo gelido orgoglio intellettuale, meccanizzando il proprio rapporto con la natura fin quasi a essere del tutto rigettato dal suo ambito.
Per redimersi da questo degrado, all’uomo non restano che tre principi riguardo alla vita, sia quella di un fiore o dell’umanità stessa: “attenzione, cura, venerazione”.
Un compito improbo, forse talmente al di sopra dell’indole umana da giustificare gli sfoghi pessimisti della Ortese, il suo sconfortato sdegno. Non di meno un compito improrogabile che l’uomo non può delegare ad altri: “senza uomini non c’è vita possibile”.
Si pone dunque una centralità vitale dell’uomo, anche se ciò si traduce in una desolata constatazione di costante sconfitta e umiliazione per le “piccole persone”.
L’esperienza della Ortese, fin dall’infanzia, è in tal senso straziante.
 
“Vidi sangue animale dappertutto, prima della guerra, sempre sangue e silenziose agonie. Mi misi presto, e per sempre, dalla parte di questi – uso la parola senza esitazione – martiri della vita. Gli animali perivano uccisi nelle case, di nascosto ma non troppo per i bambini attenti, le festività teologiche (la Nascita, la Resurrezione) erano precedute da lamenti e massacri”.
 
Questa strage degli innocenti quotidiana, che non ha mai tregue, al contrario delle guerre tra gli uomini, insieme al disprezzo e alla mortificazione per la bestia schiavizzata, impone una scelta di campo.
L’episodio, raccontato anche altrove, del carrettiere che sputa negli occhi del cavallo schiantato dalla fatica è per la giovanissima Ortese la soglia del non più tollerabile: “Non ho amato più gli uomini, da quel momento”.
All’uomo che tradisce la sua missione non può essere accordato nessun rispetto, nessuna benevolenza: “No, non ho nessun reverenza per l’uomo incapace di ammirazione, di riguardo e di pietà per la terra e tutti i suoi figli”.
Tuttavia anche questo terribile anatema non è totale né definitivo. Occorre intanto chiedere perdono per i delitti della propria razza, come fa la stessa scrittrice, al capezzale di un gattino ferito a morte dalla ferocia umana. Inoltre, schierarsi con chi sceglie la pace fra tutte le specie (“Avanti i paesi che non uccidono più, ma ammirano e amano. Essi soli possono non meritare la guerra, ed ergersi contro la guerra”).
Infine, progettare una scuola “che formi le generazioni alla conoscenza della terra, e ai doveri dell’uomo verso tutta la terra”.
Il che costituisce un preciso programma politico, fatto di pochi punti essenziali: pacifismo, non violenza, ecologismo, educazione al rispetto ambientale, non intesi come fattori riconducibili esclusivamente agli interessi umani, bensì come compito attraverso il quale si forgia ed eleva l’umanità stessa nell’ambito di una Natura salvata.
 
“L’umanità si fa qui: e risiede nella giustizia e nell’amorosa cura e conservazione – da parte dell’uomo – di tutto il Pianeta e dei suoi umili figli”.
 
Da un lato quindi l’uomo com’è, spregiato e sfigurato in tutta la sua empietà, e dall’altro l’uomo come dovrebbe essere.
La frattura, lungi dal mostrare un atteggiamento schizofrenico, è in questi termini riassumibile e ricomponibile, benché in una prospettiva utopica, come un dualismo intrinseco all’uomo.
“Dal giorno che ho cominciato a comprendere certe cose (ed è un giorno remoto, appartenente alla prima giovinezza), non ho più amato sinceramente l’uomo, o l’ho amato con tristezza”, confessa la Ortese. Il destinatario di questa disamorata commiserazione è in realtà l’uomo disumanizzato, privato di ogni valore.
 
“Ma ho compreso che più l’uomo (e la donna) ignora le Piccole Persone, più indegno è di chiamarsi uomo, e micidiale è la sua autorità quando l’ha raggiunta, per gli uomini”.
 
