GATTOPARDI BORGHESI
12/8/2015
di Vincenzo Scalia
Diamo conto – attraverso la lettura di Vincenzo Scalia - di un libro in parte penalizzato da problemi distributivi ma che sta godendo di un meritato “successo di culto”: il romanzo storico TROPPO, TROPPO TARDI di Alessandro Locatelli. L’incontro, sul finire degli anni Sessanta, tra il giornalista con ambizioni di scrittore Luigi Lago e i sei rampolli (tre sorelle, tre fratelli) di una famiglia palermitana già “grande-borghese”, ci permette di seguire il processo di decadenza di questi sciroccatissimi Buddenbrook nostrani attraverso vicende all’insegna ora della comicità, ora della tragedia, a volte della malinconia. Con tutte le varianti principali del gattopardismo isolano dell’epoca: dalla futilità colta al beau mariage democristiano, dall’autodistruzione alle smanie neofasciste. I libri contemporanei si presentano spesso sotto le vesti di un pastiche. Sarà il post-moderno che ha appiattito anche i generi. Oppure, più prosaicamente, le esigenze del mercato stimolano gli autori a cucinare un piatto misto dove un pizzico di brivido, una spruzzata di dramma, una punta di humour si sovrappongono, come una pietanza da fast food, ad essere assaporate per poi disperdersi senza lasciare traccia, rendendo un libro intercambiabile con l'altro, senza lasciare tracce particolarmente profonde nella memoria e nella sensibilità del lettore. L'ultimo libro di Alessandro Locatelli, nel panorama contemporaneo, costituisce una notevole eccezione, che forse spiega il perché gravita immeritatamente nei circuiti letterari secondari. Troppo, troppo, tardi, è un lavoro che contiene una pluralità di registri e di significati: è letterale, è allegorico, è comico, è tragico, è grottesco, ma ognuna di queste sue caratteristiche riesce a rimanere distinta, arricchendosi, senza perdere la propria specificità, nel confronto con le altre. Cosa sono l'Italia, la Sicilia, la società contemporanea per Locatelli? Una famiglia torbida, incestuosa e decadente, gonfia di rancori, livida di rimpianti maturati all'ombra dell'opportunismo più becero, che si nasconde sotto la coltre della gentilezza e del decoro più triviale, dal quale ovviamente, rimangono esclusi i servi, trattati come schiavi o come oggetti di piacere. Questa decomposizione insana talvolta assume i caratteri della tragedia, altre della commedia, finendo per attrarre nel proprio vortice gli intellettuali, che non riescono a mantenere la lucidità per analizzare, contrastare il putridume che avanza e prenderne le distanze. L'esito finale è un gioco infernale a somma zero, dove le speranze di invertire, rovesciare, o addirittura sconfiggere la catastrofe minacciosa vengono soffocate sotto la stretta degli opportunismi e le vigliaccherie di turno. Un contesto così cupo e distruttivo, tuttavia, non spinge Alessandro Locatelli a cercare di utilizzare uno stile narrativo ad effetto. Niente iperboli, crudezze, né imitazioni manierate degli hard boiled americani di cui pullulano le librerie, né ricorso a improbabili personaggi. Ognuno degli attori di questo lavoro, infatti, si presenta con la propria umanità, dove le luci e le ombre si alternano ma una caratteristica alla fine prevale. L'autore sceglie uno stile narrativo, limpido, asciutto, e da ogni parola trasudano la pregnanza e l'intensità delle situazioni descritte, con un ritmo narrativo che riesce ad essere incalzante senza mirare alle viscere del lettore. Ne emerge un quadro vivido, profondo, che invita ad una riflessione triste sugli ultimi anni di storia del nostro Paese e della Sicilia. Se non è possibile opporsi, ribellarsi ricominciare, se la vigliaccheria e l'opportunismo avvolgono il tutto, sembra suggerire Locatelli, non rimane che attaccarsi alle piccole cose, ai Rolling Stones, a Franco e Ciccio, ai libri. Ma non è detto che anche queste bastino a lungo... TROPPO, TROPPO TARDI di Alessandro Locatelli, Robin, 2013, pp.320.
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TU CHIAMALE SE VUOI, ILLUSIONI
6/8/2015
di Roberto Salerno 6 agosto 2015
Nell'articolo dell'11 febbraio scorso (So’ boni, so’ greci. La vittoria di Syriza e del suo leader) si cercava di spiegare perché non fosse il caso di attendersi particolari buone notizie da Atene. L'idea di fondo era che i rapporti di forza all'interno della società greca non erano tali da poter arrivare a difendere il fantomatico “piano B” (che, inutile girarci attorno, è la Grexit) nei confronti della troika europea. Le buone notizie non sono arrivate e anzi il governo Tsipras sembra stia mestamente imboccando la deriva conosciuta da tutte le forze “radicali non comuniste” che si sono contraddistinte in questi ultimi anni, forse decenni: tentativo chissà quanto convinto di imporre agende diverse--> sconfitta--> passaggio parlamentare con pacchetto di provvedimenti approvato con il voto contrario della componente di sinistra e con il soccorso di forze di centro destra--> espulsioni (o scissione) delle ali più intransigenti--> tentativo di alleanze al centro--> scivolamento nella difesa dell'esistente--> adattamento alle pratiche degli avversari con la scusa della sopravvivenza. Di idea diversa sembra Tommaso Baris che nel pezzo Grecia: La lotta deve continuare ritiene che l'esperienza Tsipras sarebbe quanto meno servita a dimostrare che “non esiste un altrove in cui rifugiarsi per sfuggire al capitalismo mondiale” e che sia del tutto illusorio ritenere che una vittoria su scala nazionale possa mettere in discussione le politiche europee. A dire il vero Baris si muove con cautela, non escludendo in via ipotetica che un Paese più forte (l'Italia? la Spagna?) possa raggiungere risultati differenti. La mancanza del piano “B” in Grecia - sembra potersi dedurre - non è casuale, ma relativa al fatto che nelle condizioni date è del tutto irrealistica. Ma, a differenza di quanto sostenevo io, le “condizioni date” vanno rintracciate nell'inesistenza di una mobilitazione su scala europea in grado di appoggiare, di far sentire il suo peso, di rendere meno isolato, Syriza e il suo leader. Baris pare un po' confondere quello che è un dato del problema – la mancanza delle mobilitazioni su scala sovranazionale - con un'opzione a disposizione della sinistra. Che non ci fosse la mobilitazione europea era chiarissimo anche a Gennaio e non si riesce a capire in virtù di quale miracolo la si sarebbe potuta ricreare in tempi brevi. A meno che Baris non pensi che la spinta propulsiva della vittoria elettorale di Syriza potesse servire come incentivo per i vari movimenti dispersi in giro per l'Europa. Ma se il nostro problema è (come in effetti è) la costruzione di un movimento che sia in grado di (almeno) trattare da posizioni di forza con le istituzioni reazionarie al comando dell'Europa intera, allora dobbiamo domandarci se l'operazione Syriza, e il suo leader, hanno rafforzato, agevolato, questa costruzione o no. Cioè se davvero una vittoria elettorale, ottenuta marginalizzando le forze comuniste e tenendo in minoranza le componenti più radicali del partito, possa servire. Dopo aver assistito ai tentativi di Varoufakis e Tsipras è difficile pensare che questa strada possa insegnare granché alle sinistre radicali europee. Come Baris stesso ammette è una durissima sconfitta quella che ci troviamo a commentare. Lo sgomento per come Tsipras ha interpretato il risultato del referendum, disorientando quanti stavano festeggiando la vittoria dell'OKI a mio modo di vedere non ha dato una gran mano a quella sinistra depressa che vaga senza nome. E forse è il caso di chiedersi l'effetto che avrebbe avuto, invece che “mi assumo la responsabilità di firmare un accordo che non mi piace”, il più lineare “mi assumo la responsabilità di non firmare un accordo che non mi piace”. Ma una vittoria elettorale ottenuta in quel modo – e in assenza per l’appunto di sostegni esterni – non ha dato scampo al gruppo dirigente di Syriza, lasciando Tsipras con la solita alternativa tra morire rapidamente o di morte