Chi, dunque, può chiamarsi uomo e riacquistare o conquistare la propria dignità, è colui che si oppone a questa autodistruzione ristabilendo un rapporto di fraternità con le Piccole Persone, con il mondo animale di cui è parte e cuore (a condizione che non rivendichi alcun primato).
Se abbiamo eretto i macelli a “nostri altari” è perché “siamo iniqui, non umani realmente”. E tutto si spiega col fatto “che tante persone non umane governano il mondo”.
Il “Non-Uomo, l’atroce Inumano che da gran tempo ci tormenta” risiede nella ricusazione del “primo dovere” della nostra specie: il riconoscimento delle “Piccole Meravigliose Persone”, del loro diritto a non essere asservite, perseguitate, insultate e divorate.
Giacché l’uomo ha il suo fondamento esistenziale proprio in questo rispecchiamento nell’altro: “L’uomo è fatto di fraternità, quando si dice uomo si dice solo fraternità”.
Disconoscere ciò significa consegnarsi non solo alla morte spirituale, ma addirittura a un totale annichilimento: “l’uomo senza compassione è nulla, è un fenomeno fisico che potrebbe cessare di essere, e non cesserebbe nulla”.
Quella che la Ortese auspica è dunque una nuova umanità, che forse è il ritorno, vagamente platonico, a una coscienza che è “memoria” dei primordi, a “un’idea dell’uomo preesistente l’inizio dell’universo”.
Il concetto di umanità, nel travagliato e sofferto discorso della Ortese, è sempre esposto al rischio dell’equivoco, del malinteso, dello sconcerto e del disagio (“non comprendo che cosa significhi la parola uomo, quando essa non esprima quella capacità di sentire anche il dolore e il diritto di qualsiasi altro vivente, o anima vivente”). E certamente, quando l’uomo è cieco davanti a questo dolore (anche psicologico) che infligge agli animali, allora “ha figura umana soltanto, ma uomo non è”.
Allora, chi è l’uomo? Il “vero uomo”, s’intende. Cos’è? In cosa consiste il dilemma della sua doppiezza? Del suo consueto essere ciò che non è.
In una retro-prospettiva temporale, “la storia dell’uomo si definirà, da sola, come una storia del male”, in cui l’uomo non pone limiti, etici o normativi, alla forza con cui sconvolge e opprime la natura. Oggettivamente, quindi, la vicenda umana, la sua evoluzione (o involuzione), la sua affermazione, vanno poste sotto il segno di una violenza e di una iniquità sistematiche ed essenziali. Come una “caduta”, da un “dove” arcano che solo la poesia può ipotizzare, un “lutto” nella Creazione, che si è convertita in distruzione e disperazione, inarrestabile morire.
 
“Stupirò i miei lettori, e forse li scandalizzerò, affermando che, a mio parere, il nazismo non è affatto un momento storico, ma una dimensione immortale dell’uomo, e lo prova il fatto che, mancando le occasioni di esercitare il proprio potere su uomini inermi, lo si esercita a freddo sui figli inermi della natura”.
 
Più volte la Ortese insiste sul parallelo tra la sorte degli ebrei nei campi di concentramento e sterminio e la sorte che quotidianamente degrada, detiene, sevizia e distrugge gli animali, li trasforma in prodotti industriali, li riduce a cose che hanno unicamente un valore commerciale.
Il sadismo (e il nazismo) è quindi una costante imperitura nella storia umana. È la sua vertigine interiore. Il gorgo da cui si sente attratto e da cui viene inghiottito.
 
“Prudenza, dunque, nel parlare di colpa. Essa è dentro, una tentazione eterna, è vertigine prima ancora che caduta”.
 
La scaturigine d’ogni male è il “disprezzo per l’altro”. In ciò consiste il “terribile” e quel sadismo manifesto e osceno in cui si esprime “la sublimazione (mascherata) dell’indecenza umana”, come in certi riti sanguinari, quale per esempio l’uccisione del maiale.
Pur macchiandosi del delitto “immondo” di provare ebbrezza e godimento nell’infliggere dolore ad altri esseri viventi (a partire dalla caccia, in polemica con Goffredo Parise) l’uomo, soprattutto il povero e l’indifeso, non è oggetto di un ostracismo totale.
Anna Maria Ortese contesta radicalmente l’ideologia della supremazia umana, “il vecchio concetto mostruoso della sovranità dell’uomo su tutti i viventi di questo pianeta”. Arriva anche ad affermare (in un passo di terribile sconforto personale) l’inferiorità dell’uomo che, per sua “natura malata”, infligge sofferenze agli animali.
Ma “un torturatore di cani non può avere nessun diritto a chiamarsi uomo”. Uomo è dunque tutt’altro, che esiste, mentre il non-uomo è l’inesistente. E ha una possibilità di salvezza, dalla vertigine e dalla caduta, dalla colpa e dal degrado, se realizzerà una concordia con tutti gli altri esseri viventi (“È risalire che occorre. E, se appena possibile, tutti”). Né d’altra parte alla Ortese pare che il dolore umano abbia meno valore di quello animale: “davanti al dolore fisico tutti gli animali sono uguali. Anche l’uomo è un animale, e il suo dolore e la sua paura valgono quelli di altri animali”.
Bisogna però che smetta di bastonare la vita, di mettere al primo posto le esigenze del suo ventre, che ricorra a  un’intelligenza “priva di orgoglio” sprigionata da una calma “sensibilità morale”.
L’appello della Ortese è tutt’altro che vago, è un programma di attivismo per salvare il pianeta:
 
“L’uomo si alzi in piedi, veda quanto ha rubato, infierito sulla natura, depredato e straziato – e come questa vita di vandalo lo abbia stremato. Si alzi a ricostruire la terra che non era sua, era dono di tutti, e solo allora – se avrà fatto qualcosa di buono per questa terra e per i suoi abitanti tutti – osi parlare dei suoi strazi”.
 