lenta. Come ricordato con la consueta efficacia da Marco Palazzotto, (Grecia, la lotta continua se c'è un piano B) la triste verità è che – al massimo – il baratro è stato rinviato di qualche mese, visto che è solo questione di tempo e che la Grecia non potrà certo ripagare i debiti contratti, e aumentati dal nuovo prestito. Solo che - per tornare alle cose di casa nostra - la difficoltà nel costruire un soggetto europeo induce Palazzotto ad essere tentato da pericolose illusioni. Ammettiamo pure (senza concedere, magari se ne riparla) l'idea di un capitalismo che continuerebbe ad organizzarsi su base nazionale (un po' brusco e poco convincente il passaggio da un imperialismo imperniato sulla mitteleuropa ad un ruolo tedesco di tipo “nazionalistico”); in ogni caso, considerati i rapporti di forza, l'ipotesi che la gestione dell'exit venga affidata ad un governo di sinistra sembra essere persino più velleitaria di una qualsiasi ricomposizione delle aree antagoniste che si agitano in Europa. In Italia chi dovrebbe gestire il passaggio? Landini con gli amici dei leghisti tornati a Canossa? I vendoliani che continuano a farneticare di un “più Europa” e delle virtù di una moneta capace di creare meccanismi virtuosi e sperare in un ravvedimento delle istituzioni europee (che sono di una lucidità sconosciuta ai raffinati realpoliticanti di SEL)? I Rifondaroli persi tra la rincorsa di un'ipotetica brava gente e la paura di perdere persino quegli inesistenti risultati che vantano? C'è molto ottimismo, troppo ottimismo, nell'idea che una ricomposizione su base nazionale sia più agevole del tentativo di costruire una alternativa anticapitalista a scala europea. Siamo nel campo dell'utopia a breve termine ed è abbastanza avvilente che si cerchi di barcamenarsi tra quale delle due sia meno illusoria. Niente strade da percorrere quindi? In tempi di rotta dei propri eserciti non è di nessuna utilità proporsi la conquista delle casematte dei nemici. Nemici forti, preparati, con piani precisi, in grado di riprendersi senza neanche troppo sforzarsi i territori provvisoriamente ceduti. Se la sinistra è nelle catacombe, meglio che capisca che da lì non si esce attraverso scorciatoie, ma con traversate lunghe anni, cercando di non offrire ridicole sponde a destre più o meno mascherate come il PD o abborracciati movimenti carpentieri che costruiscono strade e che hanno posizione vomitevoli nei confronti di immigrati e movimenti radicali, salvo poi provare a strumentalizzarli quando pensano di poterci guadagnare qualcosa. Non è un problema di ritrovare – o, peggio, mantenere – purezze identitarie. Ma di cercare di non inseguire qualsiasi cosa solo perché si è d'accordo con una particolare posizione. Non si va con i leghisti perché si sono accorti delle incredibili conseguenze dell'adozione della moneta unica; non si va con i sognatori del vincolo esterno perché si è d'accordo con le loro posizioni sui diritti civili; non si va con i carpentieri grillini perché si è d'accordo sulla specifica questione della TAV. Non è alle posizioni istituzionali che deve rivolgersi la sinistra ma come sempre si dice – e come mai si è disposti a fare – ai vari movimenti che nonostante tutto anche in Italia si agitano. di Giovanni Di Benedetto
“La considerazione della verità è per un aspetto difficile, per un altro aspetto facile. Lo prova il fatto che nessuno può raggiungerla in misura adeguata, ma gli uomini, tutti insieme, non ne sono esclusi e anzi ciascuno può dire qualcosa intorno alla natura delle cose, e se uno per uno non si raggiunge nessun risultato o si raggiungono soltanto piccoli risultati, tuttavia, se ci si mette tutti insieme, si ottiene un risultato apprezzabile”. Così scrive Aristotele nel secondo libro della Metafisica. Certo, si sarebbe potuto riprendere la definizione aristotelica di verità secondo la quale “vero è dire di ciò che è , che è, e di ciò che non è, che non è”. Tuttavia, mi pare che lo spirito con cui Stefano Caputo, che insegna Teoria dei linguaggi all’Università di Sassari, si è cimentato nella