È questa la responsabilità dell’uomo nei confronti dei suoi “fratelli minori” (come li definì Paolo VI “con tenerezza lombarda”) che altrove diventano “maggiori”, come a ribadire l’infondatezza di ogni gerarchia. Una responsabilità e un impegno morali, cioè di “solidarietà di tutta la vita con tutta la vita”. Un compito di rifondazione di una nuova cultura del soccorso e della fratellanza, dello stupore e dell’amore, della meraviglia e della pietà. Giacché “l’uomo senza conoscenza non è che un bruto”, seppure in cravatta.
Cultura che può svilupparsi solo in un contesto di comprensione del territorio, che vive insieme alla vita che ospita, come un tutt’uno a cui dobbiamo rivolgere un indivisibile amore.
In questa rinascita culturale e morale un ruolo importante dovrebbe essere svolto, ovviamente, dagli intellettuali, i quali però finora si sono mostrati latitanti e indifferenti, quando non addirittura conniventi con il male e del tutto indisposti ad assumersi colpe e responsabilità.
 
“Molti nostri piccoli e grandi intellettuali sono, a questo problema (dolore e vergogna per il dolore inflitto), quasi naturalmente sordi”.
 
Gli accorati appelli della Ortese sembrano loro un eccesso di sentimentalismo, di ipersensibilità, o comunque uno smarrire il senso delle proporzioni, la priorità di “ben altri problemi”.
Quasi nessuno si sottrae a questi alibi ipocriti, soprattutto in Italia (dove spicca, per contrasto, l’anomalia di Guido Ceronetti).
Nella visione della Ortese, invece, ogni problema, riguardo alla vita e al dolore, si tiene con gli altri e dovrebbe essere affrontato in questa sostanziale unità.
A costo d’incorrere nell’accusa di fare retorica, lo scrittore ha il dovere di denunciare la “ferocia vandalica” dell’uomo e la purezza delle Piccole Persone.
 
“E morire, oppure semplicemente lasciar cadere la penna senza averne mai parlato, sarà vergogna suprema per uno scrittore”.
 
Ecco quindi la motivazione fondamentale di questo libro, degli scritti che lo compongono. Testimoniare un’istanza per la vita, per ciò che è piccolo e soffre a causa della protervia dell’uomo (ed è, questo, un discrimine così importante che la Ortese stessa si interroga sul senso della propria opera sulla base di esso).
E all’uomo rivolge un monito terribile, tra Ovidio e Kafka, Pitagora e il Buddismo, affinché si ravveda e comprenda la coesione inseparabile della vita, il suo continuo divenire metamorfico.
 
“Perché vostro figlio può diventare un cane, forse non ci avete mai pensato, e un cane forse sta già diventando un uomo – in qualche posto segreto – e voi siete – nei libri eterni della Natura – già sostituiti”.
 
Il fascino di questa miscellanea, che unisce articoli più pragmatici a scritti suggestivi di più sottile trattazione, risiede proprio in certe enigmatiche considerazioni.
Mai, comunque, nemmeno negli interventi più accesi e polemici, la Ortese si produce in discorsi di mera propaganda o proselitismo, non limitandosi a ribaltare quella “rete di insufficienze, di superficialità, di volgarità” tipiche di una pseudocultura fatta di slogan.
Forse la fonte primaria d’ispirazione potrebbe individuarsi nel pensiero leopardiano (4). Ma si tratta di un Leopardi capovolto ed emendato.
Il concetto leopardiano dell’indifferenza della Natura alla sorte umana viene ampliato a un livello cosmico: “Per l’Universo, l’uomo, e la terra, non esistono neppure”. Sicché l’uomo, nella sua cecità nei confronti di ogni altro essere vivente, che egli sfrutta e distrugge, travolge e strazia, non fa che agire in concordia con le terribili regole universali.
 
“E vediamo a questo punto l’uomo – che non esiste per l’Universo inumano – allearsi con l’inumanità totale dell’universo in questo principio (o legge) che è proprio dell’universo: il più debole io – universo - non lo riconosco. ‘Il più debole, io, l’Uomo, non lo conosco!’ dice l’uomo, se non a proposito dell’universo, a proposito di altri uomini, animali, piante”.
 
Oggettivamente convergenti e rassomiglianti, quindi, l’inumano dell’universo e l’inumano dell’uomo, quasi che il secondo fosse il rispecchiamento del primo. Ma nella sua violenza devastante, nella forza terribile con cui spazza ogni cosa, perfino le più orgogliose città e civiltà, l’Universo può improvvisamente schierarsi dalla parte dei più deboli, sconquassando o addirittura annientando le società basate sul potere economico e tecnologico.
 
“Ed ecco l’Universo intero farsi alleato della Voce, dell’Anima Vivente – animale e uomo – che nel dolore infinito ha trovato di colpo la forza e la libertà di alzarsi contro il suo oppressore, e determinarne – con la sconfitta improvvisa del grado – la perdita di potere davanti alla Vita. Di colpo, il denaro non è più nulla davanti alla vita, né qualcosa è la legge dell’utile monetario”.
 
Questo sovvertimento del determinismo economico ristabilisce, in linea di principio, un criterio di equità e giustizia il cui motto è “Non si tocca!” scritto sulla fronte di ogni creatura (sia essa animale o uomo) ossia un limite all’arbitrio e all’abuso dell’utile e del denaro.
Tuttavia, ciò non è ancora un riscatto della terra, che necessita del concorso dell’opera umana. Non già nell’ottica della Ginestra leopardiana, ossia di una coesione sociale contro la bruta forza della Natura inclemente, seppure intrinsecamente donatrice di rigenerazione, bensì, come s’è visto, di solidarietà globale della vita con la vita, di federazione amorevole fra tutti gli esseri e lepersone. Cioè di una “religione della fraternità con la natura”, come quella testimoniata da un ragazzo inglese morto suicida perché non sopportava più il dolore inflitto agli animali, in cui la Ortese scorge “uno spirito celeste” capace di indicare “agli uomini le vie dell’umanità se vuole continuare a vivere”.
In conclusione, l’apparato teorico della Ortese, evocativo e commovente, forse talora zoppica e s’inceppa, o magari talora appare fallace e contradittorio, ma una sua lettura più attenta e aperta restituisce al tutto un’ispirata organicità.
E in ultima analisi ciò che davvero conta in questa sua arringa toto corde è che il pensiero animalista ortesiano (e torno a scusarmi dell’inadeguatezza di tale etichetta) sta alla base di un’opera senza pari, di splendida e struggente letteratura, che rimane una delle esperienze più alte della nostra narrativa, costituendo nel contempo la più appassionata perorazione dei diritti degli animali e di ogni essere vivente.
 
 

​
Note
  1. Cfr Marcello Benfante, “L’umanesimo animalista di Anna Maria Ortese” in Segno n. 216 giugno-luglio 2000
  2. “Non so se posso dirmi cristiana, ma temo di credere in Cristo, e nella sua rivelazione, come nella presa di coscienza della storia stessa. Senza Cristo, e quindi definizione del mondo come anti-mondo, anti-realtà, anti-vita, non vi è storia, ma inganno di ciechi fatti”, “Le Piccole Persone”, Milano, Adelphi, 2016, p. 134
  3. In una lettera del 10 aprile 1986, apparsa su La Stampa e riportata dalla curatrice Angela Borghesi nella sua postfazione (pp. 251-252), Anna Maria Ortese interviene, defilandosi, in merito alle polemiche sollevate dalla richiesta di alcuni intellettuali di concederle i sussidi previsti dalla legge Bacchelli per alleviare il suo stato di indigenza. Nella lettera la Ortese, pur dichiarandosi favorevole a campagne a favore di cittadini che hanno subito una “rovina morale”, di “casi veramente atroci” e soprattutto degli animali, accetta le conseguenze delle sue scelte, della sua “strada anomala per una donna” intrapresa fin dal 1937 con assoluta libertà e spensieratezza (“come se fossi nata ricca”). Rifiuta tuttavia di considerarsi una scrittrice “impegnata in una specie di critica sociale” e quindi di definire “utile” la propria opera. Afferma anzi di avere progressivamente “abbandonato il sociale e le sue guerre”, giungendo perfino a mostrare indifferenza e diffidenza nei confronti degli uomini (“Non sono più stata tanto favorevole all’umanità!”). Sono evidentemente dichiarazioni intrise di amarezza che sgorgano anche da una condizione di dignità ferita e distacco lungimirante, ma che difficilmente possono essere condivise dai lettori. Negli scritti della Ortese c’è una critica sociale (a partire dal rifiuto del potere distruttivo della supremazia economica) che passa proprio attraverso la difesa dei diritti degli animali e la tutela della natura, invocando una nuova solidarietà fra i viventi fatta di fratellanza. Si tratta di una scrittura sempre schierata con gli ultimi, i deboli, i poveri, che certamente non ha nulla (o pochissimo) a che vedere con il neorealismo o la letteratura dell’impegno ideologico, ma è radicalmente contrassegnata da un significato etico, e in quanto tale ha un intrinseco valore sociale. Anche le espressioni di più aspra misantropia confermano in ultima analisi l’umanesimo animalista della Ortese. In un momento di lucida disperazione la fede nell’uomo (“su cui avrei giurato”) le pare un “vuoto orizzonte” di “solitudine, silenzio e pericolo”. Ma l’averci giurato testimonia irrevocabilmente dell’importanza della questione nella sua opera.
  4. “Mi vengono in mente le sue parole, passano come uccelli in un cielo deserto, tutte, tutte le sue parole di luce, i vocativi affannosi e splendidi, le esclamazioni accorate, quelle frasi ampie e luminose come i giri concentrici del mare turbato da un sassolino; quelle immagini della Natura che dappertutto s’incontrano, specchiano, confondono; e tra fiorire di boschi e apparire di ninfe e raggiar di luna e cantar melodioso d’uccelli, quelle sue riflessioni disperate, che pare imitino talora il basso cupo delle acque o la tristezza delle gocce lunari” (“Da Moby Dick all’Orsa Bianca”, Milano, Adelphi, 201. P. 16)

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BERLINO 2016: ANOTHER BRICK IN THE WALL?