stesura del suo bel libro pubblicato per i tipi della Laterza e intitolato, lapidariamente, “Verità”, sia più vicino alla prima valutazione del filosofo del Peripato più sopra rammentata. E in effetti, l’introduzione alle teorie della verità, proposta da Caputo, sembra richiamare una grande operazione collettiva nella quale studi, analisi e rispettivi convincimenti si confrontano e si misurano evidenziando punti di forza ma anche debolezze che danno luogo a legittime obiezioni Ma se il libro di Caputo aspirasse soltanto a questo, pur importante fine, potrebbe soltanto annoverarsi tra gli innumerevoli studi eruditi che circolano sull’argomento. Scrive l’autore: “ricerca e trasmissione di informazioni, cultura, conoscenza, ragionamento, convivenza pacifica e democrazia: al cuore di ognuno di questi aspetti centrali delle nostre vite incontriamo la verità” Il discorso, dunque, si fa più complesso. Ogni indagine della verità e della realtà deve fare i conti con il tema della convivenza pacifica e della democrazia. Il concetto di verità è, infatti, presente, in qualche modo, nelle pratiche democratiche nella misura in cui esse sono, o dovrebbero essere, pratiche di tipo argomentativo, e la nozione di verità costitutiva della concezione di buona argomentazione. Dunque, l’utilizzazione degli apparati teorici e degli strumenti logici e linguistici esaminati non potrà fare astrazione dal tema della politica e sarà funzionale alla realizzazione di una società democratica. Mi viene da pensare a come l’ordine del discorso dominante abbia oggi costruito una nuova metafisica, quella del monetarismo, sui principi teologici dell’austerità, del pareggio di bilancio, della sostenibilità del debito, della rigidità dei tassi di cambio e del libero mercato. Ebbene, il libro di Caputo può sorreggerci nell’individuare gli strumenti concettuali con i quali elaborare la verità della critica dell’economia politica da contrapporre alla fallacia della mistificazione capitalista. Andiamo allora con ordine. Scrivere di verità è stata una delle massime aspirazioni di buona parte della filosofia, almeno fin dai tempi della scuola di Elea e di Parmenide. È nel secolo scorso, tuttavia, che emerge la connessione del problema della verità con i progetti di costruzione di un discorso scientifico elaborato a partire dalla rielaborazione dei fondamenti logico matematici da un lato, e, dall’altro, con la polemica contro la metafisica, considerata un tempo, diceva già Kant alla fine del Settecento, la regina di tutte le scienze. È all’interno di questa cornice che Caputo espone, in un racconto denso e teoricamente serrato, una successione argomentata e logicamente coerente delle differenti teorie della verità, da quella della corrispondenza fino alle teorie quantificazionali e del pluralismo aletico. La versione tradizionale della teoria della corrispondenza, nello spiegare la natura della verità, si richiama alla necessità di ribadire la connessione tra parti degli enunciati ed entità della realtà extralinguistica. In essa si esprime la dipendenza della verità dalla realtà, ossia il fatto che la verità si dà a vedere nella misura in cui sussiste un accordo tra il portatore di verità e un’entità da esso rappresentata, sia essa concepita come un fatto o come un oggetto. Vanno annoverati all’interno di questa scena teorica, a vario titolo, i contributi di Moore, Russell e Wittgenstein e il suo isomorfismo strutturale. Insieme alle teorie corrispondentiste, vengono esaminate le teorie epistemiche che si concentrano sul rapporto tra la natura della realtà e i modi in cui possiamo pervenire alla sua conoscenza, in particolar modo l’analisi coerentista e le teorie pragmatiste (Peirce e Putnam). Merito delle teorie epistemiche è quello di provare a spiegare il ruolo normativo della verità mettendolo in relazione alle credenze e ai criteri di razionalità degli esseri umani. In questo modo, la verità delle proposizioni si estende ad ambiti del discorso non fattuali, come per esempio quello morale o quello estetico. Un posto centrale, nel