9/9/2016
Con questo articolo, una testimonianza di viaggio che riflette sullo scenario politico e economico della Germania e di Berlino, riprendono, dopo la pausa estiva, le pubblicazioni di Palermograd. Le elezioni in Meclemburgo-Pomerania registrano l’avanzata di Alternative für Deutschland che supera la CDU, il partito della cancelliera tedesca Angela Merkel. A due settimane dal voto del 18 Settembre di Berlino è difficile pensare che non potranno esserci ripercussioni sul quadro nazionale governato dalla Große Koalition. 

 “Härte allein hilft nicht in der Rigaer Straße”, titolava il 13 luglio scorso il quotidiano tedesco Tagesspiegel: “a Rigaer Straße il solo uso della forza non aiuta”. Questa estate mi sono imbattuto, un po’ per caso e un po’ per necessità, nel corso delle ormai consuete vacanze a Berlino, nel distretto di  Friedrichshain, nella vicenda della vertenza di Rigaer Straße 94. Avevo già letto della rivolta dei linksautonomen a Berlino-Est su Il Manifesto (18.07.2016): a fine Giugno scontri tra attivisti politici e polizia, feriti e arresti, per difendere dallo sgombero delle forze dell’ordine lo stabile occupato di Rigaer Straße, Hausprojekt in der R.S.94. E oggi la vertenza relativa alle questioni abitative è diventata uno dei temi più scottanti della campagna elettorale che si chiuderà il 18 Settembre con l’elezione della Camera dei Deputati e delle assemblee municipali della città-Stato di Berlino. Il punto è che il test elettorale non potrà non avere riflessi e ricadute più generali sull’attuale Große Koalition di Merkel e Schäuble.

Berlino ha fin dai primi anni ’70 del secolo scorso un’interessantissima storia, per altro a me quasi del tutto sconosciuta, relativa allo squatting, all’occupazione da parte di singoli e gruppi politici di immobili non abitati. Nella RFT le occupazioni spesso erano legate all’emersione del movimento che, esploso nel ’68, era portatore delle tendenze politiche e sociali di protesta di quegli anni, confliggenti con gli apparati di potere e le strutture egemoniche capitalistiche. Giovani studenti, immigrati, disoccupati, fricchettoni, attivisti ambientalisti, militanti pacifisti, punks, un movimento esplosivo,  ricco e creativo che ha contribuito a creare non solo spazi di opposizione e controcultura ma anche luoghi nei quali sperimentare forme, alternative al modello dominante, di cooperazione, partecipazione e economia solidale.
 
A partire dagli anni ’90, a seguito del processo di annessione della RDT alla RFT, le occupazioni si sono estese anche a Berlino Est, generate tra l’altro dall’incertezza giuridica determinata dal vuoto legislativo che in un primo momento segnò il crollo del socialismo reale. Ne seguì un processo di occupazione di massa di qualche centinaio di stabili non abitati, molti dei quali abbandonati da gente che si trasferiva ad Ovest, che fu poi completamente legalizzato (almeno per le occupazioni che precedettero il luglio del 1990). Insomma, Berlino vanta una storia, contraddittoria e complessa ma anche abbastanza remota e radicata nella coscienza civile dei suoi cittadini, di ferma opposizione al processo di gentrification, caratterizzato dalla rimozione più o meno violenta di quartieri ad alta densità popolare sostituiti da zone residenziali con abitazioni di lusso per la ricca borghesia delle professioni e dell’impresa, che ha imperversato, da trent’anni a questa parte, in tutte le grandi città europee. Negli ultimi anni, a Berlino, i prezzi delle abitazioni sono cresciuti da 1.500 euro al metro quadro ai 3.000 euro di adesso e probabilmente, considerando il prezzo degli immobili nelle altre grandi città europee, il trend in aumento non tenderà ad arrestarsi. La stessa politica praticata dalla BCE con tassi di interesse pari a zero favorisce, peraltro, l’esplosione di bolle sul mercato immobiliare.

A dimostrazione dell’opposizione a che il centro della città, soprattutto a est, venga trasformato in una vuota vetrina a uso e consumo di commercianti e turisti o in un candido e specchiato salotto per i benestanti, parla la solidarietà manifestata dagli abitanti nei confronti degli squatters. Di fronte agli sgomberi forzati prende forma la volontà di non lasciare la città nelle mani della speculazione immobiliare. Sul Tagesspiegel del 12 Luglio, che non è certo un quotidiano particolarmente vicino ai radicali di sinistra, si poteva leggere: “Jetzt reden Anwohner: Anwohner der Rigaer Straße fordern ein Ende der “sinnlosen Polizeieinsätze” und eine “transparente Informationspolitik” vom Senat. Die Polizei führt nun keine Personenkontrollen auf dem Gehweg mehr durch”. (Adesso parlano gli abitanti: i residenti di Rigaer Straße chiedono la fine delle “insensate operazioni di polizia” e una “più trasparente politica di informazione” da parte del Senato. La Polizia ora non effettuerà più alcun controllo per strada delle persone). Il consenso che esperienze politiche come quella di Hausprojekt 94 hanno sedimentato è ampio e profondo, come dimostrano anche articoli come quello apparso sul Berliner Abendblatt del 23 luglio, intitolato “zwischen Protest und Frust” (tra protesta e frustrazione), che significativamente  evidenziava la sconfitta di quanti avevano pensato, in particolare il ministro degli interni Frank Henkel (CDU), di risolvere la crisi di Rigaer Straße 94 criminalizzando il movimento e riducendo il tutto a un problema di ordine pubblico.    

La storia di Rigaer Straße 94, e più in generale dei movimenti di protesta in Germania, ci racconta di un paese non pacificato e nel quale non mancano i soggetti che incarnano e danno espressione politica ai motivi della protesta e del dissenso. Proprio Berlino, la città che durante la guerra fredda era stata il simbolo non solo della separazione della Germania ma della stessa divisione in Europa e, inoltre, della capitolazione del socialismo reale di fronte alla schiacciante vittoria del capitalismo,  adesso testimonia, ironia della storia, della necessità di riaffermare la priorità da assegnare alla politica piuttosto che al mercato. In fondo è questo il significato da attribuire alle rivendicazioni che aspirano all’idea che la redistribuzione delle risorse e le risposte ai bisogni sociali (abitazione, istruzione, sanità, pensione) passino per la prima istanza, di governo razionale delle dinamiche e dei processi sociali, e non per la seconda, di affidamento esclusivo al libero gioco delle forze del mercato. La crisi globale degli ultimi anni ha costretto persino un settimanale filogovernativo come Die Zeit ad ammettere che il dogma del libero mercato ha indebolito l’economia e aumentato le disuguaglianze (Mark Schieritz, Tod eines Dogmas, (Morte di un dogma, 05.06.2016).

Certo, non c’è dubbio, la Berlino della RDT era soprattutto quella raccontata da Anna Funder (C’era una volta la DDR, Feltrinelli, Milano, 2005), ma non si capisce nulla degli orrori della Stasi  se non si riconosce (beninteso, comprendere non vuol dire giustificare), che quel regime garantiva, in cambio dell’impunità dei burocrati che gestivano il monopolio del potere politico, diritti sociali ora ampiamente inevasi. D’altra parte, se Berlino è oramai la capitale oltre che della Germania, nei fatti, anche di un’Unione Europea segnata dal timbro delle politiche dell’austerità, è pur vero che, per la sua storia remota e recente, resta una città che, entro il panorama delle grandi metropoli europee, continua a mantenere proprie spiccate peculiarità.

In fondo Berlino Est vive ancora oggi, a distanza di più di venticinque anni, gli effetti del processo di annessione e colonizzazione che ebbero luogo, ad opera della RFT, a partire dall’unione monetaria del 1990. Guido Gentili, qualche anno fa, sul Sole24ore (I 20 anni tedeschi sono meglio dei 150 italiani, 05.10.2010) sentenziava di una raggiunta parità tra Est e Ovest della Germania, e ne inferiva la conclusione che Mezzogiorno d’Italia ed ex RDT avrebbero camminato a ritmi ben diversi. Al di là di affrettate interpretazioni che hanno apologeticamente narrato di una riunificazione paritaria, e per lo più riuscita, forse sarebbe meglio utilizzare altre griglie interpretative. Che si debba parlare di vera e propria annessione lo riconosce anche Michael Gehler nel suo Le tre Germanie, (Odoya Library, Bologna, 2013) sottolineando correttamente come ai sensi dell’articolo 23 della Grundgesetz, si sia trattato di un’adesione della RDT alla giurisdizione della carta costituzionale della RFT. E così la RDT sarebbe stata, testuali parole, “inghiottita” (Le tre Germanie, Odoya Library, Bologna, 2013, p.285).

Vladimiro Giacchè ha spiegato in modo esemplare che le conseguenze economiche dell’Anschluss del 1990 furono ben diverse da quelle raccontate dal mainstream dominante: “la narrazione ufficiale dell’unificazione (…) racconta di un’economia in rovina distrutta da 40 anni di socialismo, alla quale con il marco tedesco viene portato il benessere e lo sviluppo. Parla di uno straordinario successo economico, il cui peso è stato generosamente sostenuto dalla Germania ricca che ha deciso di condividere il proprio modello vincente, l’economia sociale di mercato, con la Germania povera. Racconta di infrastrutture ricostruite e di centri storici risanati (e questo è vero). Racconta degli oneri sopportati dall’Ovest per ricostruire i Länder dell’Est, e di una solidarietà della cui opportunità è sempre più difficile convincere i cittadini dell’Ovest col passare degli anni (…). Purtroppo le cifre ci raccontano una verità ben diversa. L’impatto immediato dell’unificazione economica sulla Germania Est è sintetizzabile in poche cifre. In due anni, dal 1989 al 1991, il prodotto interno lordo segna un -44 per cento, la produzione industriale addirittura un -67 per cento; i disoccupati ufficiali (quelli registrati come tali negli uffici del lavoro) sono 830.000; ma, soprattutto, il numero degli occupati scende di oltre 2 milioni di unità (2.095.000), dagli 8,9 milioni del 1989 ai 6,8 milioni del 1991.” (Anschluss, l’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur, Reggio Emilia, 2013).      
     