libro, è occupato dal lavoro del logico polacco Alfred Tarski. Nello studio del rapporto tra le espressioni del linguaggio e i loro designati, Tarski ritiene possibile definire le condizioni di verità delle proposizioni più complesse a partire dalla definizione di verità delle proposizioni atomiche. L’esigenza da cui partiva il filosofo polacco era quella di proporre una nozione di verità scientificamente attendibile, che non precipitasse sotto il fuoco della polemica antimetafisica del neopositivismo logico e che riabilitasse, dunque, l’idea intuitiva di verità intesa come corrispondenza tra proposizioni e fatti. L’idea decisiva di Tarski è che, per evitare problemi insolubili e paradossi logici, non si possa definire in cosa consista l’essere vero in generale, ma solo in cosa consista l’essere vero per enunciati di specifici linguaggi, quei linguaggi cioè che non contengono fra le proprie espressioni la parola vero che si applica ai propri enunciati. Da qui l’esigenza di ricorrere a un metalinguaggio, cioè a un linguaggio che parli di un altro linguaggio, in cui sia possibile parlare degli asserti e dei fatti cui essi si riferiscono. L’opera teorica e logica del filosofo polacco è all’origine di alcuni degli sviluppi più importanti della riflessione sulla verità, sviluppi che arrivano fino ai giorni nostri. Dai suoi studi, infatti, si sono originate, in direzioni contrapposte, alcune delle riflessioni sulla natura della verità più acute e interessanti: il neocorrispondentismo, da un lato, e il deflazionismo, dall’altro. Quest’ultimo, nella sua versione moderata, sposata dall’autore, o in quella radicale (nichilismo aletico), rappresenta una posizione tendente a “sgonfiare”, dunque sminuire, lo spessore metafisico della verità che sarebbe dovuto a una sorta di allucinazione linguistica. L’idea centrale del deflazionismo è che “la verità non ha una natura da scoprire, non è cioè una proprietà di cui sia possibile fornire un’analisi in termini di proprietà più fondamentali”, anche se l’espressione è vero è un predicato, ossia un’espressione con la quale attribuiamo alle cose una proprietà: la verità stessa. In conclusione, mi sembra di poter dire che il libro, oltre ad occuparsi del problema di descrizioni scientificamente rigorose della realtà, possa indurre anche a riflettere su cosa oggi può essere il sapere (ed in particolare il sapere scientifico) e come questo può ambire a dire (e dunque cogliere) la verità. Un proposito non da poco, che Caputo pone a introduzione del proprio lavoro. Non c’è dubbio: non è possibile esaminare il problema della verità senza connetterlo al problema del soggetto portatore della verità. Insomma, è impossibile parlare della verità senza accostare logicamente questo tema alla politica, ossia al modo in cui si costruisce e si produce la verità. Qui, a mio avviso, si mostra il volto sfuggente, a cui si richiama l’autore nelle ultime pagine, della verità. L’ambiguità di ogni pretesa fondativa della verità si mostra cioè nel fatto che essa può essere intesa sia come principio di legittimazione di un determinato stato delle cose o ordinamento, sia come potente istanza critica dell’esistente e, dunque, del potere. Ecco, penso che il merito del libro di Caputo risieda, oltre che nella straordinaria chiarezza con cui viene esposto lo stato dell’arte in temi di così complessa astrattezza logica quali quello della natura della verità, nell’evocare, fin dalle prime pagine, tutto un insieme di problemi che rimandano alle strategie con cui la critica dell’esistente si connette alla relazione tra verità e politica. E, dunque, al modo i cui la verità della critica può scardinare la realtà fattuale del potere che, troppo spesso ai giorni nostri, pretende, come teorizzava apologeticamente, ma lontano dalla verità, Francis Fukuyama, di mostrarsi al mondo nella forma della fine della storia, ossia di una realtà data e, per ciò stesso, eterna e immodificabile. |
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Gennaio 2021
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