D’altra parte non era scritto da nessuna parte che con il crollo del muro di Berlino si dovessero barattare le libertà politiche con l’adesione incondizionata al modello del libero mercato. Alessandro Somma nel suo L’altra faccia della Germania ricorda che, all’indomani della caduta del Muro, nel Novembre del 1989, un appello sottoscritto da più di un milione di persone chiedeva che oltre ad abbattere le strutture staliniste penetrate in tutte le sfere della vita venisse promossa la nascita di una società solidale nella quale fossero assicurate pace e giustizia sociale, libertà e tutela dell’ambiente. Nello stesso appello, scrive sempre l’autore, si faceva presente il pericolo che il corso degli eventi seguisse una direzione ben diversa, che avrebbe comportato la svendita dei nostri valori e che si sarebbe concluso solo quando la Germania dell’Ovest avrebbe fagocitato quella dell’Est. (L’altra faccia della Germania. Sinistra e democrazia economica nelle maglie del neoliberalismo, DeriveApprodi, Roma, 2015, pp.21-22).

Ma torniamo al presente. Sono oramai abbastanza diffusi gli studi che avanzano la tesi secondo cui la strategia sperimentata nei confronti della RDT per acquisirne il patrimonio industriale e la ricchezza economica, ossia la conversione alla pari del Marco orientale e occidentale, sia stata adottata dalla Germania, una volta istituita l’area dell’euro, per assoggettare alle proprie priorità economiche i paesi più deboli, soprattutto quelli dell’area Mediterranea dell’Unione Europea. Attraverso il vincolo monetario, le relazioni economiche tra la Germania e gli altri partner europei, sembrano sottostare alle stesse dinamiche (crescita esponenziale del debito, politiche recessive dettate dalla ricetta dell’austerità, tagli alla spesa pubblica, distruzione dello stato sociale, privatizzazioni) che hanno condotto alla svendita e all’espropriazione dell’intero patrimonio industriale della ex RDT. È evidente che si tratta di un modello di crescita economica che lega in un nesso strettissimo il rialzo del saggio di profitto alle esportazioni e che tuttavia avvantaggia, in presenza di una valuta unica e dunque in assenza di svalutazioni e di limitazioni tariffarie o di altro genere alla circolazione delle merci, i paesi che sul mercato mondiale sono tecnologicamente più sviluppati. Domenico Moro scrive che “il mercato internazionale autoregolato, in ambito capitalistico, determina uno scambio ineguale e produce un effetto di allargamento dello squilibrio tra i vari Paesi, penalizzando quelli più arretrati. (…) Ne è un chiaro esempio nell’area euro la Germania, che ha realizzato, proprio a partire dall’introduzione della valuta unica, una crescita del Pil pro capite molto più veloce rispetto a quella di altri Paesi come l’Italia, la Francia e la Spagna. (…) La competitività di prezzo della Germania, tra il 2010 e il 2012, è aumentata molto più di quella dei suoi partner dell’euro come Francia, Italia e Spagna. Il risultato è, per l’appunto, l’enorme surplus commerciale della Germania, il secondo mondiale in valore assoluto dopo la Cina, al quale corrisponde il debito commerciale degli altri Paesi europei meno avanzati (Globalizzazione e decadenza industriale, Imprimatur, Reggio Emilia, 2015, pp.111-112).

Non bisogna dimenticare, inoltre, che in Germania la centralità che, storicamente, almeno dalla fine della seconda guerra mondiale, è stata attribuita alle esportazioni, secondo una logica competitiva che non dovrebbe però sussistere all’interno di un'unica area comunitaria, si è fondata, a partire dal governo Schröder, non più sull’innovazione di processo ma soprattutto su politiche del lavoro finalizzate a mantenere basse le retribuzioni e l’esenzione dei contributi sociali. I Minijob e i Midijob, introdotti dalle riforme Hartz, hanno precarizzato le condizioni di lavoro, aumentato la competizione tra i lavoratori e creato un esercito di circa sette milioni e mezzo di lavoratori con un impiego marginale. Le riforme Hartz, attraverso un calo del salario reale del 6%, hanno permesso allo Stato tedesco di diminuire i costi dell’apparato produttivo nazionale e, per questa via, che in altre parole è quella della svalutazione interna, procedere ad un incremento della competitività estera. Come ricorda in un intervista lo studioso dell’Università di Jena Klaus Dörre, “das deutsche Beschäftigungswunder hat eine dunkle Seite. Es beruht darauf, dass es einen Niedriglohnsektor gibt, der kontinuierlich zwischen 22 bis 24 Prozent der Beschäftigung” ( il miracolo del lavoro tedesco ha un lato oscuro. La soglia dei lavoratori a basso salario oscilla costantemente tra il 22 e il 24% del totale degli occupati), (Anita Staudacher, Kurier.at, 02.08.2016). Recentemente la Süddeutsche Zeitung riferiva che gli stessi pensionati tedeschi ricorrono sempre più spesso ai minijob, sono quasi un milione quelli di età superiore ai 65 anni. Segno di un aumento della povertà anche presso gli anziani. Per non parlare, scrive ancora Somma, “del numero delle persone scese sotto la soglia della povertà, impressionante per il quarto Paese al mondo per produzione di ricchezza, nel quale la disoccupazione è oltretutto scesa nel tempo: se nel 2006 i poveri erano meno di 2,4 milioni, nel 2013 si è superata quota 2,8 milioni, pari al 15,5% della popolazione” (L’altra faccia della Germania, pp. 134-135). Entro questo scenario spiccano i dati negativi registrati dalla capitale tedesca in fatto di disoccupazione (10,7% della popolazione in età lavorativa), sussidi economici relativi all’Hartz IV ( a Giugno del 2016 ne fruiva circa il 16% dei cittadini di Berlino a fronte di un dato nazionale attestato al 7,7%) e tasso di povertà (il 20%, un quinto dei berlinesi nel 2014).  

La lotta al costo del lavoro con conseguente contrazione dei salari reali, calo dei consumi e stagnazione della domanda interna è, naturalmente, continuata sotto il conservatorismo patrimoniale, così lo ha definito Massimo D’Angelillo, di Merkel e Schäuble. Secondo D’Angelillo gli anni della Merkel, gli anni della crisi scoppiata nel 2008 e della grande paura, sono stati gli anni di un’ulteriore svolta che ha sancito la consacrazione della Germania a paese guida dell’Europa. Il problema è, scrive sempre l’autore, che l’asse strategico dell’iniziativa economica ha spostato il proprio baricentro proprio sulle conseguenze finanziarie e patrimoniali degli straordinari avanzi della bilancia commerciale i cui investimenti possono generare, se indirizzati ad esempio nei titoli di debito pubblico di altri paesi, rendite enormi. Se la Merkel fa dunque delle banche e dei detentori dei grandi patrimoni finanziari i propri principali referenti sociali, non c’è da stupirsi che, nella fiorente e ricca Germania, aumentino le disuguaglianze. Ancora nel 1990 il decile superiore dei cittadini tedeschi deteneva il 33% dei redditi complessivi, nel 2010 l’ammontare era diventato del 37%. Infine, è del tutto ovvio che “questa crescente diseguaglianza con quote di Pil che si trasferiscono dai ceti più poveri, connotati da un’alta propensione al consumo, ai ceti a più bassa propensione, contribuisca alla recessione e renda ancor più necessario ricercare compensazioni macroeconomiche innescando una maggiore domanda estera” (La Germania e la crisi europea, Ombre Corte, Verona, 2016, p.146).

C’è dunque una stretta connessione che da un lato lega le politiche fondate sulle esportazioni e sui surplus della bilancia commerciale della Germania al peggioramento delle condizioni di vita di una parte non insignificante dei suoi cittadini, costretti a subire segmentazioni sociali sempre più aspre e una redistribuzione delle ricchezze verso l’alto sempre più accentuata. Dall’altro lato, come è ormai risaputo, la stessa strategia fondata sul vincolo valutario, la spirale del debito e la risposta dell’austerità, tutte condizioni di possibilità perché possano reiterarsi gli avanzi commerciali tedeschi, determina nei paesi europei più periferici, e non solo in quelli se pensiamo agli scricchiolanti fondamentali dell’economia francese, i processi di divaricazione economica registrati negli ultimi anni. Del resto, nel momento in cui vige un’unione valutaria e viene meno la strategia compensatrice della svalutazione non resta altro che la compressione dei salari interni e la riduzione fiscale per le grandi imprese e i grandi patrimoni.

In conclusione, anche se apparentemente il modello tedesco sembra risultare vincente, nella realtà dei fatti esso sta producendo, se si assumono le ragioni dell’uguaglianza e della giustizia sociale, danni sempre più gravosi e costosi. A pagare sono non solo i paesi dell’unione monetaria più deboli come la Grecia e gli altri riconducibili all’acronimo PIGS, ma anche una buona fetta della stessa popolazione tedesca che si riconosce sempre meno nelle politiche della Merkel e dei suoi alleati socialdemocratici. Nasce da qui il successo di partiti, come l’AfD, che si presentano come antitetici al sistema e che cavalcano il populismo e la xenofobia. Tuttavia anche in Germania vi sono segnali che vanno in controtendenza, che, come l’esperienza di Hausprojekt di Rigaer Straße 94, indicano la possibilità di sperimentare l’opposizione e la proposta di una politica differente. Perché l’uso della forza e dell’austerità, a Friedrichshain come nell’intera Unione Europea, quasi mai risolve i problemi.
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